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Il Capo della polizia non istigò alla falsa testimonianza dopo il G8 (Cass. 20656/12)

28 maggio 2012, Cassazione penale

Non si è acquisita alcuna prova o indizio di un "coinvolgimento" decisionale di qualsiasi sorta nell'operazione Diaz del capo della Polizia all'epoca del G8 di Genova. 

La falsa testimonianza ha natura di reato di pericolo concreto: il reato può ritenersi sussistente, allorchè -per pertinenza e rilevanza dell'oggetto della testimonianza sul quale si sia consumato il mendacio rispetto al thema deddendum del processo- la falsa deposizione testimoniale risulti astrattamente idonea ad alterare o comunque ad influenzare il convincimento del giudice, così incidendo sul corretto funzionamento dell'attività giudiziaria con il rischio potenziale di fuorviarne il corso.

In altri termini, se il reato di cui all'art. 372 c.p. tutela il corretto svolgimento dell'attività giudiziaria, nel senso che questa non può essere sviata da dichiarazioni testimoniali non veritiere, occorre anche che tale falsità dichiarativa abbia la possibilità di produrre un siffatto esito decisorio fuorviato. Con l'ulteriore ed ovvio corollario che, per la configurabilità del delitto di falsa testimonianza, la valutazione sulla pertinenza e sulla rilevanza della deposizione del testimone deve effettuarsi con riguardo alla situazione processuale esistente al momento in cui il reato è consumato (id est in cui la testimonianza falsa è resa), ossia ex ante e non in virtù di una postuma prognosi, ed a tale positiva valutazione il giudice deve giungere attraverso l'esame di norme giuridiche, senza fare surrettizio ricorso a semplici massime di esperienza.

Il dolo eventuale non è incompatibile con una attività ìstigatrice connessa ad un reato a consumazione anticipata o di pericolo, quale è la falsa testimonianza, punita a titolo di dolo generico.

Non ogni discostamento del testimone dal vero è punibile, ma solo quello che risulti ex ante pertinente e rilevante nel processo a quo, rimane pur sempre l'insuperabile l'esigenza della prova della condotta di messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice e del corrispondente elemento soggettivo, anche nella possibile sua forma di accettazione del rischio del verificarsi dell'evento lesivo non direttamente voluto sebbene prefigurato dal soggetto agente.

La categoria del dolo eventuale non può costituire un indebito surrogato della mancata dimostrazione del dolo generico.

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 22/11/2011) 28-05-2012, n. 20656

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGINIO Adolfo - Presidente

Dott. GARRIBBA Tito - Consigliere

Dott. PAOLONI Giacomo - Consigliere

Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere

Dott. CITTERIO Carlo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1. D.G.G., nato a (OMISSIS);

2. M.S., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza in data 17/06/2010 dalla Corte di Appello di Genova;

esaminata la sentenza i ricorsi e gli atti ostensibili;

udita in pubblica udienza la relazione del consigliere dott. Giacomo Paoloni;

udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore Generale dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata;

uditi i difensori delle costituite parti civili:

- B.G.S. e M.Q.D., avv. Gilberto Pagani;

- Associazione Giuristi Democratici, avv. Robotti Emilio;

- Z.G.G., avv. Francesco Romeo, i quali hanno concordemente concluso per il rigetto dei ricorsi degli imputati e la conferma della sentenza impugnata;

uditi i difensori dei ricorrenti D.G., avv. Franco Coppi, e M., avv. Piergiovanni Junca e avv. Giovanni Aricò, i quali -

riportatisi ai motivi dei rispettivi ricorsi - hanno insistito per l'annullamento della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo


1. Con il ministero dei rispettivi difensori gli imputati De Gennaro Giovanni e Mortola Spartaco impugnano per cassazione la sentenza della Corte di Appello di Genova indicata in epigrafe. Decisione che, accogliendo l'appello del p.m. e delle parti civili, in totale riforma della sentenza assolutoria resa il 7.10.2009, all'esito di giudizio abbreviato non subordinato ad integrazioni probatorie, dal G.I.P. del Tribunale di Genova, con cui erano stati prosciolti dal reato di concorso nella falsa testimonianza ascritta a F. C., li ha dichiarati colpevoli di tale reato (la posizione del C., rinviato a giudizio, è oggetto di separato procedimento con rito ordinario) e per l'effetto li ha condannati, concesse ad entrambi generiche circostanze attenuanti (stimate per D.G. equivalenti alle contestate aggravanti di cui all'art. 61, n. 9 e art. 112 c.p., - comma 1, n. 3, per abuso dei suoi poteri di sovraordinazione gerarchica nei confronti di C.), alle rispettive pene, con i doppi benefici di legge, di un anno e quattro mesi di reclusione ( D.G.) e di un anno e due mesi di reclusione ( M.) nonchè al risarcimento dei danni (da determinarsi in sede civile) in favore delle parti civili costituite nel processo.

2. L'antefatto storico-processuale.

La vicenda che integra l'attuale regiudicanda si inserisce nel più ampio e articolato contesto storico e processuale che investe i gravi fatti accaduti a Genova nei giorni dal 19 al 22 luglio 2001 in concomitanza con il vertice dei Capi di Stato dei Paesi più industrializzati, denominato G8, svoltosi nel capoluogo ligure. Fatti scanditi da ripetute ed estese manifestazioni di protesta di gruppi pacifisti e di no-global (cd. tute bianche) coordinati dal Genoa Social Forum, degenerate per l'incursione di folti nuclei di esponenti dell'antagonismo violento (cd. tute nere, black bloc) originanti cruenti scontri con le forze di polizia presenti in gran numero per presidiare l'area cittadina interessata dall'assise politica internazionale. Fatti culminati nella tragica morte del giovane manifestante Giuliani Carlo nel pomeriggio di venerdì 20 luglio, preceduti e proseguiti da disordini e veri e propri episodi di devastazione e saccheggio della città e sfociati in un epilogo altrettanto drammatico, con il vertice del G8 e manifestazioni collaterali ormai esauriti, nella notte volgente tra il sabato e la domenica (21 e 22 luglio). Epilogo rappresentato dalla perquisizione eseguita da oltre 300 agenti di polizia provenienti da più reparti nazionali inviati a Genova per i servizi di ordine pubblico connessi al G8, coadiuvati anche da unità di carabinieri, presso il complesso scolastico denominato "scuole Diaz" sito nella (OMISSIS) del quartiere genovese di Albaro, destinato dal Comune di Genova a centro stampa e a sede logistica del Genoa Social Forum e dei gruppi associativi allo stesso riferibili.

2.1. Perquisizione decisa dai vertici della Polizia di Stato convenuti a Genova per coordinare gli interventi unitamente al Questore della città dott. C.F. ed eseguita di iniziativa della p.g., ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41, nel fondato sospetto dell'avvenuta infiltrazione nei locali dell'edificio scolastico Pertini del plesso Diaz di esponenti dei black bloc e di altre frange di antagonisti violenti, muniti anche di armi o strumenti assimilabili, resisi responsabili dei tumulti e dei tanti episodi di vandalismo accaduti a Genova nei giorni precedenti.

Il programmato intervento di p.g. deputato a verificare la situazione all'interno della scuola Diaz-Pertini, ad identificarne gli occupanti e reperire eventuali armi, alì inizio esteso alla prospiciente scuola Diaz-Pascoli destinata ad accogliere i servizi di informazione e il centro stampa del G.S.F., è eseguito con inusitata violenza dagli agenti operanti, pur in assenza di reali gesti di resistenza, nei confronti delle persone, molte straniere, presenti nella palestra e negli altri locali della Pertini per trascorrervi la notte. Tutti i 93 manifestanti individuati nella scuola sono tratti in arresto per associazione criminosa, resistenza e detenzione illegale di armi, nella Pertini essendosi rinvenute -oltre a corpi contundenti e oggetti atti all'offesa di varia natura- anche due bottiglie incendiarie (molotov). I 93 arrestati, che nel corso dell'operazione di p.g. riportano ferite di diversa serietà (tre di essi ridotti in condizioni gravi), sono in parte trasferiti in ospedale o (prima di essere condotti in carcere) fatti transitare nella caserma di Genova Bolzaneto, dove subiscono altri atti di violenza e prevaricazione da parte di agenti della polizia di Stato e della polizia penitenziaria.

Le indagini di p.g. rapidamente promosse dalla Procura della Repubblica di Genova consentono, alla luce delle concordi dichiarazioni dei manifestanti, delle testimonianze assunte e di molti reperti e video-fotografici e documentari di chiarire subito i profili di abusività e ingiustificata durezza dell'azione portata a compimento nella scuola Diaz Pertini. Gli sviluppi delle indagini preliminari conducono alla incriminazione di numerosi agenti e funzionari di polizia partecipanti all'irruzione nel complesso Diaz per reati di lesioni volontarie, abusi su persone arrestate, calunnia, falsità ideologica nella redazione dei diversi verbali di perquisizione, sequestro e arresto e nelle connesse annotazioni di servizio.

Nei confronti dei funzionari e agenti di polizia si sono già svolti i giudizi di merito di primo e di secondo grado, conclusisi con la condanna di molti di loro. Le sentenze di primo grado (Tribunale di Genova 13.11.2008) e di appello (Corte di Appello di Genova 18.5.2010) sono versate agli atti trasmessi a questa Corte a corredo dei ricorsi degli imputati. La sentenza di primo grado è stata, per altro, acquisita (in uno agli atti di appello) su concorde richiesta delle parti fin dall'udienza preliminare susseguente alla richiesta di rinvio a giudizio del C. e dei due attuali imputati D. G. e M., divenendo così pienamente utilizzabile, quanto alla storicità dei fatti in essa rappresentati, nel giudizio svoltosi con le forme del rito abbreviato nei confronti degli odierni ricorrenti.

2.2. E' di tutta evidenza che, ferma l'autonomia referenziale e valutativa del reato di falsa testimonianza contestato ai funzionari De Gennaro e Mortola quali concorrenti morali del coimputato ex Questore di Genova (Colucci ndr) e doverosamente evitandosi ogni sovrapposizione od interferenza di giudizi con le complesse vicende oggetto del processo principale per i fatti della Diaz, le emergenze di tale processo costituiscono lo sfondo sul quale vanno analizzate le condotte delittuose attribuite al D.G. e al M.. Analisi cui si sono conformate le due sentenze di merito sulla falsa testimonianza che definisce l'attuale regiudicanda.

Nè, del resto, potrebbe essere diversamente.

Sia sul piano strettamente tecnico-giuridico, connesso alla peculiare struttura del reato di falsa testimonianza quale reato contro l'attività giudiziaria, che impone -ai fini dell'apprezzabilità penale del fatto- una verifica della rilevanza e attinenza delle ipotizzate falsità dichiarative nell'ambito del percorso decisorio del processo principale. Sia sul piano della ricostruzione storica degli eventi processuali che hanno dato corpo, divenendo fonti di prova del reato di cui all'art. 372 c.p. , alle indagini preliminari e alla specifica contestazione della falsa testimonianza che la pubblica accusa assume essere stata compiuta dal dott. F. C. con la deposizione resa il 3.5.2007 al Tribunale di Genova nel dibattimento del processo Diaz.

2.3. Sotto questo secondo profilo non è revocabile in dubbio che i fatti e i contegni desumibili dalle due difformi sentenze di merito, che hanno giudicato dell'accusa di concorso nella falsa testimonianza attribuita a C.F. elevata nei confronti degli odierni ricorrenti D.G. e M., sono scaturiti dalle emergenze del processo principale per le vicende della scuola Diaz. Per l'esattezza non dalle indagini preliminari anteriori al rinvio a giudizio degli operatori di polizia imputati di lesioni, falsità calunnia ed altro. Ma da elementi e dalle coeve indagini indotti proprio dagli sviluppi dell'istruzione dibattimentale del giudizio di primo grado definito con la sentenza del Tribunale di Genova del 13.11.2008. Elementi indirettamente confermati, trattandosi di evenienze storicamente pacifiche nei dati fattuali sottesi alla ipotizzata falsa testimonianza di C., dalla sentenza di secondo grado della Corte di Appello di Genova del 18.5.2010.

Sulla scorta delle due sentenze di merito la sequenza delle emergenze della falsa testimonianza del Questore Coliucci è rapidamente sintetizzabile.

Rilevanza decisiva nel processo Diaz hanno assunto le vicende relative al ritrovamento di due bottiglie molotov all'interno della scuola Pertini, asseverata dalla maggior parte dei verbali di arresto e di sequestro poi attinti dalla connotazione di falsità ideologica contestata ai funzionari di polizia redattori o responsabili della redazione di quei verbali, essendo ben presto emerso che nessuna bottiglia incendiaria è mai stata reperita e realmente sequestrata nei locali della scuola Pertini in possesso dei manifestanti ivi tratti in arresto. Le due molotov sono state rinvenute a Genova in tutt' altro luogo nel pomeriggio del 21 luglio nel corso del servizio di controllo territoriale guidato dal funzionario P. G. (distaccato dalla Questura di Bari a Genovaper il vertice del G8), che senza alcuna incertezza -come conferma agli inquirenti- riconosce nei fotogrammi e nelle immagini della conferenza stampa della Polizia dopo l'intervento alla Diaz le due molotov, mostrate come oggetto di sequestro a carico degli occupanti della Diaz, per quelle da lui prelevate in altro luogo della città, poi consegnate al collega dott. D.V.. Ritrovamento e circostanze univocamente confermate dall'agente V.G. e dai funzionari P.M. e D.V.. E' fin troppo chiaro il peso che tale accertata falsità dell'addotto ritrovamento delle due bottiglie molotov nella Diaz-Pertini acquista nel prosieguo delle indagini preliminari, offrendo dimostrazione di un maldestro tentativo di giustificazione postuma e mendace dell'irruzione alla Diaz e dell'arresto dei 93 dimostranti trovati nella scuola.

In mancanza del rinvenimento nella Diaz di altre armi le due bottiglie incendiarie (la cui detenzione è in teoria ascrivibile a tutti gli arrestati), espressamente assimilate alle armi da guerra dalla L. n. 110 del 1975, art. 1, comma 1 ("bottiglie e involucri esplosivi o incendiati") legittimano falsamente a posteriori l'arresto in flagranza dei detentori ( art. 380 c.p.p. , comma 2, lett. g)) e corroborano la fondatezza dei sospetti sulla presenza di armi all'interno della scuola, in base ai quali è stata decisa la perquisizione-irruzione per autonoma iniziativa della p.g. a norma del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41. 2.4. Nel corso del dibattimento di primo grado del processo Diaz si rende necessaria l'acquisizione e l'esibizione in aula delle due bottiglie incendiarie. Ma il reperto non è ritrovato nè presso la Procura della Repubblica, nè presso la locale Questura, emergendo l'ipotesi che le stesse siano state distrutte, deliberatamente secondo l'ipotesi di accusa, insieme ad altro materiale pericoloso.

