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Incitare alla disobbedienza è reato se lede ordine pubblico (Cass. 26853/10)

13 luglio 2010, Cassazione penale

Istigazione a disobbedire alle leggi è un reato di pericolo a dolo generico, non rilevando le cause della istigazione, purché leda l'ordine pubblico: il concetto di ordine pubblico non è "poliziesco", ma deve essere interpretato con riferimento alla sicurezza della collettività associata.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 10/06/2010) 13-07-2010, n. 26843

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FAZZIOLI Edoardo - Presidente

Dott. GIORDANO Umberto - Consigliere

Dott. ZAMPETTI Umberto - rel. Consigliere

Dott. CAPOZZI Raffaele - Consigliere

Dott. PIRACCINI Paola - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) M.V., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 381/2008 CORTE APPELLO di TRENTO, del 09/10/2009;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/06/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO ZAMPETTI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fraticelli M., che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 09.10.2009 la Corte d'appello di Trento, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava M.V. colpevole del reato di cui all'art. 415 c.p., così condannandolo, in concorso di circostanze attenuanti generiche, alla pena, sospesa, di mesi 4 di reclusione. Era invero ritenuto provato in fatto che detto M., diffondendo il messaggio da una discoteca, attraverso un'emittente radio, avesse ripetutamente e pubblicamente istigato a disobbedire alle leggi di ordine pubblico, in particolare a violare il codice della strada (non mettere le cinture di sicurezza, bere, correre in auto per arrivare prima).

In particolare rilevava detta Corte come fosse pacifica la materialità del fatto che, consistendo in diffusione via etere, doveva ritenersi essere avvenuto pubblicamente e diretto ad una generalità di persone; riteneva poi la Corte territoriale che le leggi che disciplinano la circolazione stradale dovessero qualificarsi di ordine pubblico, essendo destinate a prevenire la sicurezza della collettività e non potendo la qualificazione dell'ordine pubblico essere ristretta alle norme sanzionate penalmente.

2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l'anzidetto imputato che motivava l'impugnazione deducendo: a) difettava sicuramente il necessario dolo, trattandosi di frasi pronunciate in una discoteca, in un contesto ludico e scherzoso; b) il mancato rispetto dei limiti di velocità o dell'obbligo di indossare le cinture ineriva fatti costituenti illeciti amministrativi; c) non vi era stata prova concreta della ricezione degli slogan via radio da parte di una generalità di soggetti.

Motivi della decisione

3. Il ricorso, infondato, deve essere rigettato con ogni dovuta conseguenza di legge.

Per vagliare adeguatamente i motivi del proposto ricorso, occorre anzitutto procedere all'analisi strutturale degli elementi costitutivi del reato previsto dall'art. 415 c.p. che vale qui riportare nella parte precettiva del suo semplice testo:

"Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all'odio fra le classi sociali, è punito ... ecc.".

Esso, compreso nel titolo 5 del libro secondo del Codice Penale, "dei delitti contro l'ordine pubblico", si compone dei seguenti necessari elementi:

  1. un soggetto attivo indifferenziato: chiunque;
  2. una condotta attiva di istigazione; e una modalità necessaria della condotta: pubblicamente;
  3. una finalità della condotta istigatrice: la disobbedienza;
  4. un oggetto della disobbedienza istigata: le leggi d'ordine pubblico; tralasciamo l'odio fra le classi sociali - su cui peraltro v. C. Cost. 23.04.1974 n. 108 - in quanto profilo estraneo al presente scrutinio di legittimità.

Orbene:

a) il soggetto attivo deve istigare, termine di valenza negativa il cui significato intrinseco è "stimolare ad azione non buona", incitare, pungolare, aizzare a condotta riprovevole (è pacifico, dal punto di vista lessicale, che il termine istigare non sarebbe correttamente usato con riferimento ad un oggetto positivo : non sarebbe ben detto "ti istigo a far un'opera buona").

L'intero ordinamento penale riconosce varie ipotesi in cui rileva l'istigazione, sempre con riferimento a profili valutati negativamente dalla comune sensibilità sociale: a commettere un reato (art. 115 c.p., comma 3); a commettere delitti contro la personalità dello Stato (art. 302 c.p.); alla corruzione (art. 322 c.p.); a delinquere (art. 414 c.p.); all'uso di sostanze stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 82); ad atti di discriminazione razziale (L. n. 654 del 1975, art. 3); per citare le fattispecie più rilevanti.

