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Indicazione generica delle circostanze in lista testi: inammissibile (Cass. 7912/22)

4 marzo 2022, Cassazione penale

In tema di lista testimoniale, l'onere dell'indicazione delle circostanze di esame è soddisfatto anche con il semplice riferimento ai "fatti del processo" a condizione che si versi nell'ipotesi di un'unica contestazione di reato per fatti storicamente semplici, non valendo invece ciò ove la vicenda processuale sia complessa, gli imputati siano più di uno e molteplici siano i capi di imputazione.

La finalità dell'articolo 468 c.p.p., è quella di impedire la introduzione di prove a sorpresa consentendo alle altre parti la tempestiva predisposizione di proprie controdeduzioni: peraltro, la presenza di una leale discovery, costituita dalla tempestiva e precisa indicazione delle circostanze oggetto di esame, si parametra alla possibilità, riconosciuta alle controparti processuali, di avanzare la richiesta di prova contraria ex art. 468 c.p.p., comma 4; tale possibilità, però, può essere esercitata soltanto qualora siano state adeguatamente indicate le circostanze su cui si fonda la prova principale, perchè, diversamente, la prova contraria sarebbe, a sua volta, generica e perciò non introducibile, con conseguente lesione della parità delle armi.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Sent., (data ud. 21/01/2022) 04/03/2022, n. 7912

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SIANI Vincenzo - Presidente -

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio A. - Consigliere -

Dott. LIUNI Teresa - Consigliere -

Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere -

Dott. APRILE Stefano - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.A., nato a (OMISSIS);

S.P., nato a (OMISSIS);

D.L.C., nato a (OMISSIS);

D.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 25/05/2020 della CORTE d'ASSISE d'APPELLO di NAPOLI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere STEFANO APRILE;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. BIRRITTERI Luigi G., che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;

dato atto dell'assenza del difensore.

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di Assise d'appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza pronunciata in data 18 giugno 2012 dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, confermava, per la parte che qui interessa, la declaratoria di responsabilità degli imputati:

- B.A., D.G. e D.L.C. per il concorso tra loro e con altri nel duplice omicidio pluriaggravato di M.V. e V.I. (art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, artt. 81 e 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 3, e D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito con modificazioni dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, commesso in data 15 dicembre 1992 - Capo B);

- B.A. e S.P. per il concorso tra loro e con altri nell'omicidio pluriaggravato di D.C.L. (artt. 110 e 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 3, e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, commesso in data (OMISSIS) Capo E);

e, concesse a B. e S. le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 1, e art. 577 c.p., comma 1, n. 3, riduceva nei loro confronti la pena a trenta anni di reclusione, confermando la pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un anno irrogata a D. e D.L..

1.1. Le sentenze di primo e secondo grado sono conformi, salvo la riduzione della pena per B. e S. - derivante dalla concessione delle circostanze attenuanti generiche per l'ammissione di responsabilità effettuata nel giudizio di appello -, sotto tutti gli aspetti, essendo, piuttosto, stati acquisiti ulteriori elementi probatori a carico nel corso del giudizio di appello.

In particolare, la sentenza di primo grado aveva:

- affermato la responsabilità di B.A., D.G. e D.L.C. per il duplice omicidio di cui al capo B), esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 1, in quanto assorbita in quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 7;

- affermato la responsabilità di B.A. e S.P. per l'omicidio di cui al capo E), esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 1, in quanto assorbita in quella della D.L. n. 152 del 1991, art. 7;

- condannato D.G., D.L.C. e S.P. alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno, ciascuno;

- condannato B.A., previo riconoscimento del vincolo della continuazione tra i delitti a lui ascritti, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di anni uno e mesi sei;

- assolto per non aver commesso il fatto: D.P.M. da tutti i reati a lui ascritti, ad eccezione di quello di associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. (capo A); D.G. dal delitto di omicidio aggravato di cui al capo E) e dai connessi reati in materia di armi (capo F e capo G), violenza privata (capo H) e di cui all'art. 703 c.p. (capo I); S.P., V.S. e C.F. dal delitto di omicidio di cui al capo B) e dai connessi reati in materia di armi (capo C) e ricettazione (capo D);

- dichiarato la prescrizione nei confronti di tutti gli imputati B., D., S., D.L., D.P., V. e C. per il reato di associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. (capo A);

- dichiarato la prescrizione nei confronti di: B.A. in ordine ai reati di cui ai capi C), D), F), G), H) e I); D.G. e D.L.C. in ordine ai reati di cui ai capi C) e D); S.P. in ordine ai reati di cui ai capi F), H) e I).

A tale giudizio il primo giudice era pervenuto sulla base delle prove tecniche e di generica (tra cui spiccano l'autopsia, l'esame "stub" e le intercettazioni), delle dichiarazioni testimoniali dei testi oculari, dei parenti delle vittime, degli operanti, dei consulenti tecnici e di altri soggetti informati sui fatti nonchè dei principali collaboratori di giustizia Sc.Ca., Q.G. e D.T.A..

1.2. Lo scenario criminale in cui gli episodi sono maturati è, secondo la concorde valutazione operata dai giudici di merito, riconducibile ad una faida tra gruppi del "clan dei casalesi", denominazione storica della camorra dell'agro casertano, che ha una radicalizzazione specifica nei comuni di (OMISSIS) e di (OMISSIS), indicativa di un contesto criminale fluido che negli anni ha avuto vari assestamenti che modificavano gli assetti dei gruppi a prezzo di sanguinosi conflitti interni.

Nel 1991, a seguito di alcuni omicidi eccellenti, nel clan si ebbe la scissione che rese autonomo il gruppo facente capo a Ca.Se., in cui militavano anche V.L. e Q.G., al quale aderì anche M.G., padre di V..