Di tal che il p.m. titolare delle indagini del procedimento Diaz il 18.1.2007 iscrive procedimento penale contro ignoti per i reati di peculato e detenzione illegale di materiale esplodente, attivando così parallele indagini sulla vicenda della "sparizione delle molotov". In detto contesto investigativo la Sezione di P.G. della Procura segnala l'emergere in conversazioni intercettate in separato procedimento nei confronti dell'artificiere della Polizia M. M. di dati concernenti le due molotov, accennando il M. all'eventualità che il relativo reperto sia stato preso in carico dalla Digos o dalla Squadra Mobile della Questura di Genova e che forse il dott. M. o l'ispettore B. possano "saperne qualcosa".

Avuta conferma con nota 23.1.2007 della Questura di Genova della oggettiva irreperibilità dei due ordigni incendiari, per altro non resi oggetto di "alcuna disposizione dell'A.G. circa la conservazione degli stessi nell'ambito del procedimento Diaz", il p.m. dispone in via di urgenza una serie di intercettazioni telefoniche fin dal gennaio 2007, tutte ritualmente convalidate dal g.i.p. (che ne autorizza anche le relative proroghe), a partire dalle utenze intestate all'artificiere M.. Il 16.4.2007 l'attività di captazione è estesa all'imputato (nel processo Diaz) S. M., all'epoca dei fatti dirigente la Digos presso la Questura di Genova. E' sull'utenza del dott. M. che si susseguono le conversazioni con il dott. C. afferenti alla testimonianza che questi è chiamato a rendere il 3.5.2007 davanti al Tribunale.

Avvenuto l'esame dibattimentale di C.F., il 7.5.2007 il p.m. rinnova l'intercettazione nei confronti del M. e la estende allo stesso C. e al funzionario D.S.C., coimputato del M. nel processo Diaz. A tal punto è annotata, ancora nell'ambito del procedimento contro ignoti per il reato di cui all'art. 314 c.p. , l'iscrizione ex art. 335 c.p.p. della ulteriore e nuova imputazione di falsa testimonianza in concorso ex artt. 110 e 372 c.p.p. (avuto riguardo, come precisa il p.m. nel decreto di intercettazione convalidato dal g.i.p., all'emergere dalle captazioni sull'utenza del M. di "uno sconcertante quadro di inquinamento della prova in formazione nel dibattimento attraverso plurimi contatti tra testimoni e imputati..."). Contestualmente (lo stesso 7.5.2007) il p.m. iscrive nel mod. 21/noti del registro notizie di reato procedimento penale nei confronti di C.F. e di D.G.G.. L'iscrizione nominativa è estesa il 4.7.2007 a M.S..

Come desumibile dalla congiunta lettura del compendio probatorio operata dalle due sentenze di merito di primo e di secondo grado, la fonte di prova della falsa testimonianza resa dall'ex Questore di Genova (al momento dei fatti del G8) C.F. e delle condotte di "determinazione", "istigazione" o "induzione" incidenti sulla falsità della testimonianza attribuite all'allora Capo della Polizia (Direttore Generale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza) D.G.G. e all'ex dirigente la Digos di Genova M.S. (nel 2007 dirigente la Pol.Fer. di Torino) è rappresentata dai contenuti delle captazioni foniche come dianzi acquisite. Captazioni cui si giustappongono i raffronti tra le dichiarazioni dibattimentali rilasciate da C. e quelle dallo stesso rese prima alla Commissione Parlamentare per una indagine conoscitiva sui fatti del G8 di Genova e poi al p.m. nel corso delle indagini nonchè quelle rese nelle stesse sedi dal Prefetto D. G. e nel corso delle sole indagini dal dott. M., prima in veste testimoniale e poi in veste di indagato.

3. La sentenza assolutoria di primo grado (G.I.P. Tribunale Genova 7.10.2009).

Operata la già descritta cronistoria delle indagini preliminari, il giudice delimita l'area delle accuse di determinazione-istigazione alla falsa testimonianza, evidenziando -da un lato- che al D. G. si contesta l'indotta falsità testimoniale del C. unicamente sulla "richiesta" di far intervenire presso le scuole Diaz, in coincidenza con l'intervento deciso e compiuto dagli organi di Polizia, il dott. S.R. responsabile dell'ufficio Relazioni Esterne della Polizia di Stato, intervento che il C. in sede di indagini (Commissione Parlamentare; esami resi al p.m.) afferma essergli stato indicato o richiesto dal Capo della Polizia, laddove questi asserisce essere stato frutto di personale iniziativa dello stesso C., che nel corso dell'esame dibattimentale del 3.5.2007 -rettificando le anteriori affermazioni- attribuisce a se stesso. Ed evidenziando, d'altro lato, che al M. si contesta l'indotta falsità testimoniale del C. relativamente ai due specifici temi costituiti dalle notizie che il M. attinge dal rappresentante del G.S.F. K.S. sulla eventuale presenza di persone estranee a movimenti non violenti nella sede della scuola Diaz Pettini e dalle modalità di intervento delle forze di polizia nella adiacente sede scolastica Diaz-Pascoli asseritamente non oggetto della perquisizione decisa dagli organi di polizia. A ciò il g.i.p. opportunamente aggiunge che l'accusa di falsa testimonianza ascritta al dott. C. ha una estensione maggiore di quelle che coinvolgono il Capo della Polizia e il dirigente della Digos di Genova dell'epoca, investendo più aspetti della testimonianza del C. rispetto all'oggetto (definito "limitatissimo") delle contestazioni formulate nei confronti di D.G. e di M., per valutare le quali dette ulteriori profili di falsità sono del tutto indifferenti.

3.1. Respinte le censure avanzate dalla difesa dell'imputato M. in punto di inutilizzabilità totale o parziale (le captazioni anteriori all'iscrizione nel registro N.R. per il reato di falsa testimonianza) delle intercettazioni eseguite sulle utenze in uso all'imputato, il decidente ripercorre in dettaglio tutte le dichiarazioni rese dai coimputati C., D.G. e M. sui tre specifici temi che integrano le accuse mosse ai due attuali imputati "istigatori" delle falsità (intervento di S. presso la Diaz; informazioni acquisite da K. e accesso alla scuola Pascoli) nonchè le conversazioni intercettate che attengono ai predetti tre temi.

Queste ultime fonti di prova sono affatto indirette per quel che concerne la posizione del dott. D.G. (non è captata nessuna conversazione tra C. e D.G.), atteso che dei contatti intercorsi tra C. e il Capo della Polizia prima dell'esame dibattimentale del 3.5.2007 e delle sollecitazioni che questi avrebbe rivolto all'ex Questore per "rivedere" le sue precedenti dichiarazioni sulla vicenda S. anche per "dare una mono ai colleghi" vi è traccia nelle sole intercettate parole del dott. C.. Si tratta di poche conversazioni avvenute: il 26.4.2007/h.

22.31 C. riferisce a M. di aver incontrato il Capo con cui ha parlato della prossima testimonianza che entrambi sono chiamati a rendere( davanti al Tribunale di Genova per i fatti della Diaz e invita M. a richiamarlo l'indomani); il 28.4.2007/h.13.27 (in questa telefonata C. si diffonde sugli scambi di opinione avuto con D.G.); il 28.4.2007/h. 17,22 ( C. chiede a M. se i verbali delle dichiarazioni già rese da D.G. debbano intendersi come riservati o non); il 2.5.2007/h. 16.41 ( C. ricapitola i contenuti della sua deposizione del giorno successivo). Delle telefonate successive all'esame testimoniale del C. intercorse tra costui e il M. ed altre persone non più di un paio attengono ai "contatti" di C. con il Capo della Polizia. Si tratta in particolare delle conversazioni del pomeriggio dello stesso 3.5.2007 ( C. discute della testimonianza con l'imputato D.C. S.), del 4.5.2007/h. 17.05 ( C. parla con M., compiacendosi per i complimenti ricevuti dal Capo e dal vice-Capo della Polizia, D.G. e M.A., per la sua deposizione), dell'11.5.2007/h. 19.23 ( C. discute della sua testimonianza con l'allora Prefetto di Roma S.A.).

Dirette e ben più numerose sono le conversazioni, intercettate tra C. e M. e altre persone, prima e dopo la testimonianza del 3.5.2007, che più da vicino riguardano la posizione di M. sui contenuti della sua conversazione con K. la sera del 21.7.2001 e sulla indebita irruzione effettuata nella scuola Diaz- Pascoli.

La disamina delle conversazioni, in uno alla descrizione delle pregresse dichiarazioni dei tre coimputati ex art. 372 c.p. , è sottoposta in sentenza a scrupolosa analisi comparativa con i contenuti dell'esame testimoniale di C.F. (esame che costituisce il corpo del contestato reato di falsa testimonianza), in base ai quali è sviluppata l'ipotesi accusatoria. In tale prospettiva il decidente g.i.p. ligure rileva come la valutazione probatoria sia resa più difficile dal fatto che l'esame delle dichiarazioni dibattimentali di C., in sè considerate, "non dice nulla sulla posizione dei due attuali imputati, ma dice anche molto poco sulla falsità o meno delle dichiarazioni di C.".

Falsità, questa, che -pur costituendo il presupposto degli illeciti contegni istigatori di D.G. e M.- è destinata ad essere vagliata nel separato processo a suo carico, da definirsi nelle forme del giudizio ordinario. E tuttavia il g.i.p. riconosce che l'analisi delle posizioni del Prefetto D.G. e del dott. M., che avrebbero "indotto" le dichiarazioni ipotizzate come false rese dal C., non esime dal valutare, con effetti meramente incidentali, se la personale condotta dichiarativa di C. sia suscettibile di concretizzare l'ipotizzato reato di cui all'art. 372 c.p. "sotto il profilo della falsità delle dichiarazioni rese e della rilevanza o meno delle stesse".

3.2. Al riguardo il g.i.p., la cui disamina valutativa della regiudicanda è informata alla costante considerazione delle deduzioni espresse nella discussione del giudizio dalle parti processuali e in particolare dalla pubblica accusa, sottopone a critica il rilievo del p.m. sulla ininfluenza ai fini della decisione nei confronti di D.G. e M. dell'accertamento della falsità "oggettiva" delle dichiarazioni di C., che sarebbe una probatio diabolica stabilire se sia stato il Prefetto D. G. a raccomandare di avvisare dell'intervento alla Diaz il dott. S. ovvero stabilire quale sia stato l'esatto contenuto del dialogo intercorso tra M. e K. o, ancora, delle informazioni ricevute da C. sull'ingresso alla scuola Pascoli (assunto, questo del p.m., che -detto per inciso- finisce per denunciare un'implicita opinione di irrilevanza decisoria di quegli elementi nel processo principale per i fatti della Diaz), dovendosi aver riguardo alla sola falsità "soggettiva" delle dichiarazioni dibattimentali del C., di per sè sufficienti ad integrare la falsa testimonianza.

Il giudice di merito, ed è questo un passaggio significativo della decisione di primo grado, non pone in discussione la teoria della verità soggettiva quale parametro della configurabilità del reato di falsa testimonianza (è dirimente non la dissonanza tra le dichiarazioni del testimone e la realtà, ma quella tra ciò che il testimone riferisce e ciò che egli effettivamente sa perchè frutto della sua personale percezione sensoriale audio-visiva, sì che può commettere il reato di falso anche il testimone che affermi cosa vera, ma non da lui direttamente appresa o comunque conosciuta), teoria condivisa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis: Cass. Sez. 6, 30.5.1995 n. 8639, Rossi, rv.202563; Cass. Sez. 6,16.3.1998 n. 5571, Mezzetti, rv. 210649; Cass. Sez. 6, 20.1.2003 n. 5745, Carrozza, rv. 223568; Cass. Sez. 6, 26.1.2010 n. 7358, Tedeschi, rv. 246175).

Il giudice si limita a non condividere l'assunto del p.m. nel caso di specie, in cui sono imputati gli "istigatori" della presunta falsa testimonianza, per i quali ben potrebbe rilevare, se non altro per chiarire il profilo soggettivo delle condotte istigatrici, la consapevolezza della falsità o meno delle informazioni fornite al testimone. Un conto, infatti, è ricordare al teste circostanze vere, eventualmente già emerse dalle indagini e già conoscibili dal teste, altro è suggerire una ricostruzione della cui falsità si è consapevoli affinchè il testimone la recepisca e la faccia propria. Sicchè la falsità o meno, in senso oggettivo, delle dichiarazioni testimoniali necessariamente implica valutazioni rilevanti nei confronti di chi eventualmente con il teste abbia avuto rapporti prima del suo esame (sentenza GIP, p. 20).

3.3. Nell'illustrato panorama conoscitivo il giudice di primo grado giunge a conclusioni valutative liberatorie per entrambi gli imputati, pur tenendo conto delle diversità delle posizioni del dott. D.G. e del dott. M., muovendo dal dato o regola, attinente alla stessa struttura normativa del reato di falsa testimonianza, per cui non possono tararsi elementi indiziari delle condotte di induzione ascritte ai giudicabili per il solo fatto che tutti e due, l'uno imputato ( M.) e l'altro testimone (D. G.) nel processo Diaz, abbiano -in circostanze e in modi diversi - comunque parlato con il testimone C.F. prima della sua deposizione dibattimentale (sentenza GIP, p. 72: "Tale condotta può essere considerata inopportuna, rischiosa, moralmente criticabile, ma certo non è di per sè illecita, nè comporta come necessaria conseguenza il concorso nella falsa testimonianza di cui si sia reso eventualmente partecipe il teste"). Ai fini del concorso nella eventuale falsa testimonianza si rende indispensabile focalizzare l'attenzione sulle circostanze e le modalità concrete di tali "contatti" per poterne desumere la prova o seri indizi della ipotizzata attività di istigazione. Su queste basi, fermo restando il dato (oggetto di apprezzamento nel separato processo a suo carico) per cui il testimone C. non ha ritenuto di esternare durante il suo esame in dibattimento le modalità con le quali (oltre che con la rilettura dei verbali delle proprie anteriori dichiarazioni e di quelli, pubblici, di altri protagonisti della vicenda Diaz anche col discuterne con il testimone D.G. e l'imputato M., ai quali è legato da risalenti rapporti di frequentazione professionale) egli ha provveduto a rinverdire i propri personali ricordi dei fatti del G8, intuibilmente offuscati dagli oltre sei anni trascorsi da quegli eventi, il giudice di primo grado affronta doverosamente la questione della pertinenza e della rilevanza nel contesto del processo Diaz dei temi o fatti sui quali la pubblica accusa ha elaborato l'ipotesi delle falsità dichiarative dibattimentali ascritte all'ex Questore di Genova con il concorso dei due odierni imputati. La problematica, affrontata (sentenza pp. 26 ss.) anche con il supporto della consolidata giurisprudenza di legittimità sul punto, decisivo per la configurabilità stessa del reato di cui all'art. 372 c.p. , ed esaminata con particolare attenzione all'oggetto dell'accusa mossa al Prefetto D.G. e al C. (cd. questione S.), è risolta dal giudice in rapporto alla specifica valutazione delle fonti di prova delle condotte di istigazione o induzione dello stesso D.G. e del coimputato M.. Nel senso che, attraverso l'esame di tutti gli elementi di conoscenza disponibili, il giudice di merito perviene alla assorbente conclusione che, pur ammettendosi -in tesi- la pertinenza e la rilevanza nel processo Diaz dei profili di falsità contestati ai tre imputati ed altresì l'eventuale volontaria (e, in ipotesi, non giustificata) modificazione da parte del C. delle sue precedenti versioni dichiarative, l'esame dei diversi segmenti ricostruttivi della vicenda testimoniale e la loro selezione logica e sequenziale non offre seri ed affidabili elementi probatori della effettività e intrinseca rilevanza penale delle condotte istigatorie attribuite al Prefetto D.G. e al dott. M.. Di qui il proscioglimento con la formula della non commissione dei fatti reato ad essi contestati.

