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Illegittime le prassi delle indagini con atteggiamenti inquisitori (Cass. 36747/03)

24 settembre 2003, Cassazione penale

In tema di testimonianza indiretta di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, che il comma 4 dell'articolo 195 del Cpp preclude con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), gli «altri casi» cui si riferisce l'ultima parte della disposizione, per i quali la prova è ammessa secondo le regole generali sulla testimonianza indiretta, si identificano con le ipotesi in cui le dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità.

Non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che, in quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente abbandonata, l'apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e nella legalità del sistema probatorio, proponendosi veicoli di convincimento  affidati interamente alle scelte dell'investigatore. Va superata ogni forma di distonia tra prassi delle indagini, condizionata ancora da atteggiamenti inquisitori, e concezione codificata della prova, qual è strutturata nel vigente sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione di forzare le regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca della verità reale, considerato che le dette regole non incorporano soltanto una neutra disciplina della sequenza procedimentale, ma costituiscono una garanzia per i diritti delle parti e per la "stessa affidabilità della conoscenza acquisita".

 

 

Corte Suprema di Cassazione

Sezione unite Penali

(ud. 28/05/2003) 24-09-2003, n. 36747

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Nicola MARVULLI - Presidente

Dott. Renato TERESI - Consigliere

Dott. Mariano BATTISTI - Consigliere

Dott. Giorgio LATTANZI - Consigliere

Dott. Aldo GRASSI - Consigliere

Dott. Pietro Antonio SIRENA - Consigliere

Dott. Renato Luigi CALABRESE - Consigliere

Dott. Nicola MILO - Consigliere

Dott. Giovanni CANZIO - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

Sui ricorsi proposti da:

1) T.U., nato a Lamezia Terme il 12 luglio 1957;

2) C.G., nato a Milano l'11 gennaio 1973

avverso la sentenza 6 dicembre 2001 della Corte d'Appello di Catanzaro;

Visti gli atti, la sentenza denunciata e i ricorsi;

Sentita la relazione fatta dal consigliere dr. Nicola Milo;

Udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale dr. Giovanni Palombarini, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

Uditi i difensori: Avv. S. (per T.) e Avv. C. (per C.), che hanno concluso per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Svolgimento del processo

1 - La Corte d'Appello di Catanzaro, con sentenza 6 dicembre 2001, confermava il giudizio di colpevolezza espresso dal Tribunale di Lamezia Terme nei confronti di U.T. e G.C. in ordine ai delitti, commessi fino al luglio 1999 in continuazione tra loro, di detenzione a fine di spaccio e di cessione a terzi di sostanze stupefacenti di tipo "pesante" (capi A e B, per il primo; capo F, con l'attenuante ex comma 5 dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, per il secondo), ma riduceva la pena inflitta ad entrambi i prevenuti, previa concessione al solo T. delle circostanze attenuanti generiche, entro limiti ritenuti di giustizia.

Rilevava, preliminarmente, il giudice di merito l'inutilizzabilità, per violazione degli artt. 63 e 65 in relazione agli artt. 191 e 350 c.p.p., comma 7, delle prime dichiarazioni, significative per l'accusa, rese alla Guardia di Finanza (e da questa registrate) da tale N. - indagato sentito senza l'assistenza del difensore - e dagli "informatori" G., C. e I., i quali, pur non essendo, all'epoca, formalmente indagati, versavano sostanzialmente in tale condizione, che avrebbe dovuto imporre l'osservanza delle prescritte garanzie anche per l'eventuale esercizio dello "ius tacendi"; da ciò derivava, sempre secondo il giudice "a quo", pure l'inammissibilità della testimonianza "de relato" sul contenuto dei detti atti viziati.

Valorizzava, tuttavia, ulteriori emergenze e in particolare:

 

1) le registrazioni di altri colloqui intercorsi tra i finanzieri e i loro informatori (con esclusione dei casi prima citati) "operate all'insaputa di questi ultimi e in assenza di specifica autorizzazione dell'autorità giudiziaria", precisando che la mancata verbalizzazione di tale attività, in quanto non espressamente sanzionata, non determinata l'inutilizzabilità dei relativi esiti narrativi;

2) alcune deposizioni testimoniali;

3) le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia D.S. e D'E., imputati di reato connesso;

4) il contenuto delle sommarie informazioni rilasciate, in sede di indagini il 13 ottobre 1999 e il 3 maggio 2000, da I.D., regolarmente verbalizzate dalla p.g. e lette in dibattimento ex art. 512 c.p.p.

 

Riteneva provate, sulla base di tali acquisizioni, per il T., le cessioni di droga a F.C., V.G. e D.I. e, per il C., quelle a M.D.M. e al predetto I.

2 - Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati.

Il T., in particolare, ha lamentato:

 

1) manifesta illogicità della motivazione, nella parte relativa alla cessione di droga al G., essendosi fatto leva sulle dichiarazioni accusatorie di costui, ritenute, in altra parte della sentenza, inutilizzabili;

2) violazione di norme processuali e connesso vizio di motivazione in relazione all'illecita cessione in favore del C.: illegittima l'utilizzazione della registrazione del colloquio tra costui e la polizia giudiziaria, perché si era violato il dovere di verbalizzazione ex art. 357 c.p.p., il che rendeva inammissibile, ex art. 195 c.p.p., comma 4, anche la testimonianza "de relato" sul punto, e perché tale attività, violando il diritto alla segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.), doveva qualificarsi vera e propria intercettazione ambientale, che avrebbe richiesto il rispetto della disciplina di cui all'art. 266 c.p.p. e ss.;

3) violazione della legge processuale e vizio di motivazione, per essere stata data lettura, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni accusatorie in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000 rilasciate, durante la fase delle indagini, dallo I., che si era sottratto all'esame dibattimentale, rendendosi volontariamente irreperibile, non essendo risultato provato che fosse stato fatto oggetto di minacce.

 

Il C., anche con precisazioni contenute in motivi aggiunti, ha dedotto:

 

1) violazione della legge processuale, con riferimento all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis e art. 111 Cost. e per le stesse ragioni enunciate dal T., circa l'utilizzazione delle dichiarazioni procedimentali dello I.;

2) manifesta illogicità della motivazione nel punto relativo all'illecita cessione al D.M., le cui dichiarazioni non avevano trovato alcun altro riscontro, nonché nella parte in cui aveva comunque utilizzato le dichiarazioni dello I., pur ritenute, in altro passaggio, non utilizzabili.