b) la condotta è a forma libera - indifferenti essendo i vari possibili modi di istigare: a voce, con lo scritto, con mezzi tecnologici; ecc. ma deve comunque essere esplicata pubblicamente: id est, non in privato, in cerchia ristretta, ma diretta a generalità indifferenziata; anche sul ben noto concetto di pubblicità della condotta, su cui tante volte ritorna la normativa penale, non è il caso di soffermarsi; vale qui però ricordare come, proprio nell'affine materia dell'istigazione a delinquere (art. 414 c.p.), questa Corte abbia avuto occasione di precisare che pubblicamente significa "rivolgersi ad una generalità indeterminata di persone" (così Cass. Pen. Sez. 6, n. 8850 in data 17.04.1998, Rv. 211995, Di Marco e altri);

c) oggetto dell'istigazione pubblica dev'essere la disobbedienza : l'incitamento, dunque, deve avere un contenuto di ribellione ad un comando che si istiga a non osservare;

d) il comando, che l'agente istiga a disobbedire, deve essere contenuto in una legge di ordine pubblico.

Questo è il punto su cui occorre maggiormente soffermarsi. Deve trattarsi anzitutto di una legge, non di un regolamento o di un atto amministrativo, ed a maggior ragione non di una convenzione o contratto privatistico (v. anche Cass. Pen. Sez. 1, n. 5927 in data 25.02.1991, Rv. 188014, Trentin e altri, che escluse il reato nella condotta di istigazione all'autoriduzione delle fatture per il consumo dell'energia elettrica e dell'acqua). Non si deve però trattare di una legge penalmente sanzionata - limite negativo - per il principio di specialità che, in tal caso, impone la prevalenza dello specifico disposto di cui all'art. 414 c.p.. Il concetto di ordine pubblico rilevante ai fini del reato in parola, onde correttamente delimitare l'ambito dell'operatività della norma in esame, è stato oggetto di successive e diverse valutazioni. Secondo Cass. Pen. Sez. 1, n. 3388 in data 15.12.1980, Rv. 148404 Papini, esso consiste nello "ordinato assetto e buon andamento del vivere sociale nel quadro costituzionale repubblicano, con riferimento alle norme cogenti ed inderogabili".

Sulla base di tale indirizzo fu ritenuto integrare il reato ex art. 415 c.p. l'istigazione a disobbedire alle leggi tributarie (cfr. Cass. Pen. Sez. 3, n. 11181 in data 08.05.1985, Rv. 171192, Angelini).

Successivo orientamento negò alla condotta di istigazione a disobbedire alle leggi fiscali - in quanto non rientranti nell'ordine pubblico - la materialità del reato in questione (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n. 16022 in data 16.10.1989, Rv. 182569, Leghissa), avendo ristretto il concetto di ordine pubblico rilevante in proposito a quelle norme che tendono a garantire la pubblica tranquillità e la sicurezza pubblica.

Un ulteriore restrizione del concetto si ebbe con Cass. Pen. Sez. 1, n. 5927 in data 25.02.1991, Rv. 188014, Trentin ed altri (già sopra citata), che, partendo dalla distinzione tra ordine pubblico materiale ed ordine pubblico ideale, riconoscendo dignità positiva solo al primo, ridusse il concetto di ordine pubblico rilevante ex art. 415 c.p. all'ordine pubblico di polizia.

Ritiene questa Corte che da un lato debba escludersi, per la sua portata troppo ampia e non specifica, che il concetto di ordine pubblico di cui all'art. 415 c.p., possa ricondursi all'ordine pubblico generale di cui all'art. 31 preleggi; dall'altro che esso possa restringersi all'ordine pubblico di polizia, perchè in definitiva tale ultima opzione ermeneutica introduce un termine di riferimento, e nel contempo una limitazione, che non sono nella legge; tale ultima concettualizzazione, del resto, è stata introdotta nella giurisprudenza con l'anzidetta sentenza Trentin ed altri che partiva dalla distinzione tra ordine pubblico materiale ed ideale che può risultare fonte di equivoci, più che di soluzioni.

Deve dunque farsi un primo arresto interpretativo, rilevando come qualsiasi dei predetti indirizzi giurisprudenziali trovi una base comune nei due capisaldi della sicurezza pubblica e della natura cogente ed inderogabile della norma in questione.

In tal senso è illuminante rifarsi a due lontane, ma sempre valide, pronunce del Giudice delle leggi in tema di art. 415 c.p.:

  • - C. Cost. n. 108 in data 05.04.1974 (massima n. 7190) in cui, quanto allodio fra le classi sociali (e confrontandosi con la libertà di espressione), individuando il limite nella necessità di evitare reazioni violente contro l'ordine pubblico, si fa riferimento alle condotte attuate in modo pericoloso per la pubblica tranquillità;
  • - C. Cost. n. 142 in data 28.06.1973 (m. n. 6859) in cui la norma in parola è indicata come figura di reato che tende alla protezione di beni e valori essenziali alla pacifica convivenza associata.

