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Ingiusta detenzione, indennizzabile clamore mediatico? (Cass 12779/20)

23 aprile 2020, Cassazione penale

Indennizzo da ingiusta detenzione è strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, derivando il pregiudizio subito da una legittima attività dell'autorità giudiziaria.

L'equa riparazione scaturisce da un rapporto di solidarietà civile diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli, patrimoniali e non, procurate dalla privazione della libertà attraverso un sistema di chiusura con il quale l'ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente compressa, correlando, perciò, la quantificazione dell'indennizzo alla sola durata ed intensità della privazione della libertà, salvo gli aggiustamenti resi necessari dall'evidenziazione di profili di pregiudizio più vasti rispetto al fisiologico danno da privazione della libertà.

In tema di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della configurabilità del danno all'immagine cagionato dal clamore mediatico della vicenda processuale, occorre che la pubblica diffusione della notizia esorbiti dalle comuni modalità di informazione, sia meramente assertiva della responsabilità penale dell'interessato, ed abbia una durata tale da indurre nei terzi il convincimento dell'effettivo coinvolgimento dell'interessato.

Il danno da mancato indennizzo per la perdita di reddito è sempre onere della parte di allegare l'esistenza del danno, la sua natura ed i fattori che ne sono causa e, d'altro canto, il dovere del giudice di prendere in esame tutte le allegazioni della parte in merito alle conseguenze della privazione della libertà personale e, dunque, di esaminare se si tratti di danni causalmente correlati alla detenzione e se sia stata fornita la prova di dette conseguenze anche sulla base del fatto notorio o di presunzioni.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

 (ud. 04/02/2020) 23-04-2020, n. 12779

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente -

Dott. FERRANTI Donatella - Consigliere -

Dott. TORNESI Daniela Rita - rel. Consigliere -

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere -

Dott. PICARDI Francesca - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.S., nato a (OMISSIS);

avverso l'ordinanza del 13/03/2019 della CORTE APPELLO di CATANIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DANIELA RITA TORNESI;

lette le conclusioni del PG.

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza emessa in data 13 marzo 2019 la Corte di appello di Catania condannava il Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, a liquidare, in favore di G.S., la somma di Euro 4.009,11 a titolo di ingiusta detenzione subita in regime di custodia cautelare in carcere dal 25 gennaio 2005 al 10 febbraio 2005 per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 629 c.p. dal quale veniva assolto dalla Corte di appello di Catania con sentenza del 21 aprile 2016 con la formula perchè il fatto non sussiste.

1.1. Il giudice della riparazione, ravvisata la sussistenza dei presupposti per riconoscere il diritto del G. alla riparazione per l'ingiusta detenzione, ha ritenuto, di doversi attenere, quanto alla liquidazione dell'indennizzo, al criterio matematico, ritenendo non comprovate ulteriori conseguenze dannose derivanti dalla custodia cautelare in carcere.

2. G.S., a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione elevando i seguenti motivi.

2.1. Con il primo motivo denuncia l'inosservanza e/o erronea applicazione di legge in relazione al combinato disposto dell'art. 643 c.p.p., comma 1 sostenendo di avere comprovato il significativo danno all'immagine cagionato dall'ampia risonanza e diffusione mediatica della notizia della sua sottoposizione alla custodia cautelare in carcere che, anche in ragione dell'attività professionale di architetto, veniva pubblicata da diversi organi di informazione locale, con conseguente lesione del decoro e della sua immagine sociale. Sottolinea che il lamentato danno alla reputazione costituisce una autonoma voce di danno che, come tale, può e deve essere oggetto di specifica valutazione nella determinazione del risarcimento dovuto a titolo di riparazione.

2.2. Con il secondo motivo lamenta l'inosservanza e/o erronea applicazione di legge in relazione all'art. 643 c.p.p., comma 1, e il vizio motivazionale sottolineando che la Corte distrettuale avrebbe dovuto considerare, nella quantificazione dell'indennizzo dovuto, la perdita economica subita in quanto l'improvvisa sottoposizione alla misura cautelare coercitiva aveva comportato la revoca da diversi incarichi professionali.