 

3 - La sesta Sezione, alla quale il ricorso era stato assegnato, rilevato che la questione giuridica - prospettata con uno dei motivi di ricorso - concernente l'utilizzazione delle registrazioni dei colloqui intercorsi tra personale della p.g. e suoi informatori, effettuate all'insaputa di questi ultimi e in assenza di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, presentasse profili di "delicatezza" e di "opinabilità" e fosse oggetto di orientamenti difformi nella giurisprudenza di legittimità, con ordinanza 6 febbraio-7 marzo 2003, rimetteva la soluzione del contrasto alle Sezioni Unite.

Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

Motivi della decisione

1 - Il ricorso del T. è in parte fondato, va accolto nei limiti di seguito precisati e, nel resto, va rigettato; quello del C., invece, è privo di qualunque pregio.

La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite è "se la registrazione fonografica di colloqui intercorsi tra operatori di polizia giudiziaria e loro informatori, effettuata ad iniziativa dei primi e all'insaputa dei secondi, richieda, ai fini dell'utilizzabilità probatoria dei contenuti, l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria nelle forme e nei termini previsti per le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni tra presenti", essendosi delineati sul tema contrastanti indirizzi interpretativi nella giurisprudenza di legittimità.

Tali contrasti, per la verità, non si evidenziano in maniera massiccia e radicale, forse perché le soluzioni di volta in volta fornite non sempre sono riconducibili ad un medesimo principio, ma risentono piuttosto del condizionamento riveniente dalla contingenza del singolo caso concreto.

Sta di fatto che, secondo l'orientamento assolutamente maggioritario, pur nella variegata gamma di situazioni esaminate, le registrazioni di conversazioni o di comunicazioni ad opera di uno degli interlocutori (a nulla rilevando se costui appartenga alla polizia giudiziaria o agisca d'intesa con questa) non sono riconducibili nel novero delle intercettazioni e non soggiacciono alla disciplina per queste ultime prevista, considerato che difetta, in tali casi, l'occulta percezione del contenuto dichiarativo da parte di soggetti estranei alla cerchia degli interlocutori e che si realizza soltanto la memorizzazione fonica di notizie liberamente fornite e lecitamente apprese, con l'effetto che le relative bobine possono essere legittimamente acquisite al processo come documenti (cfr. Cass., Sez. I, 22 aprile 1992, A.; Sez. VI, 6 giugno 1993, D.T.; Sez. VI, 8 aprile 1994, G.; Sez. VI, 10 aprile 1996, B.; Sez. I, 6 maggio 1996, S.; Sez. IV, 9 luglio 1996, C.; Sez. VI, 15 maggio 1997, M.; Sez. IV, 11 giugno 1998, C.; Sez. V, 10 novembre 1998, P.; Sez. I, 2 marzo 1999, C.; Sez. VI, 8 aprile 1999, S.; Sez. VI, 18 ottobre 2000, P.; Sez. I, 14 aprile 1999, I.; Sez. I, 21 marzo 2001, L.R.; Sez. III, 12 luglio 2001, V.; Sez. I, 23 gennaio 2002, A.; Sez. II, 5 novembre 2002, M.).

A fronte di tale indirizzo, ve n'è altro minoritario che, con riferimento alla registrazione di colloqui o di comunicazioni da parte della polizia o di suoi incaricati, ritiene trattarsi di una vera e propria intercettazione, le cui regole, che impongono strumenti tipici, non possono surrettiziamente essere aggirate, e ciò perché "l'intervento della polizia giudiziaria procedimentalizza in modo atipico" la captazione telefonica o ambientale, "deprivandola del necessario intervento del giudice" (cfr., nel vigore del codice del 1930, Cass., Sez. II, 5 luglio 1988, B.; Sez. II, 18 maggio 1989, C.; nel regime del nuovo codice, Sez. V, 11 maggio 2000, C.; Sez. VI, 20 novembre 2000, F.).

Ritiene il Collegio che la scelta ermeneutica della giurisprudenza maggioritaria sia sostanzialmente corretta, anche se va approfondita nelle sue premesse concettuali e logico-giuridiche, nei postulati del ragionamento che devono sorreggerla e negli effetti che da essa, in casi particolari, conseguono sul piano processuale.

2 - Primario punto di riferimento normativo dal quale partire nell'analisi del problema non può che essere l'art. 15 della Costituzione, che sancisce l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza o di ogni altra forma di comunicazione, disponendo che la loro limitazione è eccezionalmente consentita "soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge".

Tale norma ha indubbia natura precettiva e mira a proteggere due distinti interessi: "..... quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 Cost., e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale" (cfr. C. Cost., sent. n. 34 del 1973). Affida, poi, il bilanciamento di tali interessi e, quindi, la loro concreta tutela ad una duplice riserva, di legge e di giurisdizione, demandando cioè al legislatore ordinario l'individuazione delle "garanzie" che consentono limitazioni dei valori indicati dal dettato costituzionale e al provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria la legittimazione delle predette restrizioni.

"La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità - attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana (sent. C. Cost. n. 366 del 1991) - comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo", nel senso di ricomprendervi tutto ciò che coessenzialmente vi è legato e che contribuisce a non vanificare il contenuto del diritto che il citato art. 15 della Costituzione intende assicurare al patrimonio inviolabile di ogni persona (cfr. sent. C. Cost., n. 81 del 1993; n. 281 del 1998 in tema di accesso investigativo ai cd. tabulati, che evidenziano i "dati esteriori" delle conversazioni telefoniche).

Il presidio costituzionale del diritto alla segretezza delle comunicazioni non si estende anche ad un autonomo diritto alla riservatezza. Quest'ultima è tutelata costituzionalmente soltanto in via mediata, quale componente della libertà personale, vista nel suo aspetto di libertà morale, della libertà di domicilio, nel suo aspetto di diritto dell'individuo ad avere una propria sfera privata spazialmente delimitata, e della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. In sostanza, la riservatezza è costituzionalmente garantita nei limiti in cui la stessa va ad incidere su alcuni diritti di libertà.

Immaginare che il Costituente abbia voluto imporre il silenzio indiscriminato su ogni comunicazione interpersonale è cosa contraria alla logica oltre che alla natura stessa degli uomini e tale realtà non poteva sfuggire al Costituente. La riservatezza può essere una virtù, ma non è sicuramente un obbligo assoluto, imposto addirittura da una norma costituzionale, immediatamente precettiva.