Al momento della consumazione degli omicidi per cui si procede era in atto una spaccatura tra gli eredi del clan dei casalesi rappresentato dalla fazione degli Sc., con L.G. e Ci.Al., e il gruppo di Ca.Se. - fronda del clan casalesi in cui militava M.V..

La Corte di primo grado ha espresso un giudizio di attendibilità, pienamente condiviso dal giudice di appello, su Sc.Ca., Q.G. e D.T.A.; è stato riconosciuto per tutti un patrimonio cognitivo compatibile con le dichiarazioni rese in ragione del ruolo ricoperto, senza che fosse emerso alcun interesse calunnioso verso gli accusati, anche perchè le dichiarazioni a tutto campo rese dai collaboratori riguardavano, senza distinzione, i militanti dei diversi gruppi, quand'anche amici o parenti.

Significative sono state ritenute le dichiarazioni concordanti di Q. e di Sc. che, per entrambi i giudici di merito, costituiscono un riscontro reciproco molto forte, anche perchè il momento in cui gli stessi resero le dichiarazioni (le ultime, quelle dibattimentali, sono del 14 marzo 1997) è prossimo alle vicende oggetto del giudizio delle quali i collaboratori mostrano un ricordo chiarissimo.

Secondo i giudici di merito l'omicidio di D.C.L., cognato del capo Ca.Se., cui seguì l'omicidio di G.G. (marito di M.C.), furono commessi per vendetta trasversale a seguito dell'omicidio del dentista Sc.Al. (che nulla aveva a che fare con il clan Sc. e con il contesto di camorra), omicidio che indica il momento di rottura delle regole criminali di risparmiare i parenti degli affiliati anche in corso di faida.

L'omicidio di M.V., nel quale solo fortuitamente è stato coinvolto V.I. quale occasionale accompagnatore dell'obiettivo dell'agguato, rientra, invece, nella strategia camorristica volta alla eliminazione del killer che aveva colpito più volte gli uomini del clan dei casalesi: l'omicidio M. era divenuto una priorità della strategia criminale dei casalesi, tanto che M. rappresentava il bersaglio da abbattere, come dimostrano i pregressi tentativi di ucciderlo (non andati a buon fine).

1.3. A fronte di tale materiale probatorio si aggiungono, in secondo grado, le dichiarazioni dei collaboratori D.S.D. e I.A., nonchè le ammissioni di responsabilità da parte degli imputati B. e S..

2. Ricorrono gli imputati B.A., S.P., D.G. e D.L.C..

3. B.A. e S.P., con un unico atto di ricorso a firma del difensore avv. EDM, denunciano la violazione di legge, in riferimento agli artt. 132, 133, 69 e 62 bis c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 577 c.p., comma 1, n. 3, e il vizio della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della prevalenza delle concesse circostanze attenuanti generiche rispetto alle suddette aggravanti perchè, pur essendosi dato atto del contributo offerto dagli imputati alla ricostruzione dei fatti, non è stata data sufficiente valorizzazione a tale contegno, dimostrativo di sincera resipiscenza e rivisitazione critica che, con riguardo a S., risulta particolarmente significativa tenuto conto che lo stesso ha inteso dissociarsi dall'associazione camorristica.

4. D.L.C., con ricorso a firma del difensore avv. RM, sviluppa tre motivi.

4.1. Con il primo motivo denuncia la violazione della legge processuale, in riferimento agli artt. 125, 468, 493, 190, 495 e 190 bis c.p.p., e il vizio della motivazione, con conseguente invalidità di tutti gli atti consecutivi, per la nullità dell'ordinanza pronunciata in data 5 febbraio 2010 dal giudice di primo grado che dichiarava inammissibile la lista testimoniale della difesa, nonchè dell'ordinanza pronunciata il successivo 9 marzo 2012 con la quale veniva rigettata la richiesta di nuove prove ex art. 507 c.p.p..

La difesa censura la valutazione operata dalla Corte di primo e secondo grado, alla quale l'eccezione è stata tempestivamente riproposta con l'appello, alla luce del fatto che le prove richieste dalla difesa già erano state regolarmente ammesse, in quanto legittime, rilevanti e non superflue, così entrando a far parte del patrimonio dibattimentale, sicchè la successiva declaratoria di inammissibilità avrebbe potuto fondarsi solo ed esclusivamente su una valutazione di illegittimità e superfluità, ovvero sul mancato ed intempestivo deposito della lista, ma non certo sull'inesistente genericità delle circostanze sulle quali doveva essere svolto l'esame.

La valutazione effettuata dalla Corte di primo grado nell'ordinanza del 5 febbraio 2010, secondo la quale l'indicazione dei testi nella lista della difesa sarebbe generica, non doveva essere condivisa e meritava un ripensamento anche perchè il processo concerneva delitti aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, e, quindi, rientranti nell'ipotesi di cui all'art. 51 c.p.p., comma 3 bis, di talchè ci si trovava nei casi rientranti nell'ambito applicativo dell'art. 190 bis c.p.p., in forza del quale, al momento della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, disposta dal primo giudice per mutamento della composizione dell'organo giudicante, tutti gli atti istruttori già assunti e i mezzi di prova già acquisiti vengono dichiarati pienamente utilizzabili, indipendentemente dal consenso prestato o meno delle parti alla lettura: è evidente come ciò implichi una minore discrezionalità rispetto alla rivalutabilità dei mezzi istruttori, di talchè, se in questo tipo di procedimenti gli atti istruttori già celebrati sono ex lege pienamente utilizzabili - tanto che al giudice non spetta altro che limitarsi a far riportare formalmente le parti alle richieste già effettuate - a maggior ragione non possono ritenersi modificabili, se non nei termini espressamente consentiti e nei casi previsti dalla legge, le ordinanze relative a mezzi di prova già ammessi e non ancora espletati. Al giudice, nei casi di cui all'art. 190 bis c.p.p., è dunque preclusa qualsivoglia valutazione che prescinda dalla legittimità delle prove e dalla superfluità delle stesse.