4. La sentenza di condanna di secondo grado (C Appello Genova 18.5.2010).

4.1. Avverso la sentenza assolutoria del G.I.P. hanno proposto appello il Procuratore Generale e il Procuratore della Repubblica di Genova e le costituite parti civili, censurandone le conclusioni sotto più profili attinenti alla ricostruzione fattuale della vicenda nei suoi sovrapposti segmenti processuali e alla incoerenza della interpretazione del materiale probatorio, asseritamente scomposto in una parcellizzata e frammentaria disamina. Così dando luogo ad una lettura del compendio probatorio, ivi incluse le emergenze istruttorie del giudizio di primo grado del processo Diaz, che ha finito per neutralizzare in modo improprio i dati dimostrativi della oggettiva e grave "manipolazione" del testimone (addotto ex art. 468 c.p.p. , comma 1 dalla pubblica accusa) C.F. da parte del suo superiore gerarchico, l'allora Capo della Polizia D.G., e dell'imputato M..

In particolare con il più diffuso e argomentato appello del Procuratore della Repubblica di Genova, si deduce il travisamento delle fonti di prova e l'illogicità della motivazione della sentenza di primo grado, anche in rapporto alle pur corrette premesse metodologiche della decisione, nell'apprezzare le condotte di inquinamento probatorio contestate ai due imputati "istigatori" e la stessa genesi della falsa testimonianza resa dal dott. C..

E' sfuggita al giudice di merito, si adduce, l'incidenza causale che le condotte di D.G. e M. hanno consapevolmente attuato, anche -a tutto voler concedere- in termini di dolo eventuale dei rispettivi contegni e dei loro effetti, nel determinare quella che per più versi lo stesso g.i.p. definisce una vera e propria "ritrattazione", improntata a falsità, delle precedenti dichiarazioni rese durante le indagini dal dott. C.. Condotta che si rivela attuativa di un "programma militante" di mendacio del C. e di strumentale alterazione della realtà processuale, volto ad "aiutare", come gli "ordina" il Capo della Polizia, i colleghi del Corpo imputati per i fatti della Diaz. In definitiva il giudice di merito ha perso di vista o non ha ben compreso l'effettivo "contesto" processuale delle emergenze e della stessa dinamica del dibattimento del processo Diaz, in cui si sono venuti in luce i contegni di falso ex art. 372 c.p. ascritti ai tre imputati.

4.2. Con la sentenza del 17.6.2010 la Corte di Appello di Genova, accogliendo le impugnazioni dei rappresentanti del pubblico ministero e delle parti civili, ha capovolto il giudizio di primo grado, ritenendo le condotte dei due imputati sorrette da adeguati e persuasivi elementi di prova.

La sentenza della Corte territoriale opera una preliminare rivisitazione, nella loro successione cronologica e rappresentativa, degli eventi processuali che dal processo per i fatti della Diaz e in special modo dalle emergenze del dibattimento di primo grado hanno condotto alla formulazione dell'accusa di falsa testimonianza al C., al D.G. e al M., ribadendo in particolare l'ambito di valutazione definitoria delle specifiche accuse mosse ai due concorrenti morali nella ipotizzata falsa testimonianza del Questore C. (questione G. per D.G.; notizie apprese dal rappresentante del G.S.F. K. la sera del 21.7.2001 e ingresso-irruzione nella scuola Pascoli per M.).

Ribadita altresì l'individuazione delle fonti di prova nel comparativo raffronto tra la testimonianza C. del 3.5.2007 e le anteriori dichiarazioni predibattimentali dello stesso C. e del Prefetto D.G. e, soprattutto, nei contenuti delle conversazioni telefoniche intercettate tra il dott. C. e il dott. M. e tra costoro e altre persone, la sentenza di appello non si diffonde nel riprodurre in dettaglio i passaggi significativi ai fini della decisione delle indicate deposizioni testimoniali e conversazioni telefoniche, osservando (sentenza, p. 39) come i fatti e gli eventi che hanno "in qualunque modo" interessato le contestazioni ascritte agli imputati siano stati riportati nella sentenza del g.i.p. genovese "in maniera, completa, analitica e senza sorta di omissioni", giusta quanto riconosciuto dagli stessi appellanti, che - alla luce della anteriore diffusa esposizione dei motivi di gravame sviluppata dalla stessa sentenza di appello- eccepiscono la "illogicità giuridica delle conclusioni" cui è pervenuto il giudice di prime cure.

Correttamente la sentenza di appello richiama, nell'affrontare le singole posizioni dei due imputati, i rilievi espressi dai loro difensori, con cui si criticano le argomentazioni enunciate a sostegno degli appelli delle parti civili e dei pubblici ministeri e segnatamente del più organico e articolato appello del Procuratore della Repubblica.

4.3. Passando all'esame della posizione del Prefetto D.G., i giudici di appello, dato atto dell'assenza di prove dirette della condotta contestata al Capo della Polizia (dovendosi all'uopo ricorrere, a fronte della mutata versione di C. sulla iniziativa di far intervenire presso la Diaz anche il dott. S., alle sole due o tre intercettazioni intercettate tra C. e M. nelle quali si affronta tale tema), affermano che l'esame delle risultanze processuali convince della penale responsabilità del D.G. per avere indotto la falsa testimonianza del C. sulla questione S.. Falsa testimonianza che, si sostiene, deve ritenersi dimostrata per quanto si evince dall'oggettiva esistenza del contatto-incontro avvenuto prima della deposizione dibattimentale del C. tra l'ex Questore di Genova e il Prefetto D.G. (come costui ammette) e dall'esistenza di un "incontestabile nesso di consequenzialità" tra quanto detto dal Capo a C., secondo quel che costui riferisce a M. ("devo rivedere la questione su S....serve per aiutare i colleghi"), e il mutamento di versione fatto registrare dall'esame C. del 3.5.2007 sulla presenza di S. presso la Diaz (sentenza, p. 46: "...attesa la sussistenza di un tale reato da parte del C. la falsa testimonianza, ndr e considerati i precedenti contatti tra quest'ultimo e il D.G. nei termini emersi dalle conversazioni telefoniche intercettate, non può non ritenersi che C. fu indotto a rendere le false dichiarazioni su istigazione dello stesso imputato D.G.").

Le ragioni che sono alla base della induzione a dichiarare il falso praticata dal D.G. nei confronti del C. risiedono nel fatto che la perquisizione alla scuola Diaz non ebbe a rivelarsi come un "successo" delle forze di Polizia, che nell'edificio non hanno trovato le "tute nere", ivi abbandonandosi alle illegalità che sostanziano le accuse elevate nel processo principale per i fatti del 21.7.2001. Dinanzi alle pesanti critiche sollevate sull'intera operazione da parte degli osservatori e dell'opinione pubblica nazionale ed estera, "propagatesi anche al piano politico e giudiziario", prende corpo la tesi difensiva degli operanti di far leva sulla carente organizzazione e l'inidonea preparazione dell'irruzione eseguita alla Diaz, in assenza di un definito quadro di coordinamento e di linee di comando degli atti esecutivi della perquisizione. Sì che anche il Capo della Polizia si sforza di prendere le distanze dall'operazione, affermando davanti alla Commissione di indagine conoscitiva parlamentare di non aver avuto informazioni dettagliate sull'intervento deciso dai suoi colleghi a Genova, essendosi limitato -su sollecitazione telefonica di C.- ad autorizzare l'impiego anche dei contingenti di Carabinieri disponibili a Genova. La falsità della "nuova" versione resa dal C. è riscontrata, del resto, dal Prefetto A. A., Vice-Capo vicario della Polizia distaccato a Genova proprio in funzione del vertice del G8, che ha escluso che il dott. S. possa essere stato inviato sul posto dal C. e non dal Capo della Polizia da cui direttamente dipendeva.

Ne discende, per la Corte di Appello, l'evidente "interesse" del dott. D.G. a non far trapelare un suo diretto coinvolgimento nella vicenda Diaz, che -se pur "non oggetto diretto di accertamento giudiziale" nel processo Diaz- riveste rilevanza per la sua idoneità ad alterare l'accertamento dei fatti, delle loro modalità e delle "responsabilità, politiche e penali," dei fatti posti in essere durante l'operazione alle scuole Diaz. In ciò deve ravvisarsi il "movente della condotta istigatrice" del Prefetto D.G., "a prescindere dalla sua rilevanza nel processo" in cui la circostanza relativa allo S. è stata riferita, poichè il commesso reato di falsa testimonianza indotta è configurabile per la sola rilevanza e suscettibilità della deposizione "istigata" di portare, anche in astratto, un contributo alla decisione che viene esposta al pericolo di un suo fuorviamento (sentenza, pp. 48-49). Con l'ulteriore conseguenza della non decisività dell'opzione su quale evenienza debba ritenersi più aderente alla realtà ( S. intervenuto su richiesta di D.G.; S. fatto intervenire per iniziativa di C.), poichè il compiacimento del C. per la "marda indietro fatta dal Capo" sullo S. e sulla stessa informazione della perquisizione si coniuga alle "evidenti difformità" tra le dichiarazioni del D.G. e quelle iniziali di C. e al riconoscimento che questi intende tributare al Capo, che gli ha dato anche copia del verbale con le sue dichiarazioni, accogliendone il consiglio ad "aggiustare un po' il tiro". Sicchè, posto che il C. nel suo esame del 3.5.2007 si è guardato dal riferire di aver avuto un colloquio con il Capo della Polizia in cui ha discusso della sua imminente testimonianza, "non può non ritenersi la prova della consapevolezza e volontà dell'imputato D.G. della portata istigatrice e di suggerimento di una versione dei fatti al teste C. contrastante con le precedenti dichiarazioni e con la realtà dei fatti" (sentenza, p. 50).

Una significativa riprova, d'altra parte, della natura distorta e strumentale della nuova dichiarazione del C. sul tema S. è fornita dal comportamento successivo alla testimonianza assunto dal C.. Sia con quanto egli riferisce in una conversazione intercettata con l'allora Prefetto di Roma S.A. (11.5.2007/h. 19.23), cui rappresenta ancora una volta il particolare rilievo che egli attribuisce alla "marcia indietro" fatta dal Capo, da cui si era inizialmente sentito sconfessato. Sia con l'immediata consapevolezza del C., rivelata dalle intercettazioni con M. e altri, che l'oggetto dell'avviso di garanzia pervenutogli alla fine del maggio 2007 riguardi proprio la falsità della sua testimonianza sulla specifica questione S..

4.4. Nell'esame della posizione del coimputato istigatore Spartaco Mortola, la sentenza di secondo grado, pur riconoscendo come non prive di giuridico pregio le argomentazioni con cui la difesa dell'imputato ha inteso contrastare gli appelli proposti dai rappresentati del pubblico ministero, giunge a conclusioni opposte a quelle delineate dalla sentenza del g.i.p. del locale Tribunale, che sarebbe viziata da un insufficiente inquadramento delle vicende che compongono la regiudicanda nel "particolare contesto" in cui hanno preso corpo i contatti tra il M. e il C..

Quanto al primo profilo di falsità indotta contestato al M. (e al C.), quello relativo alle informazioni che M. riceve dall'esponente del G.S.F. K., il C. all'udienza del 3.5,2007 ha modificato le sue precedenti versioni dell'episodio, affermando di aver in pratica personalmente assistito alla conversazione telefonica M.- K., dal momento che il M. riferiva a voce alta le varie risposte del K., tra cui in particolare quella sull'impossibilità, nella avanzata fase di deflusso dei manifestanti, per il G.S.F. di fornire dati di certezza sulla matrice politico-sociale delle persone ancora presenti negli edifici delle scuole Diaz. Il C. da testimone de relato (contenuti della conversazione e delle risposte di K. appresi da M.) si è trasformato in una sorta di testimone diretto delle parole di K., che dal canto suo ha sempre affermato di non aver detto a M. che i locali erano ormai stati abbandonati dal G.S.F., "pur senza escludere nel contempo la presenza di estranei ritenuti fonte di pericolo per la Polizia". Nelle dichiarazioni rese nelle indagini (come testimone prima e come indagato poi) il M. ha sempre asserito -da un lato- di aver colto nelle parole di K. l'evenienza che il G.S.F. non aveva o non poteva ancora avere il pieno controllo della scuola Diaz e non poteva garantire chi davvero fosse all'interno dell'immobile. Nel contrasto delle versioni sugli esatti termini della loro conversazione telefonica esistente tra l'imputato M. e il K. (esaminato nel dibattimento del processo Diaz un anno prima della deposizione del Questore di Genova), la mutata versione resa da C. sul punto (suo sostanziale diretto ascolto delle risposte del K.) è elemento che concorre a rendere, riscontrandolo, più attendibile l'originario resoconto del dialogo fornito da M..

Anche sulle modalità e ragioni dell'accesso nella scuola Diaz- Pascoli, che non era l'obiettivo dell'intervento deciso in Questura nelle riunioni tenute dal Questore con i responsabili dei vari reparti di polizia presenti per il vertice del G8, il C. in dibattimento modifica le sue precedenti versioni, affermando che l'accesso nella Pascoli sarebbe avvenuto per errore di una squadra di operanti che avrebbero scambiato con quello della Pascoli l'edificio in cui avrebbe dovuto procedersi all'identificazione dei presenti.

Anche tale dato costituisce una inedita novità del panorama probatorio, giacchè si pone in netto contrasto con la comunicazione con cui lo stesso Questore Colucci, il giorno dopo i fatti della Diaz, la domenica 22.7.2001, ha informato il Capo della Polizia (fax delle ore 17.02) della verifica, coeva alla perquisizione nella scuola Pertini, compiuta nella contigua scuola Pascoli sede dell'ufficio stampa del G.S.F. e di altri organi di informazione, "senza il compimento di atti o operazioni per l'assenza di problematiche riguardanti la sicurezza". Avuto riguardo alla rilevante scarsità di ricordi del C., posta in luce dalle conversazioni con M., ed al fatto che è proprio costui, quando C. chiede in sostanza il suo aiuto nel ricostruire almeno le sequenze temporali dei diversi eventi del 21.7.2007, che prospetta al C. la tesi dell'ingresso per errore nella scuola Pascoli, la sentenza di appello sostiene non esservi dubbio che M. abbia scientemente approfittato dello stato di preoccupazione del C. e della riferita indicazione a questi rivolta dal Capo ad "aiutare i colleghi" per determinarlo a narrare, nella sua deposizione, fatti non frutto di sua diretta percezione e tali da alterare la realtà processuale. Il fonogramma spedito dal Questore al Capo della Polizia è formato, del resto, sulla base di dati forniti dalla Digos della Questura di Genova, cioè proprio dall'ufficio allora diretto dal dott. M., che ben doveva essere al corrente delle effettive modalità di accesso alla scuola Pascoli. Non a caso lo stesso M. durante le indagini ha sostenuto la tesi di un volontario accesso nella Pascoli per ragioni tecniche volte a consentire la sicurezza esterna della perquisizione in corso nella prospiciente scuola Pertini, soltanto in via puramente dubitativa avendo accennato ad un possibile errore e soltanto in dissimulata difesa dei funzionari responsabili dell'ingresso nella Pascoli, i coimputati (nel processo Diaz) dott. G. e dott. F. (sentenza, pp. 63-65).