Basti, per altro, considerare che è lo stesso ordinamento ad escludere una tutela generalizzata del diritto alla riservatezza delle comunicazioni, posto che sono le leggi ordinarie che assicurano, in casi specifici e determinati, in armonia con la previsione "mediata" della Carta dei valori, tale tutela: esemplificativamente, in tema di organizzazione dell'impresa (art. 2105 c.c.), di segreto d'ufficio (art. 15 del T.U. D.P.R. n. 3 del 1957 e art. 28 della L. n. 240 del 1990), di lavoro domestico (art. 6 della L. 2 aprile 1958, n. 339), di segreto professionale, scientifico e industriale (artt. 622 e 623 c.p.).

La tutela del diritto alla riservatezza, intesa nel senso innanzi precisato, è in linea con l'interpretazione che ne è stata data dal Giudice delle leggi (C. Cost. n. 81 del 1993) e da queste stesse Sezioni Unite (cfr. sent. 23 febbraio 2000, D'A.) in relazione alla diffusione da parte di terzi dei dati "esteriori" delle comunicazioni telefoniche che, in via di principio, devono rimanere nell'esclusiva disponibilità dei soggetti interessati.

La normativa in tema di intercettazioni dà attuazione all'esigenza costituzionale di cui all'art. 15 della Costituzione, che, pur non sottovalutando, ma tenendo nel debito conto, l'inderogabile dovere dello Stato di prevenire e reprimere i reati, prevede l'attuazione di tale dovere nell'assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare l'inviolabilità della libertà e della segretezza delle comunicazioni, bene questo intimamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali.

Gli art. 266 c.p.p. e ss., infatti, fissano i limiti in cui è ammessa la ricerca della prova per mezzo dello strumento captativo, che ha notevole capacità intrusiva, stabiliscono i presupposti e le forme dei provvedimenti autorizzativi delle intercettazioni, disciplinano lo svolgimento delle operazioni, i modi di acquisizione e conservazione della relativa documentazione, l'utilizzabilità dei risultati in altri procedimenti e prevedono, infine, sanzioni processuali per la violazione delle regole.

È necessario, quindi, individuare i contenuti della nozione di intercettazione, allo scopo di delimitare l'ambito operativo della normativa in questione e verificare, poi, se possano essere introdotti nel processo, con modalità di acquisizione diverse, elementi probatori comunque inerenti a conversazioni o comunicazioni.

3 - Il codice non offre una definizione dell'intercettazione, ma dal complesso normativo, che ne prevede l'autorizzazione e ne regola i presupposti, lo svolgimento delle operazioni e l'utilizzabilità dei risultati, si evince che l'intercettazione "rituale" consiste nell'apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio. Questa caratterizzazione in senso restrittivo del concetto d'intercettazione, astrattamente suscettibile di interpretazioni più estensive, è l'unica in sintonia con la disciplina legale di cui al capo IV, titolo III, libro III del c.p.p. (cfr., nello stesso senso, C. Cost., sent. n. 81 del 1993; SS.UU. 23 febbraio 2000, D'A.).

L'intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché sia qualificata tale, una serie di requisiti:

 

a) i soggetti devono comunicare tra loro col preciso intento di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest'ultima segreta: una espressione del pensiero che, pur rivolta ad un soggetto determinato, venga effettuata in modo poco discreto sì da renderla percepibile a terzi (ad esempio, parlando ad alta voce in pubblico, servendosi di onde radio liberamente captabili), non integra il concetto di "corrispondenza" o di "comunicazione", bensì quello di "manifestazione", con l'effetto che si rimane al di fuori del fenomeno in esame e viene in considerazione l'art. 21 della Costituzione e non l'art. 15 della Costituzione; d'altra parte, la volontaria scelta di modalità comunicative che rendano accessibili a terzi i corrispondenti dati di conoscenza pone la cognizione di questi ultimi fuori della garanzia assicurata dall'art. 15 Cost.;

b) è necessario l'uso di strumenti tecnici di percezione (elettro-meccanici o elettronici) particolarmente invasivi ed insidiosi, idonei a superare le cautele elementari che dovrebbero garantire la libertà e segretezza del colloquio e a captarne i contenuti: tanto è desumibile dalla lettera della norma (art. 268 c.p.p.) che impone di effettuare - di regola - le operazioni di intercettazione "per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica" ed, eccezionalmente, "mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria"; non v'è, pertanto, intercettazione "rituale" se l'operatore non si avvale dei detti strumenti e se la cognizione non avviene mediante la predisposizione di un apparato tecnico capace di captare la comunicazione mentre si svolge (particolare è il caso, riconducibile anche nel concetto d'intercettazione, pur discostandosene dallo schema tipico, del terzo che provveda a nascondere - per poi ovviamente recuperarlo - un apparecchio magnetofonico in funzione nella stanza destinata ad ospitare una conversazione tra altre persone, con ascolto "in differita" della riproduzione);

c) l'assoluta estraneità al colloquio del soggetto captante che, in modo clandestino, consenta la violazione della segretezza della conversazione.

 

3a - Ciò posto, deve escludersi che possa essere ricondotta nel concetto d'intercettazione la registrazione di un colloquio, svoltosi a viva voce o per mezzo di uno strumento di trasmissione, ad opera di una delle persone che vi partecipi attivamente o che sia comunque ammessa ad assistervi. Difettano, in questa ipotesi, la compromissione del diritto alla segretezza della comunicazione, il cui contenuto viene legittimamente appreso soltanto da chi palesemente vi partecipa o vi assiste, e la "terzietà" del captante. La comunicazione, una volta che si è liberamente e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti ad essa estranei, entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l'effetto che ognuno di essi ne può disporre, a meno che, per la particolare qualità rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano specifici divieti alla divulgazione (es.: segreto d'ufficio).

Ciascuno di tali soggetti è pienamente libero di adottare cautele ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione, per acquisire, nella forma più opportuna, documentazione e quindi prova di ciò che, nel corso di una conversazione, direttamente pone in essere o che è posto in essere nei suoi confronti; in altre parole, con la registrazione, il soggetto interessato non fa altro che memorizzare fonicamente le notizie lecitamente apprese dall'altro o dagli altri interlocutori.

L'acquisizione al processo della registrazione del colloquio può legittimamente avvenire attraverso il meccanismo di cui all'art. 234 c.p.p., comma 1, che qualifica "documento" tutto ciò che rappresenta "fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo"; il nastro contenente in registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di un'estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa, con l'effetto che una simile pratica finisce col ricevere una legittimazione costituzionale.

Una parte della dottrina ha negato il carattere di prova documentale al nastro registrato e ha, pertanto, escluso che lo stesso, in quanto rappresentativo di dichiarazioni e non di "fatti, persone o cose", possa essere introdotto nel processo.