3. Il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte, nella requisitoria scritta depositata in data 17 gennaio 2020, ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Catania per nuovo esame.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Si premette che l'istituto di cui agli artt. 314 c.p.p. e segg. è uno strumento indennitario da atto lecito e non risarcitorio, derivando il pregiudizio subito da una legittima attività dell'autorità giudiziaria. L'equa riparazione scaturisce infatti da un rapporto di solidarietà civile diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli, patrimoniali e non, procurate dalla privazione della libertà attraverso un sistema di chiusura con il quale l'ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente compressa, correlando, perciò, la quantificazione dell'indennizzo alla sola durata ed intensità della privazione della libertà, salvo gli aggiustamenti resi necessari dall'evidenziazione di profili di pregiudizio più vasti rispetto al fisiologico danno da privazione della libertà (cfr. sez. 4, n. 129 del 31/01/1994, Rv. 196974 e n. 1911 del 22/11/1994, Rv. 200002).

I principi fondamentali cui aver riguardo nella determinazione dell'indennizzo dovuto a colui che abbia subito una detenzione ingiusta sono stati chiariti da due pronunce rese dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U. n. 1 del 13/01/1995, Rv. 201035 e Sez. U. n. 24287 del 09/05/2001, Rv. 218975), alla cui stregua la liquidazione deve essere effettuata con criteri equitativi che postulano, ai fini dell'entità della riparazione, la valutazione congiunta dei criteri della durata della custodia cautelare sofferta e delle conseguenze derivanti dalla privazione della libertà.

La liquidazione va effettuata tenendo conto del parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell'indennizzo fissato dall'art. 315 c.p.p., comma 2, e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303 c.p.p., comma 4, lett. c) espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch'esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita che deve essere opportunamente integrato dal giudice, innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico nei limiti dell'importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità, positiva o negativa, della situazione concreta.

Ne consegue che, ferma restando la cifra massima stabilita dalla legge in Euro 516.456,90, il giudice della riparazione può discostarsi dall'ammontare giornaliero di Euro 235,82 (Euro 117,91 per gli arresti domiciliari), valorizzando lo specifico pregiudizio, di natura patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla restrizione della libertà dimostratasi ingiusta (Sez. 4, n. 10123 del 17/11/2011 Rv. 252026).

Lo scostamento tuttavia deve trovare giustificazione in particolari specifiche ripercussioni in termini negativi sotto il versante patrimoniale, familiare, della vita di relazione, della pubblica ripercussione dell'evento che non risulterebbero adeguatamente soddisfatte, quantomeno in termini di equo ristoro, in una valutazione aritmetica ponderata come quello agganciata al valore massimo indennizzabile diviso per la estrema durata della detenzione riconosciuta dalla normativa penai - processualistica. Sotto questo profilo si è affermato che, affinchè l'equità non si traduca in arbitrio incontrollabile, è necessario che il giudice individui in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di riferimento, la valorizzazione dei quali imponga di rilevare un surplus di effetto lesivo da atto legittimo (la misura cautelare) rispetto alle gravi, ma ricorrenti, e per così dire fisiologiche conseguenze derivanti dalla privazione della libertà, sia quale atto limitativo della sfera più intima e garantita del soggetto che come alone di credito sociale (Sez. 4, n. 21077 del 01/04/2014, Rv. 259237).

Sul piano più strettamente processuale, l'obbligo per il giudice di merito di prendere in esame ogni ulteriore pregiudizio dedotto dal ricorrente si desume dal rilievo per cui, se è vero che la riparazione per ingiusta detenzione si differenzia dal risarcimento del danno da fatto illecito sia per il profilo sostanziale della non necessaria integralità del ristoro, desumibile dalla fissazione di un tetto limite ai sensi dell'art. 315 c.p.p., comma 2, (Sez. 4, n. 39815 dell'11/07/2007, Rv. 237837), sia per il correlato profilo processuale dell'esclusione dell'onere della prova in merito all'entità del danno, desumibile dall'aggettivo equa utilizzato dal legislatore (art. 314 c.p.p., comma 1) è però costante l'affermazione della Corte di legittimità che, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, il principio dispositivo per il quale la ricerca del materiale probatorio necessario per la decisione è riservata alle parti, tra le quali si distribuisce in base all'onere della prova, è temperato dai poteri istruttori del giudice, il cui esercizio di ufficio, eventualmente sollecitato dalle parti, si svolge non genericamente ma in vista di un"indagine specifica, secondo un apprezzamento della concreta rilevanza al fine della decisione, insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della correttezza del procedimento logico (Sez. 4, n. 18848 del 21/02/2012, Rv. 253555).