Dal contenuto delle conversazioni intercettate e dallo stato di agitazione palesato dal C. con le sue ripetute richieste di delucidazioni al M. e in minor misura all'altro imputato nel processo Diaz D.S.C. (cui M. lo indirizza per farsi dare le copie dei verbali delle dichiarazioni rese da più persone nel corso del processo), onde chiarire a se stesso fatti ed episodi che potranno essere oggetto della sua imminente testimonianza in dibattimento, deve desumersi che "non può non ritenersi che M. abbia percepito un tale stato scaturente anche dalla sua ignoranza, confusione e carenza di ricordi su alcune circostanze e, col fornire le varie indicazioni del caso, non ignora nè esclude che le stesse, se pur non appartenenti al patrimonio delle conoscenze dirette, sarebbero state dal teste riferite come proprie".

Ben consapevole del peculiare stato di ansia del C. e della sua manipolabilità, come si evince anche dalla conversazione del 30.4.2007/h.l7.07 intercorsa tra lo stesso M. e il collega D. S. (che commentano tale condizione dell'ex Questore), M. non si fa scrupolo di "veicolare", per l'ingresso nella scuola Pascoli, una versione difensiva "non corrispondente alla realtà dei fatti". In altre parole M. si è ben prefigurato che C. avrebbe finito per rendere dichiarazioni testimoniali conformi alle informazioni da lui fornitegli, senza rendere nota la fonte utilizzata per ravvivare i ricordi, ed ha -quindi- agito "in piena consapevolezza dell'efficacia di tale sua condotta nei confronti del suo interlocutore". Consapevolezza che, come sostiene il p.m. appellante, non sfugge, quanto meno, al paradigma del dolo eventuale (sentenza, p. 66).

5. I ricorsi degli imputati.

5.1. Con il ricorso proposto nell'interesse dell'imputato D.G. G. i difensori (avv. Franco Coppi e avv. Carlo Biondi) deducono un generale vizio di erronea applicazione dell'art. 372 c.p. e di mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza di appello. Vizio articolato nei seguenti profili.

5.1.1. Posto che l'oggetto dell'accusa rivolta all'imputato è quello di avere istigato il dott. C. a modificare la sua originaria versione sull'invio del dott. S.R. presso il complesso Diaz durante l'intervento di p.g. che si era deciso di effettuarvi, avrebbe dovuto costituire motivo di particolare rilievo per accertare la verità stabilire il reale motivo per cui il dott. D.G. avrebbe dovuto istigare il dott. C. a commettere, quasi sei anni dopo le dichiarazioni da entrambi rese sui fatti della Diaz, il reato di falsa testimonianza in occasione dell'esame che era chiamato a rendere il 3.5.2007. La spiegazione offerta dalla sentenza di appello (pp. 46 ss.), oltre che lapidaria e superficiale, si pone in conflitto con dati di fatto univoci rappresentati tanto nella sentenza del g.i.p. quanto nelle precedenti memorie difensive, dei quali non si tiene alcun conto. La tesi dei giudici di appello, secondo cui il dott. D.G. avrebbe avuto tutto l'interesse a sparire dalla scena dei fatti accaduti a Genova il 21.7.2001, quasi che degli stessi nulla abbia mai saputo per difetto di informazione ascrivibile al Questore C., è smentita all'evidenza dal fatto che il dott. D.G. ha ben compreso l'importanza dell'operazione che si era in procinto di compiere proprio alla luce della telefonata con cui C. (dopo le ore 22.00 del 21.7.2001) gli ha chiesto di impiegare i reparti dei Carabinieri a supporto della operazione. E tanto palese è la sua acquisita consapevolezza del rilievo dell'intervento da indursi a chiamare personalmente il Prefetto L.B., reperito prima del Prefetto A., per ricevere maggiori dettagli sull'intervento e sulla sua stessa necessità e per suggerirgli la massima prudenza, pregandolo di seguire di persona l'operazione. Contrariamente a quanto si suppone nella sentenza impugnata e negli atti di appello dei pubblici ministeri, sarebbe stato impossibile per il dott. D.G. sparire dalla scena dell'intervento, perchè -fermo restando che non competeva certo a lui autorizzare una perquisizione ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41, che era stata già decisa dal Questore e dai dirigenti di polizia che con lui cooperavano nei giorni del G8- egli ne aveva avuto, seppure sommaria, notizia e aveva autorizzato l'impiego dei Carabinieri, nonostante il cospicuo numero di agenti di polizia già presenti a Genova.

5.1.2. In questo ambito di eventi la "questione S." rappresentava e ha continuato a rappresentare un fatto di insignificante rilievo, dal quale non poteva e non può in alcun modo dipendere la valutazione del ruolo del Capo della Polizia, tanto più quando si osservi -anche tralasciando l'intrinseca dubitatività del ricordo del dott. C. già un mese dopo i fatti (Commissione Parlamentare, 28.8.2001: "...credo che dopo qualche minuto mi abbia chiamato lui D.G. per dirmi di informare il dott. S.")- che la asserita e non anomala divergenza di versioni sul dott. S. tra il dott. D.G. e il dott. C. era nota da tempo (ricorso, p. 10: "... nessuna ombra aveva anche solo sfiorato il dott. D.G. per quanto accaduto a Genova...cosicchè non si comprende perchè dopo sei anni il dott. D.G. dovesse preoccuparsi di far coincidere alla sua versione quella del dott. C. sulla questione S.).

5.1.3. La sentenza di appello trascura o affronta in modo superficiale, risolvendolo in termini apodittici, un altro punto di assoluto rilievo dell'indagine processuale decisoria, che è quello relativo alla indispensabile rilevanza della eventuale falsità sulla questione S. nel processo principale della Diaz. La vicenda del chi abbia fatto presenziare il dott. S. sulla scena dell'intervento di p.g. della notte del 21/22 luglio 2001 è totalmente irrilevante, perchè priva di qualsiasi incidenza sulla prova dei fatti oggetto del giudizio in corso davanti al Tribunale di Genova, che investono reati di lesioni volontarie, calunnia e falsità varie. E tale irrilevanza costitusce ulteriore riprova della carenza di un concreto interesse del dott. D.G. alla istigazione al mendacio del dott. C.. Accertare l'effettiva paternità dell'iniziativa di convogliare il dott. S. sul luogo della perquisizione non aveva nessuna influenza per la ricostruzione dei fatti e l'accertamento della verità nel processo Diaz. La Corte di Appello ha liquidato il problema con una palese tautologia, richiamando la natura di reato contro l'attività giudiziaria della falsa testimonianza e affermando la potenziale suscettibilità del fatto di fuorviare la decisione del Tribunale, senza nulla chiarire sul modo cui tale sviamento avrebbe potuto prodursi.

5.1.4. La sentenza di appello sovverte le conclusioni assolutorie di primo grado, ma illogicamente non analizza partitamente le affermazioni del solo C. che dialoga con M., per cui - "ricompensando" la "marcia indietro" compiuta dal Capo della Polizia sulla questione S. o sulle informazioni concernenti l'intervento alla Diaz- l'ex Questore di Genova avrebbe dovuto a sua volta operare una "marcia indietro" sulle proprie dichiarazioni per poter "aiutare i colleghi". La sentenza di appello non spende nemmeno un rigo per chiarire in qual modo il cambio di versione sulla vicenda S. avrebbe potuto aiutare gli amici in difficoltà, nè per chiarire quando, dove e come il dott. D.G. avrebbe fatto marcia indietro. Salvo supporre che il presunto "aiuto" possa connettersi ad altri passaggi della deposizione dibattimentale resa dal C. il 3.5.2007, ciò che è mera congettura avulsa dalla rigorosa delimitazione della contestata falsità "indotta" alla sola ed esclusiva questione S., resta insuperabile il fatto che oggettivamente la posizione processuale degli imputati per i farti del G8 è "indifferente rispetto a qualunque versione fosse stata propinata sulla questione S.". Sicchè rimane misteriosa la questione della marcia indietro che si attribuisce (attraverso le sole parole del dott. C.) al Capo della Polizia per quel che attiene alla questione S.. E' sufficiente rileggere le dichiarazioni del dott. D.G. per constatare che su tale vicenda egli non ha mai modificato la sua versione, "negando sempre, se non addirittura di averne parlato con il dott. C., certamente di aver ordinato al Questore di Genova o di averlo invitato ad inviare presso la Diaz il dott S." (ricorso, pp. 15- 16).

5.1.5. Il contrasto di versioni D.G.- C., risalente agli anni 2001 e 2002, era notorio, essendo stato commentato sulla stampa, e nessun addebito -nè giudiziario, nè amministrativo, nè "politico"- era stato mosso al dott. D.G., di cui era stata esclusa qualsiasi possibile responsabilità su quanto accaduto la notte del 21.7.2001. Nè può considerarsi anomala l'evenienza che due testimoni, entrambi in buona fede, conservino ed enuncino ricordi diversi dei medesimi fatti di cui siano stati partecipi. La sentenza di appello, mutuando la tesi degli appellanti pubblici ministeri, ritiene che il dott. C. sia sincero e credibile nelle sue prime versioni e che sia stato indotto dal dott. D.G. a mutare versione, proponendo una narrazione della vicenda che potrebbe anche essere vera sul piano oggettivo, ma che dovrebbe considerarsi del pari falsa "soggettivamente" in quanto contraria a ciò che il teste riteneva essere davvero accaduto. Siffatta tesi è argomentata sulla base delle affermazioni del (solo) dott. C. nei suoi intercettati colloqui telefonici, dalle quali si dovrebbe dedurre che l'ex Questore avrebbe cambiato, come ha cambiato, versione per compiacere il dott. D.G., che lo avrebbe esortato ad uniformare la sua imminente testimonianza allo scopo di aiutare i colleghi. La sentenza capovolge l'analitica disamina dei dati processuali che afferiscono a tale specifico aspetto delle complementari condotte del C. e del D.G., senza enunciare le ragioni della diversa valutazione dei fatti e senza confutare gli argomenti addotti dalla difesa.

5.1.6. Nel prestare totale credito alle parole intercettate del dott. C., i giudici di appello ricostruiscono su di esse la condotta che sarebbe stata tenuta dal dott. D.G., concludendo che il Capo chiese (rectius ordinò) all'ex Questore di cambiare versione sulla vicenda S.. E' totalmente mancato, però, ogni pur doveroso controllo di attendibilità delle affermazioni provenienti dal dott. C., con totale disinteresse per quanto sostenuto dal dott. D.G..

Questi ha sempre ammesso di essersi incontrato con il dott. C. in occasione della comune partecipazione alla "commissione per l'avanzamento professionale", avendo con lui uno scambio di idee sui fatti che avrebbero costituito oggetto delle loro testimonianze nel processo in corso a Genova. Il dott. D.G. ha altresì precisato, anche perchè il collega mostrava di non avere ricordi netti sui fatti del 21 luglio di sei anni prima, di aver unicamente raccomandato al dott. C. di cercare di ricostruire le vicende di quella notte con esattezza, sottolineando che proprio una rappresentazione precisa dei fatti avrebbe potuto essere di aiuto ai colleghi coinvolti nel procedimento penale.

Per altro lo stesso dott. C. non ha mai affermato di essere stato istigato dal dott. D.G. a mutare il racconto sulla questione S.. E' vero che egli fa riferimento ad una supposta doverosità di tale mutamento ("devo rivedere ..", "tu dovresti...", ecc), ma in nessun dialogo ha mai sostenuto che il Capo della Polizia lo ha costretto o persuaso a modificare le sue prime dichiarazioni. E particolarmente significative appaiono, in proposito, le conversazioni registrate dopo l'avvenuta testimonianza del 3.5.2007, completamente neglette dalla sentenza di appello. Il dott. C. neppure dopo aver appreso di essere indagato per la sua testimonianza e della pertinenza dell'accusa al mutamento di versione sulla vicenda S. si rammarica con chicchessia per aver raccolto il suggerimento di D.G. o mostra risentimento verso il Capo della Polizia per tale esito processuale.

5.1.7. Dopo aver appreso degli sviluppi della ipotizzata falsa testimonianza di C. e di essere stato iscritto insieme a lui nel registro delle notizie di reato come concorrente nella falsa testimonianza, il dott. D.G. si è posto il dubbio che il dott. C. possa essersi determinato a modificare la sua versione sulla vicenda S. a seguito dello scambio di idee tra loro intervenuto prima della testimonianza. Sicchè con una lettera in data 16.11.2007 (versata in atti e allegata in copia al ricorso) lo ha apertamente invitato a rappresentare, ove mai le cose fossero andate in questo modo, le ragioni del cambiamento di versione all'autorità giudiziaria e a narrare, quindi, l'eventualità di poter essere stato condizionato dai diversi ricordi che sull'episodio S. aveva manifestato il Capo della Polizia. Prova migliore e più decisiva di questa non potrebbe offrirsi a dimostrazione del fatto che tra il dott. C. e il dott. D.G. nulla è intercorso se non un semplice scambio di idee su quanto avvenuto la notte del 21.7.2001 e che alcuna pressione o esortazione è mai stata esercitata sull'ex Questore di Genova. Nulla al riguardo si cura di dedurre la sentenza impugnata (ricorso, p. 25: "...la lettera avrebbe meritato almeno l'onore di una qualche considerazione da parte della sentenza impugnata, ma sul punto ne verbum quidam").

5.1.8. Nessuno spazio, infine, è dedicato dalla sentenza, ad ennesimo riscontro del vuoto di motivazione che la caratterizza, ad altro importante punto proposto dai dati del processo e dimostrativo dell'inesistenza oggettiva della falsa testimonianza attribuita al dott. C. (e, per ciò stesso, della presunta attività induttiva del ricorrente). Modalità e tempi della convocazione del dott. S. e del suo stesso arrivo presso la scuola Diaz offrono prova del fatto che l'invito rivolto all'addetto stampa della Polizia è stato frutto dell'iniziativa del Questore C. e non può essere fatto risalire al Prefetto D.G.. S. ha chiarito, infatti, che il Questore non gli ha fatto cenno alcuno di un ordine o invito del dott. D.G. perchè fosse presente alla perquisizione presso la Diaz e che, dopo una prima telefonata con cui lo mette in stato di allerta, preannunciandogli una operazione di p.g. in preparazione, lo richiama alle ore 23.44, invitandolo a portarsi presso la Diaz. Ciò delinea un contegno del dott. C. affatto incompatibile con una pretesa disposizione impartitagli direttamente dal Prefetto D.G. volta ad assicurare la presenza all'intervento del dott. S..