È agevole replicare che il codice identifica e definisce il documento "in ragione della sua attitudine a rappresentare" (relazione al prog. prel. del nuovo codice), senza discriminare tra i differenti mezzi di rappresentazione e le differenti realtà rappresentate e senza operare alcuna distinzione tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni (cfr. C. Cost., sent. n. 142 del 1992). La dichiarazione, per altro, considerata nella sua globalità, integra un "fatto" e la relativa registrazione documenta non soltanto la circostanza che un determinato soggetto ha parlato in un certo contesto spazio-temporale, ma anche che ha pronunciato quelle parole che risultano incise sul nastro, salva ovviamente ogni valutazione circa la genuinità del documento, la fedeltà della riproduzione e la veridicità delle dichiarazioni di scienza così come registrate.

D'altra parte, la legittimità - in tesi - di una tale prova documentale non può essere posta seriamente in dubbio, ove si consideri che essa ha per oggetto fatti in ordine ai quali nessuno dubita della praticabilità della testimonianza "de relato", espressamente disciplinata dall'art. 195 c.p.p. Alla testimonianza dell'ascoltatore, quindi, si affianca, come tipico mezzo di prova del fatto "dichiarazione stragiudiziale", la riproduzione fonografica dell'atto dichiarativo. Se quest'ultima viene offerta al giudice come prova anziché il resoconto testimoniale, la "vox mortua" proveniente dall'incisione fonografica finisce con l'assolvere «l'identica funzione della "vox viva" del teste"», considerato che "riferisce, come riferirebbe un testimone, le parole di chi ha emesso la dichiarazione".

Sulla generica ammissibilità della cd. "prova magnetofonica", sia pure intesa come "prova innominata", si concordava in dottrina e giurisprudenza già nel vigore del codice di rito abrogato, che pure nulla disponeva al riguardo. Il nuovo codice rende superflua ogni discussione in argomento, considerato che l'art. 234 c.p.p. non soltanto fuga ogni possibile dubbio circa l'ammissibilità della prova fonografica, ma offre una definizione normativa di prova documentale che, nel suo più ampio significato, ricomprende anche quella in discussione.

È ovvio che non deve trattarsi della riproduzione meccanica di atti processuali e, pertanto, vanno escluse dal novero di prove documentali le riproduzioni fonografiche di cui all'art. 134 c.p.p., commi 3 e 4, artt. 139, 141-bis, 214 c.p.p., comma 3, art. 219 c.p.p., comma 2, art. 398 c.p.p., comma 5-bis.

La prova documentale in senso stretto è caratterizzata da una genesi "strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto alla vicenda processuale" e si forma fuori dell'ambito processuale, nel quale deve essere introdotta per acquistare rilevanza.

Al nastro magnetico, dunque, non va negata, in linea generale, un'autonoma efficacia rappresentativa, che prescinde della testimonianza dell'autore della registrazione.

3b - Né può fondatamente sostenersi che la divulgazione del contenuto del colloquio da parte di chi lo ha registrato sarebbe inibita dall'art. 15 Cost., posto che il diritto alla riservatezza, non atteggiandosi, in questo caso, come componente essenziale del diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni, non si pone come valore costituzionalmente protetto e, ove non risulti neppure assicurato da specifiche previsioni della legge ordinaria, cede di fronte all'esigenza di formazione e di conservazione di un mezzo di prova. Il diritto alla riservatezza - come si è detto - non vive nell'ordinamento sulla base di una previsione generalizzata, ma è il legislatore che di volta in volta ne dispone la genesi e la tutela. Il Costituente si è semplicemente preoccupato di garantire gli interlocutori dalla arbitraria e fraudolenta intrusione di terzi. Esauritosi il rapporto tra il comunicante ed il destinatario, residua solo un fenomeno di diffusione della notizia da parte di chi legittimamente l'ha acquisita, il quale, potrà, salvo che una specifica norma dell'ordinamento gliene faccia divieto, comunicare a terzi la notizia ricevuta e, più specificamente, nell'ambito del processo, potrà deporre come testimone su quanto gli è stato riferito e/o consegnare il nastro registrato.

Il divieto di divulgazione di notizie legittimamente apprese, quale espressione del diritto di riservatezza del comunicante, non ha carattere assoluto neppure alla luce della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (C.E.D.U.), resa esecutiva in Italia con L. n. 848 del 1955.

È vero che, nella genericità della formula normativa adottata dal legislatore pattizio nell'art. 8 della Convenzione, è ricompressa la salvaguardia dell'interesse alla riservatezza, anche nel suo aspetto più "evoluto" di interesse al controllo sulla gestione delle informazioni fornite a terzi, ma non può sottacersi che il secondo comma del richiamato articolo pone l'accento, in particolare, su condotte di "introduzione, intromissione, interferenza" e non anche su condotte divulgative e che il successivo art. 10, al comma 1, riconosce il diritto alla "libertà di espressione" e quindi alla "..... libertà di ricevere o di comunicare informazioni" di cui si è venuti legittimamente in possesso e, al secondo comma, prevede che l'esercizio di tale diritto può "essere subordinato a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", anche "per impedire la diffusione di informazioni riservate", il che significa che la concreta tutela della riservatezza rimane affidata ad espresse previsioni della legge ordinaria di ogni singolo Stato aderente alla Convenzione.

4 - Ritenuta, pertanto, l'ammissibilità della prova documentale, integrata dalla registrazione fonografica di una comunicazione tra presenti (o anche tra persone che si servono di uno strumento di trasmissione) ad opera di uno degli interlocutori o di persona ammessa ad assistervi, va affrontato il tema della concerta utilizzabilità, nel processo, di una simile prova.

4a - Non pone problemi particolari il caso in cui la registrazione sia effettuata da un privato e il documento fonografico venga, quindi, ad esistenza al di fuori dell'ambito processuale e di ogni attività investigativa e assuma una propria autonomia strutturale rispetto a questi. Non v'è dubbio che, in tela ipotesi, la prova rappresentativa, formatasi presumibilmente in maniera spontanea e libera, essendo "precostituita", ben può essere acquisita al processo ed utilizzata dal giudice ai fini della decisione, perché, data la sua genesi, è insensibile a qualunque verifica circa il rispetto delle regole in materia di assunzione della prova, regole di cui il privato non è destinatario e che non operano oltre i confini processuali o, quanto alla indagini, oltre quelli procedimentali.

4b - Ben più delicato è il caso in cui il documento fonografico sia formato per iniziativa di un operatore della polizia giudiziaria, che occultamente registra il contenuto di una conversazione alla quale partecipa.