In merito al diniego di integrazione istruttoria ex art. 507 c.p.p., opposto dal primo giudice, la Corte di Assise di appello sostiene che non si evinceva alcuna indicazione ulteriore a sostegno della richiesta e che nemmeno tali motivi venivano indicati con l'atto di gravame: l'assunto è sconfessato dal giudice di primo grado che dà atto dei motivi difensivi a sostegno della richiesta che erano stati chiariti all'udienza del 29 febbraio 2012 allorchè l'imputato D.L. rendeva spontanee dichiarazioni spiegando la rilevanza ai fini del processo delle conoscenze che avevano i testi richiesti.

4.2. Con il secondo motivo denuncia la violazione della legge processuale, in riferimento agli artt. 197 bis e 64 c.p.p., e il vizio della motivazione per l'inutilizzabilità delle dichiarazioni di M.C. in riferimento alla sua particolare qualità processuale di indagato in procedimento connesso, poi teste assistito e, infine, semplice testimone.

La difesa non condivide quanto affermato in sentenza in ordine alle conseguenze della mancata assistenza difensiva in sede di escussione dibattimentale di M., che potrebbe costituire ad avviso della Corte al più una mera irregolarità.

Sulla valutazione della prova, la difesa sottolinea la necessità di valutare, ferma restando l'assenza delle necessarie verifiche in tema di attendibilità, le dichiarazioni di M.C. anche alla luce dell'interesse della stessa a colpire coloro che erano notoriamente avversari del defunto fratello.

In tema di valutazione delle dichiarazioni di M.C. e di Sc.Ca., la difesa denuncia che non siano stati applicati i criteri tracciati dalla SU Marino e SU Andreotti.

4.3. Con il terzo motivo denuncia il vizio della motivazione "in ordine a tutte le censure mosse in riferimento alle plurime smentite del narrato di M.C. e Sc.Ca.", nonchè "in relazione alla valutazione delle risultanze dell'integrazione probatoria costituita dalle dichiarazioni dei collaboratori I.A. e D.S.D.".

La difesa aveva dimostrato nell'atto di appello la totale inattendibilità di M., non solo in ragione dei motivi che l'avrebbero spinta ad accusare con precisione e nella immediatezza del fatto degli innocenti (alcuni assolti), ma anche della provata caduta del narrato in riferimento alle prove oggettive: si era evidenziata l'incompatibilità delle risultanze della prova generica con il narrato di M. (le condizioni di luce nelle quali avrebbe identificato gli aggressori; l'impossibilità che non avesse sentito i primi spari; la mancata coordinazione della staffetta; la mancata indicazione dell'auto; lo stato di quiete dei luoghi; l'impossibilità dell'incontro in (OMISSIS); le confidenze del fratello), ma il giudice di appello ha superato le censure con affermazioni non integranti idonea motivazione e perciò apoditticamente.

La Corte poi affrontava e risolveva in modo apodittico, dando valore di riscontro ad una generica dichiarazione de relato, la specifica critica circa la impossibilità che Sc. avesse potuto parlare con D.G. pur essendo ristretto alla L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 41 bis, (il direttore del carcere Dott. U. e il Mar. P. escludevano categoricamente la possibilità per i detenuti di incontrarsi).

5. D.G., con ricorso a firma del difensore avv. Luigi Monaco, denuncia il vizio della motivazione in relazione alle risultanze processuali emerse nel corso della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.

Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata disattende le doglianze difensive, ripercorrendo e condividendo la motivazione di primo grado che aveva posto a base del convincimento di responsabilità dell'appellante la chiamata in reità del collaboratore di giustizia Sc.Ca., la testimonianza di M.C., sorella della vittima dell'agguato e teste oculare del fatto delittuoso, nonchè l'esame "stub" parzialmente compatibile con l'esplosione di colpi d'arma da fuoco.

La sentenza omette, però, di valutare la estrinseca credibilità del collaborante e le ondivaghe testimonianze del teste M.C. alla luce degli esami testimoniali, resi a seguito di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, dei collaboratori di giustizia D.S.D. e I.A. che in relazione al duplice omicidio oggetto di contestazione avvaloravano le doglianze difensive evidenziate nei motivi di appello.

Omette altresì la Corte di Assise di Appello di motivare in ordine alle spontanee dichiarazioni rese da B.A., che nel confessare la propria partecipazione al duplice omicidio di M. e V., aveva modo di affermare che i fatti si erano svolti così come riferiti da I. e D.S.; questi ultimi hanno indicato causale, mandanti ed esecutori materiali senza fare riferimento ad un ruolo assunto da D.G. nella fase ideativa e neppure in quella esecutiva: da ciò consegue la mancanza di verifica unitaria degli elementi probatori che inficia il percorso motivazionale della sentenza impugnata.

5.1. Il ricorso, pur non enunciando la doglianza tra i motivi, si intrattiene, similmente al ricorso D.L., sull'inutilizzabilità della prova dichiarativa di M.C. relativamente alla violazione dell'art. 511c.p.p., art. 525 c.p.p., comma 2, e art. 190 bis c.p.p..

Il ricorso premette che le problematiche applicative tendenti ad ampliare la sfera di azione dell'art. 190 bis c.p.p., costituiscono la naturale conseguenza dell'inserimento e della permanenza nel tessuto codicistico di una regola che, seppur dettata solo per "casi particolari", ha la caratteristica di porsi in contrasto con i principi portanti dell'ordinamento e della stessa Costituzione. In particolare, la disposizione in esame costituisce un esempio tipico di destrutturazione del "sistema processuale mediante creazione di sottosistemi speciali"; situazione questa, che corrompe la coerenza del sistema in conseguenza dell'inserimento di norme allogene rivelatrici di antinomie e conflitti. La tendenza ad istituire "doppi binari" porta con sè il rischio di una decodificazione dell'ordinamento che conduce alla perdita di unità per via del formarsi di aggregati normativi autonomi che si ispirano a logiche estranee, se non antitetiche al codice. La situazione assume particolare valore nella misura in cui tali operazioni legislative toccano il diritto probatorio. Questo è lo strumento per giungere all'accertamento e, se le metodiche sono differenziate "per gruppi", è palese l'alea di pervenire ad una differenziazione di decisione.