Al ricorso sono state allegate le note e memorie dei difensori del dott. D.G. depositate nel corso dell'udienza preliminare ed in vista della discussione del giudizio abbreviato. Note e memorie trattano diffusamente i temi in buona parte trasporti nei rilievi censori enunciati nel ricorso.

5.2. Nell'interesse dell'imputato M.S. hanno presentato ricorso i difensori dell'imputato (avv. Giovanni Aricò e avv. Piergiovanni Junca), che adducono, anche richiamando i rilievi esposti con memoria difensiva alla Corte di Appello, vizi di erronea applicazione degli artt. 110, 372 c.p. e art. 187 c.p.p. nonchè di mancanza e illogicità manifeste della motivazione nei termini appresso sintetizzati.

5.2.1. La lettura della sentenza di appello fa emergere in modo evidente il grave errore metodologico in cui sono incorsi i giudici di secondo grado. La peculiarità del giudizio di appello, quale revisione del percorso seguito dal primo giudice nella interpretazione e valutazione della prova, impone al giudice -in caso di riforma di una sentenza assolutoria- di fornire adeguata dimostrazione del percorso logico seguito e dei criteri adottati nel valutare la prova e soprattutto di indicare le ragioni per cui l'eventuale dubbio espresso dal giudice di primo grado si traduca in un dubbio irragionevole. E' la stessa sentenza di appello a riconoscere come il contenuto fattuale della prima sentenza sia completo su ogni aspetto della vicenda processuale.

Nondimeno la statuizione finale della sentenza impugnata non è frutto della evidenziazione di dati o circostanze nuovi ovvero ignorati dal primo giudice, ma soltanto il risultato di una diversa lettura del medesimo materiale probatorio, come si evince dallo stesso incedere della motivazione in rapporto alle due evenienze contestate al ricorrente, relative alla conversazione telefonica con il K. e alle ragioni dell'ingresso delle forze dell'ordine nell'edificio della scuola Pascoli.

5.2.2. Nelle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari il dott. C. ha sempre confermato le informazioni raccolte dal dott. M., sia attraverso il colloquio con il K. che attraverso il "sopralluogo" dallo stesso eseguito sul posto in forma dissimulata (passando in Via Battisti a bordo di una motocicletta), in ordine alla possibile presenza nelle scuole Diaz di facinorosi e persone estranee al G.S.F. e ai movimenti pacifisti. Nella deposizione del 3.5.2007 egli ha unicamente precisato di aver ascoltato in pratica "in diretta" la conversazione telefonica avvenuta tra M. e K.. La sentenza di appello si è astenuta dalla doverosa indagine non solo sulla falsità o meno del ricordo del dott. C. ma soprattutto sulla rilevanza, rispetto all'oggetto della testimonianza, della parziale ed esigua difformità della narrazione del testimone ai fini della lesione del bene giuridico tutelato dall'art. 372 c.p.. Nella motivazione della sentenza difetta, infatti, la spiegazione delle ragioni per cui detta circostanza divenisse rilevante ai fini della decisione sulle violenze perpetrate all'interno della scuola Diaz-Pertini. Posto che il convincimento delle forze di polizia sulla possibile presenza nella Diaz di esponenti del dissenso violento era asseverato da innumerevoli fonti, la asserita difformità della testimonianza del dott. C. rispetto alle sue precedenti dichiarazioni si mostra del tutto ininfluente rispetto alla veridicità o meno delle lesioni e delle violenze subite dagli occupanti della scuola che sostanziano le imputazioni elevate nel processo Diaz.

L'automatismo affermato nella sentenza in forza del quale la mera parziale difformità della testimonianza C. realizzerebbe la lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice della falsa testimonianza si rivela frutto di una interpretazione manifestamente erronea del precetto penale, perchè finisce con l'ignorare sia il contesto narrativo, sia la possibilità del testimone di fornire rettifiche non rese nelle precedenti dichiarazioni e comunque la stessa possibilità del riaffiorare di maggiori o più specifici ricordi degli eventi. In ogni caso, come aveva già puntualizzato la sentenza di primo grado, da parte del dott. M. non vi è stata alcuna richiesta o sollecitazione rivolta all'ex Questore di precisare di aver assistito di persona alla conversazione tra lui e il K.. Di questo particolare riferito in dibattimento dal testimone il dott. M. acquista conoscenza solo dopo la testimonianza e non mostra per lo stesso alcun particolare interesse.

5.2.3. La riconducibilità del concorso del ricorrente dott. M. nella presunta falsa testimonianza del dott. C. affonda le sue radici in due soli elementi: l'esortazione pretesamente ricevuta dal testimone da parte del dott. D.G. (descritta, per altro, al M. in termini del tutto generici) sull'esigenza di "dare una mano" ai colleghi del processo Diaz; il fatto che il M. avrebbe "accettato" il colloquio con il C. in merito alla futura testimonianza che questi era chiamato a rendere. Sotto il primo profilo l'illogicità del ragionamento inferenziale dei giudici di appello è palese, non chiarendosi come l'eventuale esortazione (se effettivamente verificatasi) da parte di una terza persona possa ridondare a carico di del dott. M., "che certamente non ne era l'ispiratore, avendola appresa dal solo C." (ricorso, p. 6). Quanto al secondo elemento, la motivazione della sentenza di appello è affetta da contraddittorietà, laddove -pur concordando con quanto affermato dalla decisione di primo grado sulla irrilevanza penale dei profili di inopportunità o scarsa eticità di un colloquio tra testimone e imputato- criminalizza siffatto colloquio in assenza di dati in forza dei quali esso si riveli fonte di volontario inquinamento probatorio.

In proposito non può che ribadirsi che il concorso di persone nel reato, in ossequio al principio di unitarietà dell'azione illecita, potrà verificarsi unicamente attraverso una condotta che si inserisca nel processo di determinazione volitiva dell'agente non solo prima che questi realizzi l'azione, ma soprattutto prima che lo stesso momento volitivo insorga. Era doveroso, quindi, da parte del giudice di appello che così radicalmente modificava la sentenza di primo grado indicare quali frammenti o segmenti del colloquio avrebbero potuto inserirsi nel processo volitivo del C., sebbene il primo giudice avesse constatato, in base alle captate conversazioni, la totale assenza di sollecitazioni del M. perchè il dott. C. narrasse l'ascolto in diretta del dialogo avvenuto con il K..

E' illegittima la parte della sentenza che dalla acquiescenza del M. rispetto alle richieste di riesumazione dei ricordi dei fatti del 21.7.2001 da parte del C. pretende di far discendere il dolo tipico del reato. La Corte di Appello tralascia di considerare che, nella conclamata mancanza di buoni ricordi degli eventi del G8 da parte del teste C., soltanto una ipotetica esortazione del M. a riferire fatti non veri avrebbe potuto inserirsi nel processo volitivo del testimone, così veicolando fatti non rispondenti al vero.

5.2.4. Valutazioni critiche di uguale tenore si prospettano anche per l'altra componente della falsità testimoniale del C. contestata in concorso morale al ricorrente M., relativa all'ingresso nella scuola Diaz Pascoli. Il contenuto delle dichiarazioni dell'ex Questore C. non viene neppure analizzato nelle sue espressioni oggettive rispetto a quello delle precedenti testimonianze che è del tutto identico e sovrapponile. Non soltanto i giudici di appello non tengono conto del fatto che dell'ingresso per mero errore di una squadra di p.g. nella scuola Pascoli vi sono plurime tracce dichiarative, ma che tale ipotesi è stata formulata dallo stesso C. nella sua deposizione del 16.12.2002. I fatti esposti sulla Pascoli dal dott. C. si sono rivelati identici a quelli oggetto delle sue precedenti audizioni. Va aggiunto, d'altro canto, che le notizie richieste dal dott. C. all'imputato ricorrente erano ormai tutte pubbliche nonchè oggetto di numerosi articoli di stampa e perfino di integrale trascrizione sonora su un sito radiofonico. I giudici di appello hanno ignorato il dato nodale dell'intera vicenda processuale, giustamente valorizzato dalla sentenza di primo grado, costituito dall'assenza di conversazioni nelle quali il dott. M. abbia effettivamente suggerito o esortato il dott. C. a deporre il falso, atteso che l'intera motivazione della sentenza impugnata è percorsa, più che dall'analisi dei dati probatori, dalla contraddittoria stigmatizzazione dei semplici colloqui tra testimone ed imputato, i cui reali contenuti sono completamente obliterati.

In conclusione perchè possa discutersi di concorso morale nella falsa testimonianza occorre che il giudice individui in modo inequivoco i contegni di induzione al falso ricordo ovvero di istigazione ad una falsa rappresentazione dei fatti testimoniati.

Sicchè, quando -come nel caso in esame- dinanzi all'assenza di dati oggettivi (neppure evocati in sentenza) il giudice che riforma la prima sentenza si limita a dare rilievo allo stato di apprensione o preoccupazione che avrebbe pervaso il testimone C., rendendolo manipolabile, piuttosto che nella individuazione delle falsità ad esso eventualmente propinate, viola la legge tanto sostanziale quanto processuale nel fare inaccettabile ricorso al dolo eventuale del concorrente morale.

5.2.5. In via subordinata il difetto di motivazione della sentenza di appello pervade anche il tema del trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente. Trattamento di cui, eludendosi i parametri di riferimento dettati dall'art. 133 c.p. , si omette ogni giustificazione che non ricada nel mero apprezzamento di gravità del fatto reato, senza tenere conto della personalità dell'imputato, che non solo non ha mai sollecitato alcun colloquio con il C., ma ne ha subito passivamente le richieste di informazioni sui fatti del G8.

Entrambi i ricorsi dei due ricorrenti sono sottoposti a critica con una memoria depositata il 5.11.2011 dal difensore della costituita parte civile G.Z.G.. Memoria con cui si sostiene l'inammissibilità o infondatezza delle impugnazioni, perchè richiederebbero un non consentito sindacato di merito sulla valutazione delle prove effettuata dalla Corte territoriale in termini di coerenza e logicità.

Motivi della decisione


1. I ricorsi degli imputati D.G.G. e S. M. sono assistiti da fondamento e vanno accolti con connesso annullamento senza rinvio, per insussistenza dei fatti reato loro rispettivamente contestati, della impugnata sentenza resa, all'esito del giudizio abbreviato di secondo grado, dalla Corte di Appello di Genova il 17.6.2010.

1.1. La sentenza è scandita da sommarietà valutativa e da palesi lacune della motivazione, percorsa da passaggi e ragionamenti che non solo non chiariscono -se non in termini meramente assertivi- le ragioni in base alle quali è stata affermata la sussistenza delle condotte di determinazione o istigazione alla falsa testimonianza dell'ex Questore di Genova Colucci Francesco ascritte ai due imputati ed è stata ritenuta la loro connessa colpevolezza per tali condotte, ma neppure affrontano i rilievi critici dell'impostazione dell'accusa esposti nelle memorie difensive con cui gli imputati hanno rivendicato la giustezza decisoria della sentenza di primo grado.

La sentenza di appello in esame si limita a recepire la tesi prospettata nell'appello del Procuratore della Repubblica di Genova in modo superficiale e generico, senza farsi carico di sviluppare i temi di sicura significanza giuridica, per quanto frutto di una fuorviante lettura delle risultanze processuali, sottesi alle problematiche affrontate dall'appello del p.m. di primo grado con particolare meticolosità analitica, speculari del resto alla riconosciuta altrettanto completa e ricca, sul piano dei temi giuridici esaminati, sentenza del g.i.p. del Tribunale di Genova.

Sentenza, questa, con cui la Corte di Appello tralascia totalmente di confrontarsi in termini di critica logica e giuridica, sovvertendone in modo radicale le conclusioni valutative in palese inosservanza dell'obbligo di necessaria completezza di motivazione di una sentenza di merito riformatrice di una anteriore decisione liberatoria e di corretta applicazione dei criteri codicistici di apprezzamento delle fonti di prova dichiarative e documentali.

1.2. Le radicali lacune, non altrimenti colmabili (tanto più ove si ricordi che si è proceduto al giudizio con rito abbreviato e con la piena disponibilità conoscitiva degli atti del presupposto processo di primo grado per i fatti della Diaz e in particolare della relativa istruzione dibattimentale), della sentenza impugnata, in punto di motivazione e di corretta applicazione delle norme processuali in tema di prova ( artt. 187, 192 c.p.p. ) nonchè delle norme sostanziali disciplinanti il concorso di persone nel reato, appaiono ancor più censurabili, quando si osservi che la decisione di appello, modificando gli esiti di proscioglimento del precedente giudizio di merito, avrebbe dovuto caratterizzarsi per una motivazione di particolare ricchezza e forza persuasiva di cui appare priva.

Non è inutile ricordare che costituisce ius receptum della giurisprudenza di questa Corte regolatrice e della stessa dottrina il principio, ribadito anche da una recente decisione di questa stessa sezione (Cass. Sez. 6,3.11.2011 n. 40159, Galante, rv. 251066), secondo cui deve considerarsi affetta da illegittimità la sentenza di appello che, in riforma di quella assolutoria di primo grado, condanni l'imputato sulla base di una interpretazione, alternativa e non maggiormente persuasiva, dello stesso compendio probatorio utilizzato nel giudizio di primo grado. Il canone o regola di giudizio della valutazione della colpevolezza "al di là di ogni ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 c.p.p. , comma 1 dal legislatore del 2006 ( L. 20 febbraio 2006, n. 46,art. 5), sebbene non più coniugato alla prevista concomitante inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (eliminata dall'ordinamento processuale con la sentenza della Corte Costituzionale n. 26/2007 del 6.2.2007), richiede che, in difetto di elementi probatori sopravvenuti ovvero non vagliati dal giudice di primo grado, la eventuale rivisitazione in senso deteriore, rispetto alla prima decisione, dello stesso materiale probatorio acquisito nel precedente giudizio e in quella sede ritenuto non idoneo per giustificare una pronuncia di colpevolezza sia sorretta da elementi ed argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze valutative della decisione liberatoria, che diviene non più sostenibile neppure nel senso della persistenza di ragionevoli dubbi sulla modificatrice affermazione di colpevolezza.

Occorre, insomma, che la decisione di radicale riforma di una assoluzione non sia basata sulla semplice diversa valutazione, qualificata da pari o perfino inferiore razionalità e plausibilità rispetto alla valutazione sviluppata dalla prima sentenza, ma sia fondata su elementi di apprezzamento probatorio dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delincatasi situazione di conflitto valutativo delle prove. Come si rimarca nella recente sentenza di questa S.C. dianzi citata, il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la semplice non certezza (e, dunque, anche il dubbio ragionevole) della colpevolezza.