Emerge immediatamente, in questa ipotesi, una problematica che, prescindendo dalla "teorica" ammissibilità delle registrazioni clandestine a cura del partecipe al colloquio, si focalizza specificamente sulla particolare qualità del medesimo partecipe; non assumono cioè rilevanza il tema della registrazione quale prova documentale e quello connesso dalla disciplina costituzionale e processuale sulla riservatezza delle comunicazioni; l'attenzione, invece, va concentrata sulla legittimità dell'atto compiuto dalla polizia giudiziaria: assume, in sostanza, importanza secondaria il fatto che le informazioni siano state stabilmente impresse su nastro magnetico; il documento fonico, di per sé, per la sola ragione che è - in tesi - legittimato dall'art. 234 c.p.p., non rende valida ed utilizzabile un'acquisizione invalida, perché in violazione di altri divieti stabiliti, nel caso specifico, dalla legge.

La pratica investigativa di ricorrere alla registrazione occulta di colloqui che la polizia giudiziaria intrattiene con confidenti, persone informate dei fatti, indagati o indagabili va decisamente scoraggiata, perché, stenta, innanzi tutto, a conciliarsi con il disposto degli artt. 188 e 189 c.p.p., per il naturale sospetto della presenza di insidie di natura fraudolenta che possono incidere sulla libertà morale della persona interessata, e perché soprattutto deve rapportarsi, per ricevere legittimazione, alle altre regole che presidiano determinati mezzi di prova.

La "deformalizzazione" del contesto nel quale determinate dichiarazioni vengono percepite dal funzionario di polizia non deve costituire un espediente per assicurare comunque al processo contributi informativi che non "sarebbe stato possibile ottenere ricorrendo alle forme ortodosse di sondaggio delle conoscenza del dichiarante".

Non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che, in quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente abbandonata, l'apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e nella legalità del sistema probatorio, proponendosi "veicoli di convincimento..... affidati interamente alle scelte dell'investigatore". Va superata ogni forma di distonia tra prassi delle indagini, condizionata ancora da atteggiamenti inquisitori, e concezione codificata della prova, qual è strutturata nel vigente sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione di forzare le regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca della verità reale, considerato che le dette regole non incorporano soltanto una neutra disciplina della sequenza procedimentale, ma costituiscono una garanzia per i diritti delle parti e per la "stessa affidabilità della conoscenza acquisita".

5 - In sostanza, il problema delle violazioni eventualmente commesse nell'uso investigativo del registratore va risolto alla luce dell'art. 191 c.p.p., che rappresenta la consacrazione e l'estensione delle affermazioni contenute nella nota sent. n. 34 del 1973 della Corte Costituzionale (tanto che nella relazione ministeriale alla detta norma si evoca proprio tale importante pronuncia). Il richiamato articolo, infatti, ancora, in via generale, la sanzione dell'inutilizzabilità alla violazione dei divieti stabiliti dalla "legge", superando così l'antica tesi che si basava su di una sorta di "autonomia" del diritto processuale penale in relazione ai vizi della prova, che quindi possono trovare la loro fonte in tutto il corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore (già queste Sezioni Unite hanno ritenuto l'inutilizzabilità di prove cd. incostituzionali: 25 marzo 1998, M.; 13 luglio 1998, G.; 23 febbraio 2000, D'A.).

Di fronte ad una previsione normativa così perentoria e radicale, è evidente che la palese violazione dello schema legale rende l'atto investigativo, che si pone al di fuori di tale schema, infruttuoso sul piano probatorio, per violazione della legge processuale.

Né vanno sottaciute specifiche norme processuali, correlate alla detta prescrizione generale, che prevedono divieti probatori sanzionati dall'inutilizzabilità (artt. 62, 63, 141-bis, 195, 203 c.p.p.).

L'atto documentato in forma differente da quella prescritta, sebbene non possa ritenersi, come pure si è affermato (cfr. Cass., Sez. I, 12 ottobre 1994, S.), inesistente o nullo in sé (patologia statica), sintetizza certamente un'attività di indagine illegittimamente svolta e non può assumere, pertanto, valore di prova (cd. patologia dinamica).

5a - Ciò posto, la registrazione effettuata dalla p.g. di dichiarazioni, conversazioni, colloqui non è utilizzabile processualmente tutte le volte che viola il divieto di testimonianza posto dagli artt. 62 e 195 c.p.p., comma 4, quello della ricezione di dichiarazioni indizianti rese, senza il rispetto delle garanzie difensive, dalla persona sottoposta ad indagini o dall'imputato (art. 63 c.p.p.), nonché quello concernente le dichiarazioni dei cd. "confidenti" della polizia e dei servizi di sicurezza (art. 203 c.p.p.).

Come si è sopra accennato, la spendibilità processuale delle registrazioni clandestine si gioca sulla pertinenza del documento fonico alla rappresentazione di notizie (aventi ad oggetto il contenuto del colloquio) che ben possono essere introdotte nel processo attraverso la testimonianza del partecipe implicato nella registrazione.

Il regime di ammissibilità della particolare prova documentale costituita dalla registrazione ad opera della p.g. non può che essere conformato proprio alle regole di preclusione della testimonianza sulle dichiarazioni di terzi.

Il riferimento immediato va al divieto di deposizione "de relato" per gli organi di polizia che abbiano acquisito, nell'espletamento della propria funzione investigativa, atti dichiarativi.

Va, inoltre, sottolineata la diversità di regolamentazione prevista per la deposizione indiretta di fonte "comune", che non è deputata ad attività investigative, rispetto a quella "qualificata" proveniente dalla polizia giudiziaria, e ciò proprio al fine di evitare che abbiano ingresso nel processo atti investigativi non ammissibili e non utilizzabili.

L'art. 195 c.p.p., comma 4, nella vigente formulazione vieta la testimonianza del funzionario di polizia "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 c.p.p., comma 2, lett. a e b". Il divieto, quindi, ha per oggetto:

 

a) le sommarie informazioni assunte dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, per le quali l'art. 357 c.p.p., comma 2, lett. c), prescrive la redazione di apposito verbale;

b) le informazioni assunte, anch'esse da verbalizzare, dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato;

c) le sommarie informazioni rese e le spontanee dichiarazioni ricevute da soggetti indagati, per le quali pure è prescritta la redazione del verbale (art. 357 c.p.p., comma 2, lett. b), anche se la superfluidità di tale specifica previsione è insita nella preclusione testimoniale già perentoriamente espressa dall'art. 62 c.p.p. per le dichiarazioni comunque rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento;

d) il contenuto narrativo delle denunce, querele e istanze presentate oralmente e soggette a verbalizzazione, atti che comunque, ove contengano sommarie informazioni testimoniali, sono riconducibili nella previsione degli artt. 351 e 357 c.p.p., comma 2, lett. c).