Il tema, secondo il ricorrente, involge non solo profili di allineamento costituzionale con l'art. 111 Cost., ma ben più penetranti attentati di costituzionalità per violazione dell'uguaglianza processuale.

Motivi della decisione

1. I ricorsi di B. e S. sono inammissibili, mentre quelli di D.L. e D. sono nel complesso infondati.

2. B. e S., che hanno confessato in appello le proprie responsabilità, propongono identici motivi sul giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche che sono state ai medesimi concesse in secondo grado con giudizio di equivalenza rispetto alle circostanze aggravanti di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 1, e art. 577 c.p., comma 1, n. 3.

Si tratta di motivi inammissibili perchè non si confrontano con la motivazione che ha evidenziato i precedenti penali, anche gravissimi, la estrema gravità del fatto oggetto del giudizio e l'irrilevanza della confessione rispetto al quadro probatorio acquisito in primo grado e arricchitosi in appello in forza delle dichiarazioni di I. e D.S..

Il giudizio di bilanciamento resta dunque ancorato ad elementi che il ricorso omette di criticare specificamente.

3. Vanno, quindi, esaminate le questioni di processuali e di inutilizzabilità della prova dedotte dalle difese di D.L. e D..

3.1. Con riguardo alla mancata escussione dei testi indicati dalla difesa D.L. va ricordato che la lista testi della difesa era stata ammessa all'udienza del 5 ottobre 2004, nonchè, essendo mutata la composizione del Collegio, in sede di rinnovazione, all'udienza del 27 febbraio 2006.

All'udienza del 5 febbraio 2010, mutato nuovamente il collegio giudicante, la lista veniva dichiarata inammissibile in quanto era costituita dall'elenco nominativo dei testi senza indicazione alcuna sulle circostanze sulle quali dovevano deporre; la Corte d'Assise verbalizzava, inoltre, che non intendeva comprimere il diritto di difesa e si riservava di valutare l'ammissione dei testi ex art. 507 c.p.p., a seguito di ulteriori successive indicazioni delle parti.

3.1.1. Va anzitutto chiarito che, contrariamente a quanto ritenuto dalle difese, le ordinanze di ammissione della prova assunte dal Collegio giudicante in diversa composizione non impediscono affatto la verifica di ammissibilità della prova compiuta dal nuovo Collegio giudicante investito della decisione, nè costituiscono un ostacolo a una diversa valutazione.

Tanto si desume univocamente da quanto chiarito dalle SU Bajrami; si è, infatti, affermato che "Il principio di immutabilità di cui all'art. 525 c.p.p., richiede che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso che ha assunto la prova ma anche quello che l'ha ammessa, fermo restando che i provvedimenti sull'ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto conservano efficacia se non espressamente modificati o revocati" (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019, Pg C/ Bajrami, Rv. 276754), sicchè se ne deduce che rientra nella piena disponibilità dell'organo giudicante di rivedere i provvedimenti di ammissione della prova assunti dal diverso Collegio, dichiarando eventualmente inammissibili le liste testimoniali delle parti.

E' ciò che è accaduto nel caso in esame.

3.1.2. Tanto premesso, è doveroso verificare se la decisione assunta in quella sede, poi confermata dal giudice di secondo grado che ha respinto il relativo motivo di impugnazione, sia processualmente corretta.

La soluzione è senz'altro positiva.

Va anzitutto sottolineato che il ricorso non deduce affatto la specificità delle circostanze sulle quali era stata indicata la prova, sicchè resta non controverso che la lista testimoniale, pur tempestivamente depositata, era priva di qualsiasi indicazione sui temi oggetto di esame, tanto che non recava neppure un generico riferimento ai fatti di cui all'imputazione.

Risulta, del resto, evidente, sulla base della lettura dei capi di imputazione, che l'oggetto della prova era quanto mai ampio e diversificato; i fatti oggetto del giudizio riguardano sette imputati e comprendono un delitto associativo mafioso, vari omicidi commessi in luoghi e tempi diversi e da diversi imputati, numerosi delitti in tema di armi, nonchè ricettazione ed altri reati.

Da ciò consegue che l'omessa indicazione delle circostanze, o anche solo del riferimento alle specifiche imputazioni, sulle quali i testi sono chiamati a deporre dalla difesa rende a tal punto vaga e generica l'elencazione da impedire al giudice, nel contraddittorio con le altre parti, di vagliare l'attinenza della prova rispetto ai vari e diversificati temi oggetto del giudizio, secondo quanto previsto dall'art. 495 c.p.p..

Non versandosi, in effetti, nel caso della indicazione di una prova contraria ex art. 468 c.p.p., comma 4, - per la quale non è richiesto il rispetto del termine di deposito nè l'indicazione delle circostanze, essendo esse coincidenti con quelle della prova principale (Sez. 6, n. 26048 del 17/05/2016 Rv. 266976) - spetta alla parte di soddisfare i requisiti di ammissibilità di cui all'art. 468c.p.p., comma 1, e, in particolare, di operare il tempestivo deposito della lista testimoniale "con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l'esame".

E', quindi, precisa volontà del Collegio di fare condiviso richiamo al precedente giurisprudenziale secondo il quale "in tema di lista testimoniale, l'onere dell'indicazione delle circostanze di esame è soddisfatto anche con il semplice riferimento ai "fatti del processo" a condizione che si versi nell'ipotesi di un'unica contestazione di reato per fatti storicamente semplici, non valendo invece ciò ove la vicenda processuale sia complessa, gli imputati siano più di uno e molteplici siano i capi di imputazione" (Sez. 3, n. 32530 del 06/05/2010, H., Rv. 248221; seguito da Sez. 5, n. 27698 del 04/05/2018, B., Rv. 273555).