Senza necessità di diffondersi sulla nozione concettuale di dubbio probatorio o processuale, è doveroso chiarire che l'illustrato criterio di giudizio della superabilità o meno del ragionevole dubbio decisorio, con cui il legislatore ha novellato il disposto dell'art. 533 c.p.p. , comma 1, non è frutto dell'introduzione di un diverso e più rigoroso o restrittivo canone di valutazione della prova rispetto a quello preesistente adottato dal codice di rito, perchè il legislatore altro non ha fatto che formalizzare, in linea con i postulati regolanti un giusto processo ( art. 111 Cost. , 6 CEDU), un principio già da tempo acquisito e ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, per cui la condanna è possibile soltanto in presenza della certezza processuale della responsabilità dell'imputato (cfr., ex plurimis: Cass. Sez. 2, 21.4.2006 n. 19575, Serino, rv. 233785; Cass. Sez. 1, 11.5.2006 n. 20371, Ganci, rv. 234111). Anche prima della modifica dell'at. 533 c.p.p., infatti, il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'imputato ne imponeva il proscioglimento ai sensi dell'art. 530 co. 2 c.p.p. sulla base dei consolidati principi definitori della insufficienza della prova (prova che non assume solidità ed efficacia dimostrativa tali da condurre ad una affermazione di responsabilità) e/o della contraddittorietà della prova(situazione di equivalenza delle prove di reità con quelle di innocenza del giudicabile) (cfr.: Cass. S.U., 23.11.1995 n. 2110, Fachini, rv.203762; Cass. Sez. 3,21.3.2002 n. 25928, Rebizzi, rv. 222251; Cass. Sez. 5,24.11.2005 n. 842/06, Fossatelli, rv. 233754).

Tutto ciò precisato, deve constatarsi che il capovolgimento del giudizio operato dall'impugnata sentenza della Corte distrettuale di Genova non è stato espresso nel rispetto delle indicazioni della segnalata giurisprudenza di legittimità, essendo stato formulato in virtù di mere e sommarie valutazioni alternative e certamente ridurtive (per sommarietà di giudizi e per omessa riconsiderazione critica delle opposte conclusioni liberatorie della decisione di primo grado), caratterizzate da elementi il più delle volte soltanto congetturali se non apodittici, di cui è traccia nella stessa trama espositiva della motivazione con il frequente ricorso a pleonasmi, litoti in palese funzione rafforzativa di assunti deficitari o deboli ("non può non sostenersi ...", "non può non ritenersi..." e simili), metonimie che trascendono la semplice logica argomentativa e si traducono, confondendo cause con effetti, in palesi errori di diritto. Come accade nel singolare tautologico passaggio della motivazione della sentenza (p. 48) in cui il "movente" di supposta natura politica e giudiziaria della condotta istigatrice del dott. D.G., solo ipotizzato (e per di più smentito da trascurate emergenze vagliate dalla sentenza di primo grado), è assimilato alla prova dell'istigazione "a prescindere dalla rilevanza" del dato nel processo Diaz, e siffatta rilevanza è a sua volta ritenuta sussistente "per la sola rilevanza e suscettibilità della deposizione istigata" di recare "un astratto contributo", pericolosamente fuorviante, alla decisione del processo Diaz.

2. Ad onta della sua corposa estensione (ma una rilevante parte della sentenza è assorbita dalla cronistoria, pur necessaria, delle indagini preliminari e del percorso giustificativo della prima sentenza di merito), la carenza di motivazione e l'erronea applicazione dell'art. 372 c.p. nel giudizio sulle peculiari posizioni di concorrenti extranei dei due imputati D.G. e M. appaiono particolarmente rilevanti nella disamina, di natura per dir così pregiudiziale, perchè antecedente logico e giuridico della dimostrazione dell'effettiva sussistenza, materiale e soggettiva, delle contestate condotte istigatrici ascritte ai due imputati, degli elementi integranti -per ormai consolidati indirizzi giurisprudenziali e dottrinali- la tipicità normativa della fattispecie della falsa testimonianza. Vale a dire i requisiti della pertinenza e della rilevanza nel processo della Diaz, nel quale si è manifestata l'ipotizzata testimonianza falsa, dei tre temi sui quali (uno per D.G.: questione S.; due per M. conversazione M.- K. e accesso nella scuola Pascoli) è calibrata l'accusa di concorso criminoso elevata a carico dei ricorrenti.

2.1. Il presupposto dell'individuazione di tali componenti strutturali del reato ex art. 372 c.p. è costituito dalla pacifica natura di reato di pericolo riconosciuta alla falsa testimonianza (v. ex pluribus: Cass. Sez. 6, 26.5.2009 n. 40501, Merenda, rv. 244553).

Nel senso che il reato può ritenersi sussistente, allorchè -per pertinenza e rilevanza dell'oggetto della testimonianza sul quale si sia consumato il mendacio rispetto al thema deddendum del processo- la falsa deposizione testimoniale risulti astrattamente idonea ad alterare o comunque ad influenzare il convincimento del giudice, così incidendo sul corretto funzionamento dell'attività giudiziaria con il rischio potenziale di fuorviarne il corso.

In altri termini, se il reato di cui all'art. 372 c.p. tutela il corretto svolgimento dell'attività giudiziaria, nel senso che questa non può essere sviata da dichiarazioni testimoniali non veritiere, occorre anche che tale falsità dichiarativa abbia la possibilità di produrre un siffatto esito decisorio fuorviato. Con l'ulteriore ed ovvio corollario che, per la configurabilità del delitto di falsa testimonianza, la valutazione sulla pertinenza e sulla rilevanza della deposizione del testimone deve effettuarsi con riguardo alla situazione processuale esistente al momento in cui il reato è consumato (id est in cui la testimonianza falsa è resa), ossia ex ante e non in virtù di una postuma prognosi, ed a tale positiva valutazione il giudice deve giungere attraverso l'esame di norme giuridiche, senza fare surrettizio ricorso a semplici massime di esperienza (cfr., ex pluribus, da ultimo: Cass. Sez. 6, 29.5.2009 n. 27533, Testa, rv. 244532; Cass. Sez. 6,6.7.2010 n. 29258, Major, rv 248610).

2.2. L'indagine sulla previa pertinenza e rilevanza della testimonianza mendace rispetto all'oggetto dell'accertamento processuale nel processo a quo diviene ancor più importante quando si discuta, come nel caso di specie, di una ipotesi di fattispecie plurisoggettiva eventuale, in cui vengono in risalto delle condotte concorsuali di persone che non hanno reso la testimonianza falsa, ma ne abbiano in qualche modo condizionato o indotto il manifestarsi secondo il criterio dell'efficienza o equivalenza causale che disciplina il concorso di persone nel reato a norma del combinato disposto dell'art. 40, comma 1 e art. 110 c.p..

Giova rimarcare, come segnalato all'inizio della presente decisione, che le imputazioni cristallizzate a carico degli imputati e le stesse due sentenze di merito impiegano promiscuamente e come sinonimi le categorie della determinazione, della istigazione e dell'induzione a commettere il reato di falsa testimonianza. In realtà si tratta di tipologie di condotte esecutive differenziate, che risalgono al previgente codice penale Zanardelli e significative in ragione della gradualità del concorso di persone nel reato in esso prevista (a rigore determinatore è il concorrente che fa sorgere nell'autore materiale del reato un proposito criminoso prima inesistente, mentre istigatore è il partecipe che si limiti a rafforzare un proposito criminoso preesistente nell'autore materiale). Il criterio della causalità efficiente adottato dal vigente codice penale anche per le ipotesi di concorso di persone nel reato rende oggi inconferente la tipologia di condotte in questione e legittima un loro indeterminato e generico uso di corrispondenza ad un contegno di induzione o istigazione, sia che il proposito di dichiarare il falso del testimone sia stato già presente nella sua progettualità volitiva, sia che tale proposito sia stato provocato volutamente dal partecipe non testimone.

Per la verità, sul piano della ricostruzione della decisione del dott. C. di affermare -secondo l'ipotesi di accusa contestatagli- cose non vere nel corso della testimonianza resa al Tribunale di Genova il 3.5.2007, pur potrebbe discutersi, in tesi, di un preesistente autonomo intento di modificare le dichiarazioni rese in precedenza (se siffatta modifica sia davvero falsa, in tutta la latitudine dell'accusa rivoltagli, sarà accertato nel separato processo pendente a suo carico), sul quale potrebbe essersi inserito il condizionamento rivenientegli dai colloqui avuti con il dott. D. G. e con il dott. M.. Al riguardo deve rilevarsi, infatti, che la sentenza di appello oggi in esame (laddove la sentenza di primo grado correttamente si pone il problema, risolvendolo in chiave di totale mancanza o incertezza probatorie) non fornisce indicazione alcuna, al di là di asseverazioni indimostrate o di stile, sui dati reali che suffraghino specifiche condotte induttive dei due imputati.

Se ciò appare evidente per quel che concerne il rapporto del dott. C. con il M. (lo ha cercato il dott. C. e l'imputato si limita a rinverdirne i labili ricordi dei fatti sulla base di evenienze pacifiche e di comune collettiva conoscenza oppure a rinviarlo ad altro collega per visionare i verbali delle dichiarazioni di testimoni e imputati del processo Diaz, altrettanto pubblici dopo la richiesta di rinvio a giudizio del p,m. e la radiocronaca di tutte le udienze dibattimentali riproposta sul sito internet di Radio Radicale, come ricordano le memorie difensive e gli odierni ricorsi degli imputati), la circostanza si mostra altrettanto palese anche per il rapporto intercorso tra il dott. C. e il dott. D.G.. In questo contesto gli inviti o esortazioni a riformare le precedenti dichiarazioni provenienti dal Capo della Polizia sono accreditati dalle sole parole del C. all'amico M. e per la verità sono, a tacer d'altro, interpretati in modo equivoco dallo stesso dott. C., che -giusta quanto puntualmente evidenzia la sentenza assolutoria del g.i.p.- mostra di non comprenderne i riferimenti, atteso che lo stesso C. non sa spiegarsi in qual modo la revisione delle sue pregresse dichiarazioni sulla questione S. possa fornire aiuto ai colleghi dirigenti della Polizia coinvolti nel processo Diaz. E tale dato, merita subito rimarcare, è un indiretto, ma affatto chiaro, indice dell'irrilevanza decisoria dell'oggetto della testimonianza incriminato, se neppure il presunto falso testimone riesce a cogliere l'incidenza della questione S. sulla decisione del processo Diaz.

2.3. Nella giurisprudenza e nella stessa dottrina gli elementi della struttura del reato formati dalla pertinenza e dalla rilevanza dell'oggetto della falsa testimonianza in correlazione con l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale nel processo in cui è raccolta la falsa testimonianza sono utilizzati come espressione di una stessa categoria precettiva o concettuale ovvero come una sorta di endiadi, con cui si metterebbe a fuoco una unitaria situazione processuale. In realtà, ove non ci si fermi alla lettura delle sole massime della giurisprudenza di legittimità, è facile rilevare che la pertinenza e la rilevanza individuano -oltre che per la diversa matrice semantica- due elementi o requisiti ben diversi, ancorchè complementari o, se si preferisce, senz'altro sovrapponibili, ma soltanto in termini di sequenzialità logica e giuridica (arg. ex: Cass. Sez. 6, 25.5.1989 n. 2124, Lombardo, v. 183352; Cass. Sez. 6, 7.10.2004 n. 4421/05, Messina, rv. 231445; Cass. Sez. 6,17.4.2007 n. 34467, Ceravolo, rv. 237840).

La pertinenza è nozione che denota la riferibilità o afferenza dell'oggetto della testimonianza che si assume falsa, nella sua triplice modalità esecutiva, commissiva (affermare il falso, negare il vero) od omissiva (reticenza), ai fatti che il processo è destinato ad accertare e giudicare. I fatti o le circostanze sui quali si manifesta la falsità del dictum testimoniale debbono possedere una rilevabile attinenza diretta o indiretta, ma causalmente orientata quanto meno sotto il profilo della potenziale estensibilità a tali fatti e circostanze, con l'oggetto dell'accertamento giudiziale per cui è processo. La rilevanza del falso testimoniale è, invece, nozione di carattere funzionale che attiene più specificamente alla efficacia probatoria di quegli stessi fatti e circostanze. Cioè alla idoneità del loro (in ipotesi falso) accertamento o, il che è lo stesso, alla loro capacità di falsa rappresentazione in grado di influire, deviandola dalla autentica e genuina verità processuale, sulla decisione del processo. Insomma è chiaro che una dichiarazione falsa estranea o non pertinente al thema decidendum è, per definizione, priva di rilevanza ai fini dell'accertamento della verità e della decisione e ciò è sufficiente a vanificare la configurabilità del reato di cui all'art. 372 c.p.. Una falsa dichiarazione pertinente all'oggetto dell'accertamento processuale impone la sequenziale verifica della sua rilevanza ai fini della decisione, cioè della sua idoneità a condizionare o fuorviare la decisione e, nel caso in cui detta verifica si risolva positivamente, nessun dubbio è consentito sulla sussistenza del reato di falsa testimonianza, quand'anche il giudice non risulti poi in concreto ingannato o tratto in errore dalla falsa testimonianza. In conclusione una falsa testimonianza in tanto è rilevante, in quanto sia pertinente all'oggetto del processo; una falsa testimonianza pertinente all'oggetto dell'accertamento processuale può essere rilevante o non rilevante ai fini della decisione nel processo a quo a seconda delle sue connotazioni, modali e descrittive, di incidenza sulla decisione e del coefficiente di tale incidenza.

L'indagine sviluppata dalla impugnata sentenza della Corte di Appello ligure è lacunosa, come detto, nel definire l'effettiva pertinenza e rilevanza dei tre profili di falsità testimoniale ascritti ai due ricorrenti in concorso con il testimone dott. C.. La sentenza in pratica procede in base all'assiomatica presupposta dimostrazione sia della pertinenza che della rilevanza dei temi di testimonianza ipotizzati come falsi ed ascritti ai due imputati. Tranne alcuni accenni incidentali alla rilevanza nel processo Diaz dei profili di falsità dichiarativa dell'ex Questore C., di uno dei quali concernente la posizione del dott. D.G. si è già detto, segnalandosene la palese erroneità argomentativa, nella sentenza non è dato rinvenire valutazioni su tale dirimente aspetto della regiudicanda. Per converso la sentenza del g.i.p. del Tribunale di Genova affronta il tema della verifica della pertinenza e rilevanza dei falsi commessi dal dott. C. ed indotti dal dott. D. G. e dal dott. M.. Il g.i.p. sembra ritenere i tre profili di falsità indotta dagli imputati pertinenti, almeno in linea teorica, con l'oggetto del processo Diaz, sebbene valuti assai limitata e generica la pertinenza della questione S. al processo Diaz ("...una certa pertinenza"). Lo stesso g.i.p. valuta, poi, del tutto irrilevante ai fini della decisione del processo Diaz la questione S.. Sembra considerare senz'altro rilevanti le questioni relative alle informazioni di K. e all'accesso nella scuola Pascoli, ma ne assorbe il peso probatorio, soprattutto per la vicenda della Pascoli, nella mancanza di elementi asseveranti una effettiva opera di induzione o istigazione del dott. M..