 

Si è voluto così circoscrivere il ripristinato divieto della testimonianza indiretta, in attuazione della nuova formulazione dell'art. 111 Cost. e a superamento della sent. n. 24 del 1992 della Corte Costituzionale (che lo aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo), soltanto agli atti tipici di contenuto dichiarativo compiuti dalla p.g., i quali devono essere documentati mediante la redazione di un apposito verbale.

Il riferimento alle "modalità di cui agli artt. 351 e 357 c.p.p." contenuto nell'art. 195 c.p.p., comma 4 non può essere interpretato nel senso di rendere legittima la testimonianza di secondo grado del funzionario di polizia in caso di mancata verbalizzazione (pur sussistendone l'obbligo) dell'atto di acquisizione delle informazioni ricevute. Così interpretata, la norma finirebbe per tradire il suo scopo fondamentale, che è quello di evitare l'introduzione nel dibattimento, a fini probatori, di dichiarazioni acquisite in un contesto procedimentale non correttamente formalizzato, di salvaguardare il principio di formazione della prova nel contraddittorio del dibattimento e di sanzionare, quindi, l'obbligo di documentazione dell'attività investigativa tipica della p.g., osservando le particolari modalità prescritte dal codice di rito, che non consente di surrogare la redazione del verbale (che costituisce una formalizzazione in funzione documentativa comunque irrinunciabile) con la registrazione.

L'interpretazione rigorosa e coerente del quarto comma dell'art. 195 c.p.p., strutturato in termini di complementarità con le modalità di documentazione del contenuto delle dichiarazioni acquisite in sede di indagini e con il meccanismo di lettura dibattimentale dell'atto divenuto irripetibile, non può che essere nel senso che esso vieti non soltanto la testimonianza indiretta sulle dichiarazioni regolarmente acquisite in sede di sommarie informazioni, ma anche quella sulle dichiarazioni che "si sarebbero dovute acquisire con le modalità di cui all'art. 351 c.p.p.". L'indirizzo giurisprudenziale, secondo cui la mancata verbalizzazione di determinati atti tipici non sarebbe di ostacolo alla testimonianza di secondo grado (Cass., 30 giugno 1999, S.; 29 novembre 1999, L.; 4 marzo 1998, B.), non è più in linea col nuovo sistema, i8l quale ha voluto evitare elusioni in forma surrettizia del principio del contraddittorio.

Gli "altri casi" per i quali l'art. 195 c.p.p., comma 4, legittima la testimonianza "de auditu" del funzionario di polizia si riducono alle sole ipotesi in cui dichiarazioni di contenuto narrativo siano state rese da terzi e percepite dal funzionario "al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime", in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un "dialogo tra teste e ufficiale o agente di p.g., ciascuno nella propria qualità". Esemplificativamente, si pensi alle frasi pronunciate dalla persona offesa o da altri soggetti presenti al fatto, nell'immediatezza dell'episodio criminoso; alle dichiarazioni percepite nel corso di attività investigative tipiche - quali perquisizioni, accertamenti su luoghi - o atipiche - quali appostamenti, pedinamenti ecc. -; in tali casi, è acquisibile ed utilizzabile, come documento, anche l'eventuale registrazione su nastro magnetico delle comunicazioni percepite.

Tale interpretazione, che appare l'unica ragionevole e costituzionalmente corretta, trova indiretto conforto nei recenti interventi dalla Consulta (cfr. sent. n. 32 del 2002 e ord. n. 36 del 2002), che ha rimarcato il senso del principio del contraddittorio nella formazione della prova, previsto dell'art. 111 Cost.: "..... da questo principio con il quale il legislatore ha dato formale riconoscimento al contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto di giudizio, deriva quale corollario il divieto di attribuire valore di prova alle dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi investigativi" (sent. n. 32 del 2002); "l'art. 111 Cost. [ha] espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; ..... alla stregua di tale opzione appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento ..... da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari" (ord. n. 36 del 2002).

L'esposta disciplina sul divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti della p.g. non appare irragionevole e discriminatoria neppure nel raffronto con quella relativa all'incompatibilità a testimoniare (art. 197 c.p.p., comma 1, lett. d) del "difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva" e di "coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell'art. 391-ter c.p.p.". Tale incompatibilità, anzi, se correttamente interpretata in armonia con l'art. 111 Cost., comma 4, non lascia alcuno spazio all'aggiramento delle regole di esclusione probatoria (cfr. C. Cost., sent. n. 32 del 2002). Né la possibilità offerta al difensore e agli investigatori privati, ex art. 391-bis c.p.p., di procedere a colloqui informali e non documentati determina una disparità di trattamento tra le parti processuali, atteso che detti colloqui, proprio perché non documentati e funzionali all'eventuale attività investigativa della difesa, risultano, di per sé, insuscettibili d'impiego, ai sensi dell'art. 391-decies c.p.p. La possibile deposizione testimoniale, salvo ad opporre il segreto professionale ex art. 200 c.p.p., dell'investigatore privato, non destinatario della previsione d'incompatibilità di cui all'art. 197 c.p.p., comma 1, lett. d), sui colloqui informali intrattenuti, pur apparendo una scelta non felice, finisce col ricadere nella disciplina di cui all'art. 195 c.p.p., commi 1, 2 e 3, il che non determina alcuno squilibrio del sistema, che, in questo specifico caso, non impone alcuna regola "tipica" per la spendibilità processuale del contenuto di tali "colloqui" (al di là di ogni considerazione sulla rilevanza del contenuto degli stessi, se non seguiti da "dichiarazione scritta" o "informazioni" documentate dei soggetti sentiti).

5b - Conclusivamente, per quello che qui interessa, non possono essere acquisiti al processo e non possono essere utilizzati, come materiale probatorio, documenti fonografici rappresentativi di sommarie informazioni rese alla p.g. (e da questa clandestinamente registrate) da persone a conoscenza di circostanze utili ai fini delle indagini, perché, in tale maniera, si renderebbe il processo permeabile da apporti probatori unilaterali degli organi investigativi e soprattutto si aggirerebbero le regole sulla formazione della prova testimoniale nel contraddittorio dibattimentale.

Non diversa deve essere la conclusione per il "dictum" formalmente extraprocedimentale dell'indiziato (o di chi deve ritenersi sostanzialmente tale ovvero dell'indagato o dell'imputato di reato connesso o collegato) che, però, si collochi in un contesto di ricerca investigativa preordinato alla sua acquisizione e che sia oggetto di memorizzazione fonica. L'acquisizione del relativo documento magnetico consentirebbe, in questo caso, un facile aggiramento del disposto dell'art. 63 c.p.p., comma 2, che proibisce l'utilizzo di qualsiasi dichiarazione resa dall'indagato alla p.g., in mancanza delle prescritte garanzie difensive.