Corollario di tale principio non può che essere l'onere della parte di allegare l'esistenza del danno, la sua natura ed i fattori che ne sono causa e, d'altro canto, il dovere del giudice di prendere in esame tutte le allegazioni della parte in merito alle conseguenze della privazione della libertà personale e, dunque, di esaminare se si tratti di danni causalmente correlati alla detenzione e se sia stata fornita la prova di dette conseguenze anche sulla base del fatto notorio o di presunzioni.

2.1. Orbene, nel caso in esame la Corte distrettuale ha ampiamente motivato la decisione di adottare, nel caso in esame, il criterio di liquidazione esclusivamente matematico sul presupposto che di detti pregiudizi concreti non era stata fornita prova adeguata.

Del resto le doglianze articolate nell'odierno ricorso circa l'esiguità del ristoro in relazione al danno sofferto si limitano a generiche e non autosufficienti affermazioni di un pregiudizio maggiore e diverso rispetto a quello che normalmente deriva, quale conseguenza inevitabile, dalla restrizione della libertà, costituendo, del resto, le allegazioni offerte dal G. conseguenze dannose ordinarie connesse all'ingiusta privazione della libertà.

Si rammenta peraltro che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto al giudice di legittimità che può solo verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento senza sindacare la sufficienza o insufficienza della indennità liquidata a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta.

Si soggiunge, per completezza, che il richiamo, da parte del ricorrente, a presunte violazioni dell'art. 643 c.p.p. risulta inconferente. Al riguardo è sufficiente considerare che il titolo privativo della libertà personale nell'ingiusta detenzione di cui all'art. 314 c.p.p. è provvisorio, soggetto a verifiche successive ed assistito dalla presunzione di non colpevolezza mentre ben diverse sono le conseguenze, anche familiari e personali, provocate da una condanna non più soggetta ad impugnazione e atta a rimuovere l'indicata presunzione, la cui liquidazione è pertanto svincolata dalla fissazione di un tetto massimo indennizzabile.

3.Più in particolare, quanto al primo motivo, osserva il Collegio che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della configurabilità del danno all'immagine cagionato dal clamore mediatico della vicenda processuale, occorre che la pubblica diffusione della notizia esorbiti dalle comuni modalità di informazione, sia meramente assertiva della responsabilità penale dell'interessato, ed abbia una durata tale da indurre nei terzi il convincimento dell'effettivo coinvolgimento dell'interessato.

3.1. Orbene, ciò non risulta accaduto nel caso in esame ove il periodo di restrizione in carcere è limitato ad un periodo temporale circoscritto (gg. 17) ed il venir meno della misura cautelare coercitiva è peraltro conseguita all'accoglimento, da parte del Tribunale per il Riesame, del ricorso proposto dal G. ed è, dunque, strettamente ricollegabile alle deduzioni difensive proposte da quest'ultimo.

4. In relazione al secondo motivo si osserva che la Corte distrettuale ha sottolineato, con argomentazioni congrue, l'insussistenza di elementi probatori idonei ad affermare che le revoche degli incarichi professionali nell'ambito di diverse società siano conseguenti all'interruzione dello svolgimento dell'attività di architetto a causa della sua sottoposizione a misura custodiale. Al riguardo si è affermato che le determinazioni cui erano pervenuti, il 7 febbraio 2005, i titolari sia della soc. coop. Edilizia C che della soc. coop. Edilizia P si fondavano sul rilievo del mancato deposito presso gli uffici urbanistici comunali dei progetti esecutivi con i relativi elaborati mentre non risultava comprovato se l'inadempienza contrattuale da parte del G. fosse, e in che termini, ricollegabile alla sua carcerazione oppure indipendente da tale evento in quanto già maturata in epoca precedente.

Parimenti la revoca, in data 10 novembre 2005, dell'incarico affidatogli dalla soc. coop. Edilizia A veniva motivata dal venir meno del rapporto fiduciario senza alcun accenno al suo pregresso stato detentivo peraltro, a quella data, ormai risalente nel tempo.

Ed ancora la rinuncia, da parte dello stesso G., allo svolgimento delle funzioni di direttore della soc. coop. Edilizia Q, era strettamente consequenziale alla disposta misura interdittiva contemplata dall'art. 290 c.p.p., cui non si estende l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione (Sez. 5, n. 42839 del 16/05/2014, Rv. 260761).

3. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2020