3. Alla luce dei dati di conoscenza desumibili dagli atti processuali cui può attingere questo giudice di legittimità e in particolare, come ovvio, dalle due sentenze di merito, dagli atti di appello avverso la decisione di primo grado e dall'acquisita sentenza di primo grado nel processo per i fatti della Diaz (Tribunale Genova 13.11.2008), la vicenda afferente a chi abbia disposto, tra il Capo della Polizia e il Questore di Genova, l'invio presso il complesso Diaz del responsabile del servizio di comunicazioni esterne della Polizia di Stato dott. S.R. si presenta destituita di ogni profilo di seria pertinenza con i fatti reato integranti la regiudicanda del processo Diaz, costituiti da condotte di calunnia, lesioni volontarie, falsità ideologiche ed altri reati. Difetto di pertinenza e, per ciò stesso, di rilevanza della pretesa falsità delle dichiarazioni con cui il Questore C. avrebbe "ritrattato" le sue anteriori affermazioni sull'indicazione ad informare dell'operazione Diaz il dott. S. ricevuta dal Capo della Polizia D.G. la sera del 21.7.2007 nel pieno della organizzazione della perquisizione appena decisa presso la scuola di Via Battisti. La questione o vicenda è priva di qualsiasi inferenza con i fatti e i comportamenti resi oggetto del processo Diaz.

Soltanto una travisante lettura dei dati processuali può condurre a supporre la questione pertinente e pur anche rilevante rispetto al thema decidendum del processo Diaz e al percorso di formazione del convincimento decisorio del giudice di quel processo.

3.1. La sentenza di appello, come visto, sostiene la rilevanza della questione in quanto idonea ad esporre a pericolo di sviamento la decisione del processo Diaz, ma non chiarisce in qua modo e misura un tale esito divenga possibile. L'irrilevanza della non pertinente questione è, invece, esposta lucidamente con motivazione coerente e logica dalla sentenza di proscioglimento di primo grado (sentenza, pp. 26 ss., 74-75).

Nè è casuale che la stessa sentenza pronunciata nel giudizio di primo grado per i fatti della Diaz ponga in luce la completa irrilevanza della questione S., osservando (Tribunale di Genova 13.11.2008, pp. 341-342): "Nè appare di rilievo la modifica delle dichiarazioni rese dal teste C. circa l'iniziativa di avvisare il dott. S., inizialmente attribuita al dott. D.G. e successivamente indicata in dibattimento come propria ... attesa l'irrilevanza di tale circostanza in ordine all'accertamento dei fatti e delle responsabilità oggetto del presente procedimento, non appare in alcun modo necessario valutare in questa sede se le diverse indicazioni fornite dal dott C. siano attribuibili ad un erroneo ricorso o alla volontà di lasciare il dott. D.G. completamente estraneo ad ogni iniziativa circa l'operazione alla Diaz". Per completezza va osservato che, andando in parziale diverso avviso, la sentenza di appello nel processo Diaz, pure versata agli atti allegati agli odierni ricorsi, sembra recuperare la rilevanza dell'invio del dott. S., in sostanza riconducendone la decisione direttamente o indirettamente al Prefetto D.G. e correlandola all'esigenza di tutelare e ristabilire l'immagine della Polizia di Stato offuscata dalla mancata prevenzione degli episodi di vandalismo e devastazione susseguitisi nei giorni del vertice del G8.

Recupero di immagine e di credibilità della Polizia che si sostiene caldeggiato dal dott. D.G. e che sarebbe alla base delle "finalità mediatiche" dell'operazione (Corte di Appello di Genova 18.5.2010, p. 114).

Anche la sentenza di secondo grado impugnata dai ricorrenti pone confusamente in relazione la vicenda, così implicitamente (deve supporsi) rinvenendone connotati di rilevanza nel processo Diaz, ad una questione di immagine compromessa della Polizia, che essendosi tradotta in un grave insuccesso (per le inqualificabili violenze compiute sugli occupanti della scuola Pertini), avrebbe indotto l'allora Capo della Polizia D.G. a prendere ogni distanza possibile dall'operazione e altresì a persuadere o esortare il C. a modificare le anteriori sue dichiarazioni sulla vicenda.

La sentenza di appello mutua l'impostazione accusatoria dell'appellante pubblico ministero, ma non ne comprende appieno le specifiche valenze argomentative. Di tal che ragioni di completezza espositiva del tema in esame suggeriscono di attingere in via diretta all'atto di appello del p.m. in cui risultano ben più chiari gli aspetti di supposta rilevanza dell'invio del dott. S. presso la Diaz.

Afferma l'appellante Procuratore della Repubblica (appello, pp. 19- 20) che comprendere il "coinvolgimento del Prefetto D.G. nell'operazione Diaz", sebbene non oggetto di accertamento penale ne suoi confronti, è sicuramente necessario per comprendere i ruoli dei principali imputati nel processo principale all'interno della "catena di comando operativa", che gli uffici centrali della Polizia di Stato, "quindi il Capo Dipartimento", vorrebbero indicare come gli organi decisionali cui attribuire la gestione dell'operazione, riconducendoli al vertice locale rappresentato dal Questore e dai suoi collaboratori. Che "la presenza del Capo dietro l'operazione si possa desumere anche dalla chiamata del dott. S.", aggiunge l'appellante p.m., sarebbe dato ricavabile dalla autorevole testimonianza del Prefetto A. all'interno di questa ricostruzione di una linea di comando che prende campo in sede locale, travolgendo le normali competenze.

3.2. Ora, se queste esposte sono le recondite ragioni di rilevanza della vicenda S., è fin troppo agevole rimarcare l'illogicità dell'assunto del p.m. nel malcelato tentativo di riportare nella vicenda dei fatti accaduti alle scuole Diaz un quadro (in tutta evidenza sfuggito od, anzi, disatteso pure dai giudici di appello del presente processo) di parallela responsabilità metagiuridica del Capo della Polizia, nei cui confronti non si è acquisita alcuna prova o indizio di un "coinvolgimento" decisionale di qualsiasi sorta nell'operazione Diaz.

Il vero è che l'intera assonometria del paradigma accusatorio elaborato dal rappresentante della pubblica accusa, sulla base delle casuali conversazioni intercorse tra l'ex Questore di Genova e l'imputato M. captate sull'utenza dello stesso M. e afferenti alla richiesta di notizie del dott. C. preoccupato per la sua prossima testimonianza sui fatti della Diaz, dei quali non serba ricordi precisi, si mostra fragile e caduca proprio alla luce del complesso degli elementi di conoscenza trasfusi nelle due sentenze di merito, che contraddicono una siffatta opzione processuale e le anzidette sorprendenti argomentazioni, che non si confrontano nè con le deduzioni della sentenza assolutoria del g.i.p. e con i rilievi difensivi, nè soprattutto con una obiettiva lettura delle fonti di conoscenza.

Laonde rimangono obliterati nell'apprezzamento della posizione del dott. D.G., prima ancora che la concreta prova di un'effettiva condotta istigatrice (la cui deficitaria enunciazione nella sentenza di appello impugnata già varrebbe a sgombrare il campo da ogni ulteriore disquisizione), il movente della condotta .... istigatrice (impropriamente trasfuso dal p.m. appellante e dalla sentenza di appello nella dimostrazione della rilevanza del profilo di falso contestato) e la stessa rilevanza processuale del supposto falso.

Ancora in tema di rilevanza corre obbligo di rimarcare che la farraginosa tesi della decisività dei dati relativi all'invio del dott. S. presso la Diaz, che giustamente la difesa del ricorrente rileva essere passata da una iniziale immaginifica tutela dell'efficienza operativa della Polizia alla tematica della catena di comando della perquisizione eseguita alla Diaz e all'esplicito preteso coinvolgimento del Capo della Polizia, viene in risalto soltanto attraverso l'emergere del verosimile intento del dott. C. di rettificare o meglio precisare le sue precedenti dichiarazioni proprio su tale punto. Fino alla seconda metà di aprile del 2007 nessuno, neppure il procedente pubblico ministero, si è mai posto il problema della rilevanza della presenza del dott. S. in margine alla operazione Diaz, ove egli giunge (come dichiara) a cose fatte. Non è casuale che, durante l'esame dibattimentale del testimone S. svoltosi all'udienza dell'8.2.2007 (riportato nella sentenza di primo grado del processo Diaz, p. 200), nessuno si preoccupi di domandare al teste - benchè il contrasto relativo al suo invio sul luogo della perquisizione tra le dichiarazioni del dott. D.G. e quelle del dott. C. sia ben noto a tutti- da chi sia stato deciso l'ordine o invito a portarsi sul posto e, dal momento che il teste afferma di aver ricevuto formalmente l'invito dal solo dott. C., se questi non gli abbia riferito tale "invito" come enunciazione della volontà del Capo della Polizia. E a tal punto e in logica sequenza è il caso di soffermarsi, ancora sulla base del compendio di dati ricavabili dalle due sentenze di merito (la sentenza del g.i.p. riproduce i brani rilevanti di tutte le dichiarazioni delle persone, imputati e testimoni, che rivestono interesse ai fini dell'odierno processo) e dagli altri atti ostensibili a questa Corte di legittimità, prima fra tutte la sentenza del Tribunale nel processo Diaz (nella parte in cui trascrive le deposizioni dei testimoni e le dichiarazioni di taluni imputati), sugli elementi che conclamano la volatilità della prova della stessa condotta istigatrice del dott. D.G. e della condotta che ne rappresenta concomitante presupposto ed l'espressione attuativa, cioè la falsa testimonianza del dott. C. sulla questione del dott. S..

4. E' opportuno in via preliminare, per rimuovere ogni possibile incertezza valutativa sui fatti emersi nel processo Diaz (indagini e dibattimento di primo grado) che sono estranei alla regiudicanda concernente gli imputati del processo Diaz eventuali profili di illegittimità della adottata decisione di effettuare l'operazione di perquisizione presso il complesso scolastico Diaz. Le decisioni di merito (che anche la sentenza di secondo grado del processo per i fatti della Diaz non ha modificato tale prospettiva, per altro ribadita dallo stesso pubblico ministero nell'appello avverso la sentenza di proscioglimento del dott. D.G. e del dott. M.) e le altre emergenze processuali conclamano che non sono contestati i presupposti di fatto e di diritto che facoltizzavano, in base ai dati informativi acquisiti, i dirigenti della Polizia presenti a Genova e il Questore della città all'intervento in parola, ma soltanto le modalità esecutive dell'irruzione e delle operazioni di identificazione e perquisizione dei 93 manifestanti o esponenti del dissenso pacifico (cd. tute bianche e no-global) reperiti nella scuola Pertini. E il dato concorre, come intuibile, a distanziare ancora di più il preteso coinvolgimento del Prefetto D. G. nella fase di decisione dell'intervento, sulla cui volontà di elusione la pubblica accusa ha creduto di radicare significatività e rilevanza processuali del contegno di induzione al falso testimoniale cui avrebbe aderito il dott. C..

Dalle indicate fonti di conoscenza è possibile evincere i dati di fatto e le evenienze, tra le più significative a dimostrazione dell'inconsistenza del costrutto accusatorio, di seguito sintetizzabili.

Innanzitutto, come evidenzia la sentenza di primo grado del g.i.p., non è pienamente comprensibile in quale specifico evento il dott. C. individui la "marcia indietro" fatta dal Capo della Polizia, di cui si compiace descrivendola al dott. M., e che lui intenderebbe ripagare rivedendo le proprie dichiarazioni sull'invio del dott. S. alla Diaz. Per la verità l'ultima dichiarazione resa dal dott. D.G. nella fase delle indagini preliminari (il 17.12.2002) non modifica granchè l'anteriore versione di non aver esortato il Questore ad inviare sul posto il dott. S.. A tutto voler concedere il dott. D.G. precisa, forse con maggiori particolari, di essersi reso ben conto dell'importanza dell'operazione sulla base delle indicazioni fornitegli per telefono dallo stesso dott. C., tanto da mettersi in contatto con uno dei due Prefetti presenti a Genova per il G8 (il dott. A. o il deceduto dott. L.B.), reperendo il dott. L.B. e raccomandandogli, ricevuta conferma dell'inevitabilità dell'intervento, il massimo dell'attenzione e della prudenza e facendosi assicurare che avrebbe seguito di persona lo sviluppo dell'azione di p.g. E' verosimile che in tali dichiarazioni, come sostiene il g.i.p., il dott. C. abbia letto (copia delle dichiarazioni gli è stata consegnata dallo stesso dott. D.G.) una sorta di "ammorbidimento" nei suoi confronti della iniziale più scarna posizione assunta dal Capo della Polizia.

Quel che è certo è che, diversamente da quanto affermato in sede di indagini dal dott. C., egli ha effettuato una sola telefonata (poco dopo le ore 22.00) al dott. D.G., come si evince dai tabulati dei telefoni in uso al Questore, come non manca di rimarcare la sentenza di primo grado. Non vi è traccia di alcuna eventuale chiamata telefonica diretta del dott. D.G. al dott. C.. Per converso il dott. C. la sera del 21.7.2001 ha chiamato sul cellulare due volte a distanza di una o due ore il dott. S., come costui afferma. La prima telefonata, con cui il dott. S. è avvertito dell'intervento in preparazione e della possibilità che si renda necessario avvalersi anche del suo ruolo di responsabile delle pubbliche relazioni della Polizia, precede quella effettuata al Capo della Polizia.

In secondo luogo non può passarsi sotto silenzio, che -a differenza della sentenza di appello- non è tralasciato dal g.i.p. il dato già anticipato che il dott. C. non si preoccupi di riferire allo S. che l'invito a stare all'erta, prima, e la successiva convocazione presso la Diaz ove è in corso la perquisizione, poi, siano l'espressione del volere del Dott. D.G.. Nè al riguardo soverchio pregio può attribuirsi alla generica indicazione del Prefetto A., che dubita della possibilità per il Questore C. di impartire un ordine al dott. S., la cui struttura o reparto è un'aggregazione esterna del Capo della Polizia da cui il funzionario direttamente dipende (sentenza g.i.p., p. 9: "...non credo che C. potesse dire a S. vai sul posto").

Il Prefetto A. sovrappone il rapporto organico del dott. S. (ufficio alle dirette dipendenze o di diretta collaborazione del Capo della Polizia) al rapporto funzionale in ausilio al Questore di Genova, per il quale il dott. S. era stato distaccato a Genova in occasione del vertice del G8 e già si trovava nel capoluogo ligure da alcuni giorni pronto a mettere a disposizione della locale Questura i propri uffici, come sembra essere sfuggito al dott. A.. Non sottacendosi, per altro, che lo stesso Capo della Polizia, se realmente interessato alla presenza del responsabile delle pubbliche relazioni sul luogo della perquisizione, ben più agevolmente e con l'autorevolezza del suo ruolo avrebbe potuto mettersi in contatto con il dott. S. senza l'intermediazione del Questore.