Anche le notizie provenienti dagli "informatori" della p.g. e da questa impresse su nastro magnetico non possono essere veicolate nel processo, attraverso l'acquisizione e l'utilizzazione del documento fonografico (o attraverso la sola testimonianza indiretta).

Ciò urta contro il divieto probatorio di cui all'art. 203 c.p.p., a sua volta correlato alla generale prescrizione dell'art. 191 c.p.p.

Secondo il disposto del citato art. 203 c.p.p., comma 1, le informazioni fornite dai confidenti non possono essere acquisite e utilizzate se i predetti non sono esaminati come testimoni (l'operatività della norma è stata, in maniera espressa, estesa - mediante l'aggiunta del comma 1-bis ad opera dell'art. 7 della L. n. 63 del 2001 - alle fasi diverse dal dibattimento).

Il legislatore, nell'optare per la drastica sanzione dell'inutilizzabilità, ha inteso sottolineare che, in tale ipotesi, ci si trova di fronte a materia indisponibile, in cui gli effetti dell'atto assunto in violazione del precetto normativo sono determinati dallo stesso legislatore, senza possibilità per le parti di farvi acquiescenza. La previsione dell'inutilizzabilità, per altro, è prevista in via generale anche dall'art. 195 c.p.p., comma 7, laddove è stabilito che "non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame". Il materiale probatorio proveniente dai confidenti di polizia, infatti, in quanto di norma assunto nel segmento dell'attività investigativa più lontano e refrattario al controllo giurisdizionale, è oggettivamente pericoloso e inaffidabile, tanto più quando venga acquisito in forma mediata; da qui l'obbligatorietà della diretta escussione del confidente, se ne vengano indicate le generalità. Competerà, poi, al giudice, come in ogni altro caso, la valutazione di attendibilità della notizia confidenziale e della testimonianza diretta, ove i relativi contenuti divergano.

5c - Le considerazioni sin qui svolte consentano di enunciare i seguenti principi di diritto:

"La registrazione fonografica di una conversazione o di una comunicazione ad opera di uno degli interlocutori, anche se operatore di polizia giudiziaria, e all'insaputa dell'altro (o degli altri) non costituisce intercettazione, difettandone il requisito fondamentale, vale a dire la terzietà del captante, che dall'esterno s'intromette in ambito privato non violabile".

"La registrazione del colloqui, in quanto rappresentativa di un fatto, integra la prova documentale disciplina dell'art. 234 c.p.p., comma 1".

"Il documento fonografico è pienamente utilizzabile se non viola specifiche regole di acquisizione della prova".

"Non è utilizzabile come prova la registrazione fonografica effettuata clandestinamente da personale della polizia giudiziaria e rappresentativa di colloqui intercorsi tra lo stesso ed i suoi confidenti o persone informate dei fatti o indagati, perché urta contro i divieti di cui all'art. 63 c.p.p., comma 2, artt. 191 e 195 c.p.p., comma 4, e art. 203 c.p.p.".

6 - Altro problema dedotto con i motivi di ricorso attiene ai limiti di operatività dell'art. 512 c.p.p.

Tale norma prevede una forma di irripetibilità sopravvenuta ed estrinseca di atti assunti in sede di indagini preliminari e, quindi, la possibilità di "ripescaggio" di tale materiale probatorio, di cui imprevedibilmente ne sia divenuta impossibile la ripetizione.

Due, quindi, sono le condizioni necessarie per l'operatività della norma in questione, che costituisce un'eccezione al principio dell'oralità del processo:

 

a) sopravvenienza di una situazione imprevedibile nel momento in cui l'atto è stato assunto;

b) non reiterabilità dell'atto per effetto di una situazione non ordinariamente superabile.

 

La valutazione circa la ricorrenza di tali condizioni è demandata in via esclusiva al giudice di merito, il quale, in ordine alla prima, deve formulare una prognosi postuma, sorretta da motivazione adeguata e conforme alle regole della logica, e, in ordine alla seconda, deve accertare la natura oggettiva dell'impossibilità di formazione della prova in contraddittorio, apprezzando tale evenienza liberamente non in termini di "assolutezza", ma di realistica impossibilità (non di "mera difficoltà") di dare corso, nel dibattimento, all'assunzione della medesima prova.

Anche dopo la modifica dell'art. 111 Cost. con l'introduzione dei principi del cd. "giusto processo", possono essere lette ed acquisite al fascicolo del dibattimento, ex art. 512 c.p.p., le dichiarazioni rese da un teste nella fase delle indagini, qualora lo stesso, per cause imprevedibili al momento del suo esame, risulti irreperibile, atteso che tale situazione, la cui verifica non deve essere meramente "burocratica e routinaria" (cfr. Sez. VI, 19 febbraio 2003, B.; 8 gennaio 2003, P.), configura una delle ipotesi di oggettiva e concreta impossibilità di formazione della prova in contraddittorio previste dal precetto costituzionale (art. 111 Cost., comma 5: "la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio ..... per accertata impossibilità di natura oggettiva .....").

La situazione di accertata "irreperibilità" non può essere "tout court" equiparata alla volontaria sottrazione all'esame di cui all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, che presuppone, comunque, la potenziale attuabilità dell'audizione.

In sostanza, il sistema, pur muovendosi, in coerenza col dettato costituzionale, nella prospettiva di privilegiare la forza confutatrice del confronto tra accusato e accusatore, non trascura di considerare il caso in cui tale confronto diventi oggettivamente impossibile, onde recuperare, in linea con la deroga pure prevista dalla Costituzione (art. 111 Cost., comma 5), il precedente narrativo.

Ne consegue che va affermato l'ulteriore principio di diritto:

"La disposizione di cui all'art. 512 c.p.p., secondo la quale può darsi lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal p.m., dai difensori e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione, è applicabile anche in caso di irreperibilità del dichiarante, considerato che tale situazione, da accertarsi con rigore, configura una ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio e non può essere equiparata alla volontaria scelta di sottrarsi all'esame di cui all'art. 526 c.p.p., comma 1-bis, che presuppone comunque la potenziale attuabilità, in dibattimento, dell'audizione".

7 - Passando, quindi, ad analizzare i singoli motivi di ricorso, va riassuntivamente osservato quanto segue.