Anche nell'interpretazione della Corte Costituzionale, dunque, il concetto di ordine pubblico di cui alla norma in esame è ricondotto non già ad una ristretta coincidenza con le norme di polizia, ma ad un più lato riferimento alla sicurezza della collettività associata.

Sovviene, poi, un argomento di carattere sistematico : il delitto associativo mafioso (art. 416 bis c.p.), il più classico delle figure di reato previste dal Titolo 5 (i delitti contro l'ordine pubblico), nella sua attuale formulazione, palesemente è diretto a proteggere non già un concetto di ordine pubblico "di polizia", ma di chiara prospettiva sociale (si pensi alle finalità di salvaguardia della libertà economica, in tema di servizi pubblici, appalti, esercizio del voto, ecc.)

Anche nel l'art. 416 bis c.p., dunque, deve riconoscersi pacificamente un implicito concetto di ordine pubblico sociale, non meramente poliziesco.

Nè diversamente si può dedurre dal fatto che vi sia un corpo intero di norme codicistiche (oltre alla normativa specifica) in materia di pubblica incolumità, il titolo sesto del c.p., posto che tali norme sanzionano le condotte attive di reato, non l'istigazione alla loro violazione.

Ben può darsi, dunque, un'istigazione alla disobbedienza alle leggi in materia di incolumità pubblica, ricondotte quest'ultime all'ambito dell'ordine pubblico come sopra inteso (salvaguardia della sicurezza sociale in senso pieno). In tal senso non può a priori escludersi, per genus, che la normativa in materia di circolazione stradale (così come quella antinfortunistica) sia, ex se, estranea al concetto di ordine pubblico rilevante ai fini dell'art. 415 c.p..

Non ogni norma di tali materie, ovviamente, dovendosi distinguere al loro interno quelle che abbiano i caratteri della cogenza e, nel contempo, della più pregnante finalità di salvaguardia della sicurezza e tranquillità sociale.

Infine non potrà non farsi un pertinente richiamo all'evoluzione della sensibilità sociale, posto che il concetto di ordine pubblico non può essere imbalsamato nella storia, ma deve vivere la vita del vigente ordinamento giuridico che si rinnova di continuo con il fluire della normativa.

Ed allora come potrà dirsi più grave, e costituire reato, istigare - ad esempio - a disobbedire alla norma che divieta le "grida sediziose" (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 20(TULPS): ordine pubblico di polizia), e non istigare a guidare ubriachi o senza cinture di sicurezza?

Non è chi non veda, invero, che alcune delle più significative norme che disciplinano la circolazione stradale (così come alcune di quelle che disciplinano la sicurezza sul lavoro) hanno carattere cogente e sono dirette a salvaguardare - nell'attuale contesto socio culturale economico- l'ordinato andamento della vita dei consociati e la loro sicurezza nel senso già focalizzato dall'insegnamento, sopra riportato, dei Giudici delle leggi.

Ciò detto, non ignora questa Corte che in una non recente pronuncia di questa Corte (Cass. Pen. Sez. 1, n. 860 in data 17.02.1994, Rv. 197405, P.M./Pensalfmi) si ebbe ad affermare che "le norme concernenti la sicurezza stradale non possono farsi ricomprendere tra le leggi di ordine pubblico", ma si trattò di un obiter dictum, senza approfondimento della tematica, e comunque in altra prospettiva che non sia quella specifica di cui all'art. 415 c.p..

Tanto ritenuto, il ricorso del M. non ha fondamento. Egli realizzò condotta di istigazione, incitando alla violazione della specifica normativa. Ciò avvenne pubblicamente, e cioè con mezzo di diffusione (radio) diretto alla generalità.

Trattandosi di tipico reato di pericolo, non rileva quanti siano stati gli effettivi ascoltatori del messaggio incriminato.

Il reato è punito a titolo di dolo generico, per cui è sufficiente coscienza e volontà della condotta: ciò toglie rilevanza alla deduzione - peraltro autoreferenziale ed apodittica- dell'espressione manifestata ioci causa.

Neppure rileva che le condotte di cui ai proclami del M. siano punite quali illeciti amministrativi (se costituissero reato sarebbero punibili ex art. 414 c.p.), essenziale essendo, come sopra ritenuto, che le norme alla cui disobbedienza era rivolta l'istigazione siano riconducibili all'ordine pubblico quale rettamente va inteso.

E poichè guidare senza cintura di sicurezza ed a maggior ragione ubriachi sono condotte che pongono fortemente in pericolo la sicurezza dei consociati in senso generalizzato, e dunque vanno ricompresse nel concetto di ordine pubblico come sopra inteso, ben sussiste il contestato reato.

In definitiva il ricorso, infondato, deve essere rigettato. Alla completa reiezione dell'impugnazione consegue ex lege in forza del disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente M.V. al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2010