Nel caso di specie, infatti, l'obbligo di indicazione delle circostanze non è stato rispettato perchè è stato logicamente giudicato impossibile dedurre, anche solo per relationem alle imputazioni, che i soggetti indicati nella lista della difesa fossero in grado di riferire sui singoli fatti di reato articolati nei capi di imputazione e su quali circostanze fossero chiamati a deporre, stante la finalità del citato art. 468 c.p.p., di impedire la introduzione di prove a sorpresa consentendo alle altre parti la tempestiva predisposizione di proprie controdeduzioni (Sez. 3, n. 41691 del 19/10/2005, Latini, Rv. 232369; Sez. 5, n. 43361 del 05/10/2005, Grispo, Rv. 232978; Sez. 4, n. 25523 del 10/05/2007, Boldrini, Rv. 236990; Sez. 2, n. 38526 del 23/09/2008, Scaccianoce, Rv. 241114).

Peraltro, la presenza di una leale discovery, costituita dalla tempestiva e precisa indicazione delle circostanze oggetto di esame, si parametra alla possibilità, riconosciuta alle controparti processuali, di avanzare la richiesta di prova contraria ex art. 468 c.p.p., comma 4; tale possibilità, però, può essere esercitata soltanto qualora siano state adeguatamente indicate le circostanze su cui si fonda la prova principale, perchè, diversamente, la prova contraria sarebbe, a sua volta, generica e perciò non introducibile, con conseguente lesione della parità delle armi.

3.2. E', di contro, scarsamente intellegibile la doglianza che richiama l'art. 190 bis c.p.p., come se tale previsione impedisse al giudice di rigettare le richieste di prova o dichiararle inammissibili.

Le prove di cui si tratta non esistono perchè non sono mai entrate a far parte del compendio probatorio ex art. 190 bis c.p.p.: i testi indicati dalla difesa non sono mai stati esaminati, neppure dal giudice nella diversa composizione, sicchè non si comprende quale influenza abbia la disposizione sulla previsione dell'art. 468 c.p.p..

3.2.1. E' irrilevante e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 190 bis c.p.p..

L'irrilevanza si coglie dalla stessa enunciazione del ricorso che non indica quali dichiarazioni acquisite ex art. 190 bis c.p.p., dovrebbero essere espunte per illegittimità della norma, così facendo venire meno la prova della responsabilità.

E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 190 bis c.p.p., comma 1, sollevata per l'asserito contrasto con, gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui, relativamente ai procedimenti concernenti i reati di cui all'art. 51 c.p.p., comma 3 bis, impone limiti all'ammissibilità dell'esame di testimoni o di persone indicate nell'art. 210 dello stesso codice che già abbiano reso precedenti dichiarazioni nel contraddittorio tra le parti, atteso che il peculiare regime della lettura di dette dichiarazioni si giustifica per l'esigenza di prevenire l'usura delle fonti di prova (particolarmente pressante in ragione delle peculiarità soggettive ed oggettive dei procedimenti in questione), e che si tratta pur sempre di dichiarazioni provenienti da persona già debitamente esaminata e contro-esaminata dal soggetto nei cui confronti saranno utilizzate (Sez. 6, n. 32803 del 11/05/2012, Aiello, Rv. 253412).

3.3. E' generico e manifestamente infondato anche il motivo sul mancato esercizio dei poteri ufficiosi ex art. 507 c.p.p..

Anzitutto va ricordato che il sindacato sul mancato esercizio di tale potere ufficioso è esercitabile entro limiti precisi:

- "la mancata assunzione di una prova decisiva - quale motivo di impugnazione per cassazione - può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione a norma dell'art. 495 c.p.p., comma 2, sicchè il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l'invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all'art. 507 c.p.p., e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione" (Sez. 5, n. 4672 del 24/11/2016 - dep. 2017, Fiaschetti, Rv. 269270; Sez. 1, n. 16772 del 15/04/2010, Z., Rv. 246932; Sez. 3, n. 24259 del 27/05/2010, C., Rv. 247290; Sez. 2, n. 9763 del 06/02/2013, Pg in proc. Muraca, Rv. 254974);

- "in tema di ammissione di nuove prove ai sensi dell'art. 507 c.p.p., le nuove prove, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle parti, sono soggette ad una più penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che è correlata alla più ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita da parte del giudice, pertanto l'omesso esercizio di tale potere-dovere può essere sindacato in sede di legittimità, ma in limiti più ristretti rispetto al potere di ammissione delle prove a richiesta di parte, richiedendosi una manifesta assoluta necessità della trascurata assunzione probatoria, emergente dal testo della sentenza impugnata" (Sez. 4, n. 8083 del 08/11/2018 - dep. 2019, Cristiano, Rv. 275149; Sez. 6, n. 724 del 08/11/1993 - dep. 1994, Capizzi, Rv. 196218);

- "in tema di ammissione di nuove prove, il mancato esercizio del potere ex art. 507 c.p.p., da parte del giudice del dibattimento non richiede un'espressa motivazione, quando dalla effettuata valutazione delle risultanze probatorie possa implicitamente evincersi la superfluità di un'eventuale integrazione istruttoria" (Sez. 1, n. 2156 del 30/09/2020 - dep. 2021, Atilem, Rv. 280301).