7a - Non sussiste, innanzi tutto, il dedotto vizio di manifesta illogicità della motivazione della gravata pronuncia, nella parte in cui - per un verso - ritiene inutilizzabili le dichiarazioni (registrate) fatte alla GdF da G. e da I. e - per altro verso - utilizzerebbe proprio tali dichiarazioni, quale prova delle cessioni di droga ai predetti.

La doglianza - comune ai due ricorrenti - riposa su un equivoco di fondo. Non v'è, infatti, coincidenza tra gli atti investigativi ritenuti inutilizzabili dalla Corte di merito e gli elementi probatori posti a base della decisione adottata sul punto.

Le dichiarazioni del G. prese in considerazione, invero, sono quelle rese, con le prescritte garanzie difensive e nel rispetto del contraddittorio, all'udienza dibattimentale del 24 ottobre 2000 e non già il precedente narrato confidenziale di cui furono destinatari, tra l'agosto 1998 ed il maggio 1999, i finanzieri M. e T., anche se a tale precedente il dichiarante ha fatto riferimento per relationem.

Le dichiarazioni dello I. ritenute rilevanti sono le informazioni, regolarmente verbalizzate, in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000, le quali non coincidono con quelle precedentemente registrate dell'11 marzo 1999 e del 18 maggio 1999 e ritenute inutilizzabili.

7b - Sussiste la denunciata violazione della legge processuale, con riferimento all'acquisizione ed utilizzazione della registrazione fonografica che documenta il colloquio "confidenziale" intercorso, il 29 maggio 1999, tra F.C. ed il sottufficiale della GdF M.

Se il C., come sembra evincersi da alcuni passaggi espositivi delle sentenze di merito, svolse il ruolo di "confidente" della polizia giudiziaria, le sue informazioni non possono trovare ingresso nel processo e non possono essere utilizzate come prova, perché, per quanto sopra esposto, si viola così il disposto dell'art. 203 c.p.p., che impone l'esame diretto del confidente-testimone. A tale esame diretto non si fa alcun cenno nella decisione oggetto di verifica e neppure in quella di primo grado.

Non può, tuttavia, la Corte ignorare che dal testo di entrambe le sentenze di merito non emerge, con chiarezza, la sicura identificazione della situazione con la fattispecie dell'art. 203 c.p.p., anche perché la persona chiamata a fornire le informazioni sui fatti oggetto del procedimento non può, a causa delle sole modalità irregolari di assunzione, qualificarsi come fonte informativa della polizia. Il tratto distintivo del "confidente" è semmai nella volontà, nel consenso del soggetto ad offrire notizie, con l'assicurazione, garantita dalla legge processuale, di restare in incognito: nel rapporto confidente-polizia non c'è inganno; esso si regge sulla fiducia; la polizia protegge la fonte informativa e la esclude - per quanto possibile - da ripercussioni processuali. Tutto questo non si ricava, in modo univoco, dal testo della sentenza impugnata, sicché non può escludersi che il C. sia stato sentito dalla GdF, al di là della qualificazione nominalistica attribuitagli, come persona informata dei fatti ex art. 351 c.p.p.

Anche in quest'ultima ipotesi, il documento fonico non può essere utilizzato, perché - come precisato - viola il modello legale previsto per la prova testimoniale, da assumersi nella dialettica processuale delle parti, ed altera il delicato equilibrio che deve contemperare poteri investigativi e garanzie.

È pur vero che la gravata sentenza, in ordine alla cessione di droga al C., fa riferimento anche alla testimonianza del m.llo B. ed alle informazioni "de relato" fornite da I.D., ma tali ulteriori elementi vengono apprezzati come meri "riscontri" al contenuto della registrazione, la quale riveste un ruolo centrale e decisivo nel percorso motivazionale seguito, che, deprivato di tale importante emergenza non utilizzabile, perde ogni consistenza.

Su questo specifico punto, che riguarda la sola posizione del T., la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Catanzaro, che dovrà, in piena libertà di giudizio ma adeguandosi ai principi di diritto sopra enunciati, rivalutare questa parte della contestazione accusatoria alla luce dell'eventuale deposizione dibattimentale del C. (anche attivando, se del caso, lo strumento di cui all'art. 603 c.p.p., comma 3) e di ogni altro elemento di giudizio legittimamente acquisito.

7c - Non censurabile in questa sede è il giudizio di responsabilità del T. in ordine alla cessione di droga al G., giudizio fondato essenzialmente sulle dichiarazioni dibattimentali di quest'ultimo ritenute pienamente attendibili, esenti da sospetti inquinanti e riscontrate, quanto all'abituale attività di spaccio praticata dal prevenuto, dal "dictum" dei collaboratori di giustizia D.S.M. e D'E.P.

7d - Analoghe considerazioni vanno fatte quanto alla cessione di droga dal T. allo I., ritenuta provata dalle sommarie informazioni da quest'ultimo rese in sede di indagini e lette in dibattimento ex art. 512 c.p.p.

Il giudice di merito, in ordine alla legittimità di tale lettura, ha offerto congrua e logica motivazione.

Nel momento di in cui I. rese, in data 13 ottobre 1999 e 3 maggio 2000, in uno spirito di piena collaborazione con gli inquirenti, le sommarie informazioni che qui rilevano, non era prevedibile il suo futuro comportamento e non era esigibile da parte degli inquirenti un'attenzione maggiore di quella adottata, difettando elementi che consigliassero - per esempio - l'attivazione dell'incidente probatorio di cui agli art. 392 c.p.p. e ss.

L'accertamento della sopravvenuta irreperibilità dello I., come oggettiva impossibilità di procurarsene la presenza in dibattimento e verificarne la scelta comportamentale, non è stato meramente burocratico e formale, ma sufficientemente approfondito, essendosi evidenziata tutta la scrupolosa attività posta in essere per garantire l'assunzione delle dichiarazioni del predetto nella cornice del contraddittorio processuale.

7e - Sorretta da corretta, adeguata e logica motivazione è la dichiarazione di colpevolezza del C.

In ordine al primo motivo di ricorso da costui articolato, vanno richiamate le considerazioni svolte in tema d'interpretazione dell'art. 512 c.p.p. e quelle di cui al punto precedente.

Quanto al dedotto vizio di motivazione circa la cessione di droga al D.M., l'iter argomentativo della sentenza, fondato sulla precisa deposizione testimoniale del predetto, resiste alla censura, perché espressione di una valutazione in fatto immune da vizi di manifesta illogicità.

Al rigetto del ricorso del C. consegue, di diritto, la condanna di costui al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza nei confronti di T.U., limitatamente alla cessione di sostanza stupefacente a C.F., e rinvia per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Catanzaro. Rigetta nel resto il ricorso del T., nonché il ricorso di C.G., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 28 maggio 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 SET. 2003.