Ciò premesso, è utile evidenziare che il ricorso non contesta quanto riportato dal giudice di appello: "Successivamente in sede di richieste 507 c.p.p. in data 29.2.2012 la Corte emetteva ordinanza riportata a fol. 24 e ss della sentenza di primo grado, in cui motivava la necessità dell'approfondimento istruttorio limitatamente al solo all'esame del sovrintende Falso sugli esiti degli stub, rigettando nel resto; e relativamente alle richieste delle difese degli imputati così si legge "ritiene la Corte che le stesse non possono trovar accoglimento in quanto i mezzi di prova indicati, considerate le risultanze dell'espletata istruttoria dibattimentale, non si palesano rilevanti o assolutamente necessari ai fini della decisione" passando poi al dettaglio delle singole richieste. Non si evince alcuna indicazione specifica e ulteriore a sostegno della richiesta di sentire i testi ad opera della difesa del D.L., che invero non ne fa menzione neppure nei motivi di gravame. In ogni modo il rigetto era motivato con la non necessità di integrazioni istruttorie al fine del decidere, quindi assumendo la superfluità delle istanze difensive ex art. 507 c.p.p.".

Ebbene, nel caso in esame, i giudici di merito hanno evidenziato che la generica possibilità di procedere da parte del Collegio ex art. 507 c.p.p., non è mai stata specificamente sollecitata, sicchè il giudizio di superfluità risulta inattaccabile, non potendosi certo imporre al giudice di esercitarlo a fronte di una generica sollecitazione.

Tale conclusione trova solido fondamento nell'autorevole giurisprudenza di legittimità secondo la quale "il giudice può esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art. 507 c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto" (Sez. U, n. 41281 del 17/10/2006, P.M. in proc. Greco, Rv. 234907), in quanto le condizioni necessarie per l'esercizio di tale potere sono l'assoluta necessità dell'iniziativa del giudice, da correlare a una prova avente carattere di decisività, e il suo essere circoscritto nell'ambito delle prospettazioni delle parti, la cui facoltà di richiedere l'ammissione di nuovi mezzi di prova resta, peraltro, integra ai sensi dell'art. 495 c.p.p., comma 2.

Ebbene, nel caso in esame la difesa non prospetta la decisività della prova non ammessa e dunque la necessarietà di essa nella prospettiva dell'eser'cizio del potere ufficioso di cui all'art. 507c.p.p..

D'altra parte, non può certo affermarsi, come pretende il ricorso, che la necessità di integrazione istruttoria ufficiosa debba necessariamente discendere dalle dichiarazioni dibattimentali dell'imputato D.L. che ha contestato le fonti di accusa indicando possibili elementi di prova a confutazione.

Si tratta, per un verso, di elementi di prova noti alla difesa e che pertanto dovevano essere indicati nelle liste testimoniali, e, per altro verso, della illogica pretesa che il giudice approfondisca qualunque argomentazione difensiva dell'imputato il quale, nel pieno esercizio del contraddittorio processuale, aveva l'onere di supportare le proprie difese dai necessari elementi di conforto ovvero di dimostrarne l'assoluta necessarietà.

3.4. E' ora possibile esaminare la questione dell'utilizzabilità delle dichiarazioni rese da M.C.: anche questa doglianza è infondata.

3.4.1. E' utile premettere una sintesi dello sviluppo procedimentale che ha riguardato le dichiarazioni di M.:

- M.C. veniva escussa quale testimone all'udienza del 7 novembre 2006 nelle forme di cui all'art. 197 bis c.p.p., e con l'assistenza di un difensore, sul presupposto che, secondo la prospettazione difensiva genericamente indicata in udienza, la donna fosse indagata per reati connessi (falsa testimonianza nel processo per l'omicidio di R.F.) e con l'avviso di cui all'art. 197 bis c.p.p., comma 4; successivamente si accertava che il processo a carico di M. era stato anteriormente definito con sentenza di prescrizione in data 29 giugno 2006, divenuta irrevocabile in data 5 ottobre 2006;

- all'udienza del 21 febbraio 2007, su sollecitazione della difesa B., la Corte di primo grado sospendeva l'esame del teste e disponeva la trasmissione al pubblico ministero delle dichiarazioni di M.; successivamente si apprendeva che, in forza della trasmissione degli atti, M. era stata indagata ex art. 416 bis c.p.; procedimento poi concluso con decreto di archiviazione in data 4 aprile 2007 (acquisito in data 9 marzo 2010);

- all'udienza del 9 marzo 2010, acquisito il suddetto decreto di archiviazione, l'esame di M., quale imputato di reato collegato, proseguiva nelle forme di cui all'art. 210 c.p.p.; la donna si avvaleva della facoltà di non rispondere;

- alla successiva udienza del 18 maggio 2010, la Corte di primo grado, revocata l'ordinanza che aveva disposto l'esame ex art. 210 c.p.p., procedeva all'escussione di M. quale "teste puro" (Sez. U, n. 12067 del 17/12/2009 - dep. 2010, D.S., Rv. 246376);

- successivamente, all'udienza del 16 luglio 2010, veniva rivalutata a posizione della dichiarante quale "teste assistito" in virtù della sentenza di prescrizione emessa nei suoi confronti - ipotesi contemplata specificamente dall'art. 197 bis c.p.p. - e si procedeva all'esame con tali forme (avvisi ex art. 197 bis c.p.p., comma 4, e assistenza del difensore) e alla valutazione delle dichiarazioni secondo il paradigma di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3.

3.4.2. La Corte di primo grado, anche a seguito della rivalutazione operata all'udienza del 16 luglio 2010, ha riconosciuto la piena utilizzabilità di tutti i verbali dichiarativi di M. (si tratta, in realtà, delle sole dichiarazioni rese all'udienza del 18 maggio 2010, allorquando M. venne esaminata come "teste puro" senza l'assistenza del difensore, perchè nelle residue occasioni la donna fu sempre assistita dal difensore), ritenendo che la presenza del difensore durante l'esame del teste assistito è posta a garanzia dello stesso e non comporta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, semmai concretizzando una irregolarità procedurale.

Secondo i giudici di appello l'assunto trova fondamento nel principio fissato da alcune pronunce della Corte di Cassazione (Sez. 1, n. 267 del 14/12/2011 - dep. 2012, Meraviglia, Rv. 252047; Sez. 6, n. 4230 del 26/11/2007 - dep. 2008, Ferraro, Rv. 238720) nelle quali si stabilisce l'utilizzabilità erga alios delle dichiarazioni rese da un co-indagato senza l'assistenza del difensore, in quanto la sanzione di inutilizzabilità a norma dell'art. 197 bis c.p.p., comma 5, è prevista solo nel caso in cui di tali dichiarazioni si faccia uso contro la persona che le ha rese.

Ad avviso del giudice di appello, la motivazione della Corte d'Assise risolve il rilievo delle difese appellanti che assumono l'inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni di M.C. con riferimento a quelle raccolte in data 7 novembre 2007 e 16 luglio 2010 in prosieguo dello stesso esame con le forme dell'art. 197 bis c.p.p., poichè solo all'udienza del 9 marzo 2010 le è stato applicato il regime giuridico di cui all'art. 210 c.p.p., per cui le dichiarazioni raccolte anteriormente sono state legittimamente acquisite senza rivolgere il non dovuto avvertimento di cui all'art. 210 c.p.p., comma 4.

Del resto, ad avviso della Corte di Assise d'appello non è sostenibile l'immutabilità del regime di escussione della fonte dichiarativa nel corso del processo, allorchè si registra la modifica dello status processuale del dichiarante: la posizione di M. è andata evolvendosi nel corso delle udienze, sicchè, pendente a suo carico il processo ex art. 416-bis c.p., era necessario procedere ai sensi dell'art. 210 c.p.p., per soddisfare le garanzie difensive della stessa M., ma la cogenza di dette garanzie è venuta meno allorchè M. è stata destinataria della sentenza definitiva di improcedibilità per intervenuta prescrizione, residuando a sua esclusiva garanzia la presenza del difensore quale teste assistito.

3.4.3. E' corretta la valutazione di piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese da M.C..

Nessuna sanzione di inutilizzabilità è ravvisabile nel caso in esame, come neppure specificamente deduce la difesa che si limita a prospettarla in termini generici.

Il massimo consesso della giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che "non sussiste incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p., comma 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione. La Corte ha osservato che la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dall'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), art. 197 bis c.p.p., e art. 210 c.p.p., si applica solo all'imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonchè il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto, nel qual caso non trovano applicazione l'art. 197 bis, c.p.p., commi 3 e 6, "(Sez. U, n. 12067 del 17/12/2009 - dep. 2010, D.S., Rv. 246376); nei restanti caso si tratta di un "testimone assistito" dal difensore.

Si è, in seguito, precisato che l'imputato in un procedimento connesso o collegato ha piena capacità di testimoniare, qualora nei suoi confronti sia stata nel frattempo pronunciata sentenza irrevocabile, anche se in precedenza abbia reso dichiarazioni senza aver prima ricevuto gli avvertimenti di cui all'art. 64 c.p.p., comma 2, lett. c), (Sez. 4, n. 35585 del 12/05/2017, Schettino, Rv. 270778).

E' utile chiarire, del resto, che per valutarsi le specifiche regole applicabili all'esame dei soggetti che rivestono lo status processuale in discorso, deve aversi riguardo allo sviluppo diacronico di tali condizioni e alle specifiche modalità di audizione previste per la peculiare posizione processuale di volta in volta rivestita dal dichiarante al momento dell'esame, quando tale qualità muti nel corso del giudizio e in occasione di ogni audizione, sicchè non è ammissibile una prospettazione generica di violazione delle regole di audizione che non indichi specificamente le modalità che sarebbero state applicabili e quelle in concreto seguite, illustrandone le conseguenze in termini di nullità o inutilizzabilità.

Non risulta, in effetti, alcuna specifica doglianza difensiva che contesta le modalità di esame di volta in volta seguite dai giudici di merito nelle varie fasi in cui lo status del dichiarante è mutato da indagato in procedimento connesso, escusso con le garanzie di cui all'art. 210 c.p.p., a teste assistito ex art. 197 bis c.p.p..

In generale, deve essere evidenziato che la posizione del "testimone assistito", prevista dall'art. 197 bis c.p.p., comma 1, non diverge da quella di cui al comma 2, sussistendo per entrambi lo stesso obbligo che impone di testimoniare nei limiti fissati dal comma 4, senza che tale limite faccia venir meno il dovere di rispondere quando invece si verta al di fuori di tali situazioni che potrebbero, se del caso, compromettere la posizione del propalante (Sez. 6, n. 9760 del 26/11/2019 - dep. 2020, De Francesco, Rv. 278713).

Di conseguenza, le modalità di svolgimento del relativo mezzo di prova, disciplinate dall'art. 197 bis c.p.p., non ammettono un'interpretazione estensiva delle figure di nullità o inutilizzabilità di tali dichiarazioni assunte in violazione del comma 3, dell'art. cit., norma che prevede l'assistenza del difensore, posto che, per il principio di tassatività di cui all'art. 177 c.p.p. delle cause di nullità, è necessaria una specifica previsione di legge, che è però assente nel caso sottoposto a scrutinio.

D'altronde, il "testimone - imputato" che non sia stato assistito dalla difesa tecnica trova la sua specifica tutela nell'art. 197 bis c.p.p., comma 5, in relazione ad ipotesi di possibile auto ed etero incriminazione: le dichiarazioni non sono utilizzabili nei suoi confronti "nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione... ed in qualsiasi giudizio... relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette".

In tal modo, venuta meno la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rese contro il testimone, egli resta vincolato all'obbligo di dire la verità per tutto quel che non lo coinvolge; circostanza corrispondente a quella verificatasi nel caso di specie in cui la dichiarazione era attinente alla responsabilità di terzi, con particolare riferimentò alla ricostruzione del duplice omicidio in cui perser'o la vita M.V., fratello della dichiarante, e V.I..

Nè i ricorrenti hanno dedotto, in questa ed in sede di gravame, profili anche solo astrattamente idonei a prospettare la compressione del principio del nemo tenetur se detegere a presidio del quale è posto l'art. 197 bis c.p.p., comma 4.

Trattandosi di un soggetto esaminato ex art. 197 bis c.p.p., che, in tale veste, ha reso le dichiarazioni di cui si discute, non ricorre la diversa ipotesi dell'art. 210 c.p.p., cui si riferisce il diverso principio espresso da SU Lo Presti (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, Lo Presti, Rv. 264479) secondo il quale "il mancato avvertimento di cui all'art. 64 c.p.p., comma 3, lett. c), all'imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, che avrebbe dovuto essere esaminato in dibattimento ai sensi dell'art. 210 c.p.p., comma 6, determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale resa senza garanzie".

Ciò determina il rigetto della questione che, peraltro, presenta tratti di inammissibilità.

4. Sono inammissibili le censure di D.L. e D. che si appuntano sulla valutazione delle dichiarazioni di M.C. e Sc..

I giudici di merito hanno valutato le dichiarazioni di M. alla stregua del canone di cui all'art. 192 c.p.p., comma 3, come richiamato dall'art. 197 bis c.p.p., comma 5.

Sotto lo stesso canone sono state valutate le dichiarazioni di Sc., al pari di quelle degli altri collaboratori di giustizia.

4.1. I ricorsi reiterano argomentazioni sulla credibilità oggettiva di M. e Sc. che si appuntano su presunte discrasie con le risultanze tecniche che però sono state ampiamente superate e chiarite dai giudici di merito con argomentazioni che i ricorsi si limitano a non condividere ovvero a reiterare introducendo, in modo non consentito, questioni di merito sulla valutazione della prova.

Le censure sulla credibilità soggettiva sono, per parte loro, assertive perchè si limitano a dedurre un ipotetico malanimo nei confronti degli imputati.

Sono inammissibili perchè generiche le doglianze sui canoni valutativi giurisprudenziali delle dichiarazioni rese da M. e Sc. perchè i ricorsi si limitano a denunciare la mancata applicazione dei principi enucleati da Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226090 e Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 - dep. 1993, Marino, Rv. 192465, senza specificare in cosa sarebbe consistito il vizio motivazionale.

4.2. Del resto, l'attendibilità intrinseca ed estrinseca della dichiarante M. ha trovato specifica conferma nelle dichiarazioni rese in grado di appello da B. che ha confermato di avere fatto parte del commando, così come lo aveva già specificamente indicato la donna.

Analogo conforto ha trovato la dichiarazione di M. che ha indicato in D.L.C. uno degli aggressori del fratello, risultando convergenti su di esso le dichiarazioni di D.S., I. e Sc., nonchè in D.G. un altro componente del commando, in relazione al quale, oltre alla chiamata diretta del collaboratore Sc., che apprese della partecipazione di D. proprio da questi, vi è la prova tecnica dello "stub" che ha rilevato particelle di sparo sull'imputato.

4.3. E', d'altra parte, generica e non consentita la deduzione che riguarda la mancata risposta a "tutte le censure mosse in riferimento alle plurime smentite del narrato di M.C. e Sc.Ca." e alle "risultanze dell'integrazione probatoria costituita dalle dichiarazioni dei collaboratori I.A. e D.S.D." perchè affida alla Corte di legittimità di individuare, selezionare e valutare i presunti contrasti tra i vari elementi probatori.

E', infine, scarsamente intellegibile la questione del presunto contrasto tra il narrato di I. e D.S., da un lato, e quello di M., dall'altro: la circostanza che essi non indichino D. quale componente del commando è stata agevolmente spiegata dalla Corte di secondo grado, davanti alla quale sono state acquisite le dichiarazioni dei suddetti collaboratori, perchè essi hanno appreso del fatto D.L. il quale ha evidentemente omesso di riferire di D..

A carico di quest'ultimo, infatti, oltre alle dichiarazioni di M. e Sc. vi è l'esame tecnico "stub" con il quale la difesa non si confronta.

4.4. E', del pari, inammissibile la doglianza che denuncia l'inattendibilità di Sc., che si trovava sottoposto al regime di cui all'art. 41-bis ord. pen., di avere ricevuto da D. le confidenze a carico di D.L..

La concreta possibilità del colloquio tra D. e Sc., nonostante il regime di cui all'art. 41 bis ord. pen., è ampiamente argomentata nella decisione impugnata che ha evidenziato la co-detenzione dei due all'interno della medesima sezione del carcere e l'accertata possibilità di avere contatti uditivi, come pure ha confermato il teste Q., il quale ha riferito di avere potuto colloquiare, nel medesimo arco temporale, con Sc. nonostante il regime cui era sottoposto.

4.5. Il ricorso omette, del resto, di confrontarsi con l'accertata latitanza cui si è dato D.L. immediatamente dopo il duplice omicidio; si tratta di un elemento logicamente ritenuto corroborante perchè l'allontanamento ha preceduto la formulazione di qualsivoglia accusa e l'adozione di provvedimenti restrittivi (Sez. 1, n. 13156 del 11/03/2010, P.G. in proc. Zappia, Rv. 246661; Sez. 2, n. 43924 del 28/10/2009, Virgilio, Rv. 245590; Sez. 2, n. 5890 del 27/04/1995, Pisano, Rv. 201337).

5. All'inammissibilità del ricorso di B. e S. consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sentenza n..186 del 2000), anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in Euro 3.000,00.

Al rigetto del ricorso di D.L. e D. consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi di B.A. e S.P. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Rigetta il ricorso di D.G. e D.L.C. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2022