In terzo luogo mette conto sottolineare che (come pure si è anticipato) il dott. C. non mostra alcun segno di risentimento per aver acceduto al presunto consiglio o suggerimento del dott. D. G. a modificare o, meglio (per quanto chiarito sul punto), rettificare quanto già dichiarato quasi sei anni prima sulla vicenda S.. Il fatto che egli non mitra dubbi sulla riferibilità della comunicazione giudiziaria per il reato di falsa testimonianza, inviatagli dopo l'esame dibattimentale, alle sue dichiarazioni sull'invio-presenza del dott. S. presso la Diaz è facilmente giustificabile con l'insistenza e le ripetute contestazioni ex art. 500 c.p.p. mossegli dal p.m. nel corso dell'esame. Il dato è richiamato nella sentenza del g.i.p., che rammenta come lo stesso presidente del collegio giudicante si interroghi sulle ragioni dell'insistenza delle domande rivolte al teste dal p.m. su una circostanza (vicenda S.) di cui appare difficile comprendere il concreto rilievo nell'economia del processo per i reati di lesioni, calunnia e falso emersi nel contesto dell'operazione Diaz, ed è altresì fatto palese dalla corposità della trascrizione dell'esame dibattimentale del dott. C. versata in atti (in quanto costituente il corpo del contestato reato di falsa testimonianza) e richiamata negli scritti di tutte le parti processuali interessate all'odierno giudizio. Dalla trasposizione delle intercettazioni telefoniche recata dalla sentenza del g.i.p. e dal complessivo tenore dei dialoghi emerge, come ancora evidenzia il decidente giudice di primo grado, che il compiacimento del dott. C. per l'effetto prodotto dalla sua testimonianza sui colleghi che si sono complimentati con lui (ivi inclusi il dott. D.G. e il dott. M.) investe non tanto la rettifica o modifica delle dichiarazioni precedenti sull'invio del dott. S. alla Diaz, quanto piuttosto e soltanto l'introduzione di un dato "nuovo" concernente la posizione nelle attività propedeutiche ed esecutive della operazione Diaz del dott. M.L., quale funzionario con compiti operativi più alto in grado (Vice Questore a Bologna) tra quelli partecipanti all'intervento di p.g. Posizione archiviata dal p.m. all'esito delle indagini, che il dott. C. "rimette in ballo", supponendo che la precisazione sovverta l'impostazione della pubblica accusa proprio sul tema della "linea del comando" esecutivo dell'operazione Diaz.

Ora, messo da canto il paradosso accusatorio fatto proprio dall'impugnata sentenza di appello, secondo cui la revisione o rettificazione dei propri ricordi da parte di un testimone (che non riveli in qual modo sia pervenuto alla rivisitazione delle proprie lacune mnemoniche) equivale a ritrattazione (quasi che le precedenti dichiarazioni modificate integrino una chiamata in reità) e la ritrattazione equivale alla prova della falsa testimonianza, è un dato di fatto non eludibile che l'aspetto della testimonianza del dott. C. sul ruolo del dott. M. è totalmente estraneo all'accusa di falsa testimonianza induttiva mossa al dott. D. G..

5. Per una singolare abduttiva valutazione logica, cui non si sottrae anche la sentenza del g.i.p., l'analisi della posizione del dott. D. G. è uniformemente considerata di più difficile elaborazione rispetto a quella del coimputato dott. M., sebbene -facendosi corretta applicazione dei principi regolanti l'apprezzamento della prova indiziaria- l'accusa rivolta al dott. D.G. si mostri in realtà di agevole e rapida soluzione di segno liberatorio per la manifesta segnalata labilità delle fonti probatorie valorizzate dall'accusa. Il vero è soltanto che la disamina valutativa della posizione del dott. M.S. è, se possibile, ancora più agevole di quella dell'ex Capo della Polizia. Per la semplice ragione che nel caso del dott. M. si è in presenza di un genetico vuoto descrittivo e dimostrativo della incriminata condotta di induzione alla falsa testimonianza del dott. C..

5.1. Il duplice profilo di falsità testimoniale indotta contestato al dott. M. (contatto telefonico con il rappresentante del G.S.F. e modalità e ragioni dell'accesso alla scuola Pascoli) può ritenersi, ed è stato ritenuto dalle due sentenze di merito (conformi sul punto), caratterizzato da un oggettivo collegamento, cioè da pertinenza, con i fatti reato interessanti il processo Diaz.

Non vi è dubbio, infatti, che -pur in forma mediata o indiretta- le informazioni raccolte dal dott. M. nella conversazione avuta con uno dei rappresentati del Genoa Social Forum K.S., su cui ha testimoniato il dott. C., investono la ricostruzione delle fasi precedenti la decisione di intervenire presso la Diaz per controllarne gli effettivi occupanti e la stessa decisione dell'intervento sul presupposto della possibile presenza o infiltrazione di persone resesi responsabili degli atti vandalici compiuti a Genova nei due giorni precedenti il 21.7.2001, veicolata appunto anche dalle informazioni che il dott. M. raccoglie dal K. (fase di smobilitazione e mancanza di garanzie sulla presenza di soli manifestanti pacifisti), dopo aver effettuato personalmente un dissimulato sopralluogo in Via (OMISSIS), rilevando la presenza in strada di un nutrito gruppo di persone potenzialmente definibili come "facinorose" e minacciose, secondo la costante indicazione offerta dallo stesso dott. C., tanto da far supporre che tra essi vi siano gli stessi protagonisti dell'aggressione compiuta nell'avanzato pomeriggio in danno di una pattuglia automontata della polizia guidata dal funzionario dott. D. B. transitata in Via (OMISSIS).

Ed altrettanto è a dirsi, in termini di pertinenzialità processuale dell'oggetto della testimonianza, per le ragioni addotte dal testimone dott. C. sull'accesso alla scuola Pascoli che, in quanto sede degli organi di stampa del G.S.F. e di altre strutture e organismi informativi collegati ai movimenti non violenti convenuti a Genova in occasione del vertice del G8, non costituiva il reale "obbiettivo" del deciso intervento di p.g. (perquisizione R.D. 18 giugno 1931, n. 773 , ex art. 41). L'episodio afferisce, infatti, alla ricostruzione della dinamica esecutiva della perquisizione di polizia contestuale all'accesso nella prospiciente scuola Diaz Pertini in cui si sono verificati (oltre che, in seguito, presso la caserma di Bolzaneto) i fatti reato di violenza nei confronti di gran parte delle persone identificate nella struttura.

5.2. Più sfumata si presenta la connotazione di rilevanza del duplice profilo di falsità testimoniale ascritto al dott. M. in concorso morale con l'ex Questore di Genova. Anche in questo caso la sentenza di appello impugnata vi accenna in modo sommario, in pratica dandola per scontata, ma omettendo di chiarire -diversamente dall'analisi sviluppata dalla sentenza di primo grado- in qual modo le due ipotizzate falsità, rappresentative l'uria di un dato "nuovo" nel panorama del processo Diaz (il diretto ascolto delle risposte date da K. al M. da parte del Questore C.) e l'altra di dati già emersi da tempo - ancorchè in palese dissonanza tra di loro- fin dalle indagini preliminari e nelle stesse testimonianze dibattimentali assunte prima della deposizione del dott. C., debbano o possano ritenersi potenzialmente idonee a condizionare o influenzare in prospettiva fuorviante la decisione sulla regiudicanda del processo Diaz. La sentenza del g.i.p. genovese, si è anticipato, finisce per riassorbire la pregiudizialità valutativa della rilevanza del falso testimoniale nella sostanziale dissolvenza dei requisiti di supposta contraddizione o discrasia dei contenuti della deposizione dibattimentale del dott. C. con i contenuti delle dichiarazioni dallo stesso rese nella fase delle indagini preliminari, in un quadro ricompositivo che in definitiva riconduce la questione nella irrilevanza penale del fatto apprezzabile ai sensi dell'art. 129 c.p.p..

5.2.1. Per vero il problema neppure si pone per ciò che concerne l'episodio del dialogo telefonico avvenuto, per altro su sollecitazione dello stesso dott. C. (come risulta pacificamente dalle due sentenze di merito), tra il dirigente della Digos dott. M. e il dott. K., dal momento che -si è detto- il dott. C. introduce nella sua deposizione testimoniale un elemento di novità, avvalorante in pratica la veridicità delle ragioni di sospetto nutrite sulla presenza nella scuola Diaz Pertini di soggetti violenti desunta dalle risposte del K. ai quesiti formulati dal M.. Un elemento non emerso nelle precedenti dichiarazioni del C. e del tutto estraneo alle conversazioni intessute dall'ex Questore in preparazione della sua testimonianza nel processo Diaz, che si è visto metterlo a disagio per la fugacità dei suoi ricordi dei fatti dell'epoca, svaniti anche per il non breve lasso di tempo ormai trascorso (laddove, come è intuibile, i colleghi imputati, quali M. e D.S., costretti per tale loro veste a seguire da vicino l'evoluzione del procedimento, ne serbano un ricordo ben vivo e aggiornato dalla agevole disponibilità di tutti gli atti processuali delle indagini e dello stesso dibattimento di primo grado nella sua progressione). Come segnala la sentenza del g.i.p., lo stesso dott. M., negli intercettati dialoghi con il coimputato D.S., si mostra sorpreso della indicazione formulata dal dott. C. sulla sua sostanziale partecipazione, quasi in condizione di "viva voce", alla conversazione telefonica con il K., evenienza di cui non ha ricordo, ma che non si sente di escludere dopo la testimonianza del dott. C..

Ricordato che nel processo Diaz non viene in discussione l'originaria legittimità dell'intervento di p.g. disposto presso la scuola Pertini, ha buon gioco il g.i.p. nel rilevare che, a monte della verifica della concreta condotta induttiva del M., difettano dati di certezza processuale sulle valenze di falso della nuova circostanza addotta dalla testimonianza del dott. C. e sulla sua alternativa giustificabilità come un normale ripensamento o una semplice precisazione del testimone, mostrandosi debole e inconducente la tesi di accusa, secondo cui la deposizione del dott. C. tenderebbe a rafforzare l'assunto del M., persuasosi dopo il dialogo con K. che il G.S.F. non abbia più il pieno controllo della struttura della Diaz.

Da un lato, infatti, l'assunto del dott. M., coonestato dal Questore (che comunque in precedenza aveva affermato di aver recepito dal resoconto di M. la fondatezza dei dubbi sulla eventuale presenza nella Diaz di persone estranee al G.S.F. o a gruppi ad esso collegati), non risulta in sè non veritiero, dal momento che il sospetto di presenze estranee composte da soggetti violenti, che è all'orìgine della decisione di effettuare la perquisizione, risultava avvalorato anche da altri elementi (oltre al già indicato sopralluogo compiuto dal dott. M. prima di telefonare al K.), tra cui in particolare l'aggressione o i contegni di palese ostilità di soggetti in apparenza provenienti dalla Diaz consumati in danno della pattuglia di polizia transitata in Via Battisti e le numerose segnalazioni di molti cittadini abitanti nell'area del complesso Diaz in merito al sopravvenire di gruppi di giovani in atteggiamento tutt'altro che pacifico. Da un altro lato, la parziale innovativa deposizione del dott. C. non risolve la persistente conclamata divergenza (a tutti nota anche dopo l'esame testimoniale dello stesso dott. K. avvenuto prima della deposizione C.) sull'esatto tenore della conversazione tra loro intervenuta riferito dal K. e dal dott. M., la ricostruzione del quale è confermata dal dott. C. fin dalle sue prime dichiarazioni testimoniali nel corso delle indagini.

In una simile prospettiva si sovrappone, con effetti dirimenti sulla valutazione della sussistenza del contegno induttivo alla falsità, il dato dell'estraneità della conversazione M.- K. ai discorsi intercettati tra lo stesso M. e il dott. C.. E il deserto probatorio che sul punto caratterizza la decisione di condanna pronunciata dalla Corte di Appello diviene ostativo ad ogni ulteriore possibile approfondimento dell'illustrato profilo di falsità. 5.2.2. Quanto al secondo tema oggetto del concorso in falsità ascritto al ricorrente dott. M., riguardante modalità e cause dell'irruzione delle forze di polizia anche nella sede della scuola Pascoli, è senz'altro vero, come afferma la sentenza di appello e come non disconosce la sentenza di primo grado, che la versione dell'accesso dovuto all'errore commesso dal reparto giunto in Via Battisti alla guida del dott. G.S. (imputato nel processo Diaz), mentre era già avvenuta l'irruzione nella contigua scuola Pertini, non resosi conto di quale fosse il vero obiettivo dell'intervento (la scuola Pertini), confligge con l'informazione sull'episodio fornita con un fax della Questura di Genova a firma dello stesso dott. C. inviato a non molte ore di distanza dai fatti al Capo della Polizia dott. D.G. alle ore 17.00 della domenica 22.7.2001. Comunicazione in cui non si accenna ad un eventuale errore degli operanti. Così come è vero che anche le iniziali dichiarazioni del dott. M. non prospettano l'ipotesi dell'errore.

Senonchè nello specifico caso in esame la riconosciuta rilevanza decisoria dell'eventuale falsità testimoniale sulla dedotta circostanza delle modalità di accesso nella scuola Pascoli (presunto errore) si scontra con oggettive emergenze processuali, richiamate e considerate dalla sentenza di primo grado, ma in gran parte pretermesse dalla sentenza di appello senza una lettura critica delle valutazioni del primo giudice di merito, che privano di consistenza le segnalate discrasie.

Innanzitutto il tenore del fax inviato al Prefetto D.G. è generico e, a ben riflettere, non offre alcuna specifica spiegazione dell'ingresso nella Pascoli, che definisce come semplice operazione di "verifica" collaterale all'avvenuto accesso nella scuola Pertini (cfr. testo fax in sentenza g.i.p., p. 19: "contemporaneamente alla perquisizione veniva effettuata una verifica all'interno dei locali della sede stampa del G.S.F., sito nell'edificio prospiciente il complesso scolastico Diaz, senza il compimento di ulteriori atti o operazioni per assenza di qualsiasi problematica inerente la sicurezza"). E' soltanto in prosieguo che prende corpo la tesi dell'accesso nella Pascoli per l'esigenza di "mettere in sicurezza" l'area dell'intervento nella Pertini. Assunto dal p.m. a sommarie informazioni testimoniali il 10.8.2001, il dott. M., precisando di non essersi avveduto dell'ingresso delle forze di polizia nella scuola Pascoli, accenna in termini probabilistici ad esigenze di sicurezza connesse al timore che le persone presenti nella Pascoli possano disturbare o ostacolare l'operazione da svolgersi nell'edificio della Diaz Pertini. Ipotesi che ribadisce nell'interrogatorio reso in veste di indagato il 27.10.2001. Ma la tesi dell'ingresso per errore riconducibile alla carente organizzazione con cui è stato predisposto ed effettuato l'intero intervento di p.g., tesi che il M. indicherebbe al dott. C. nei dialoghi intercettati, è già presente nel procedimento, introdottavi da altre persone che la ripetono nel corso del dibattimento di primo grado.

Di tal che deve riconoscersi, in difetto -per quanto chiarito- di apprezzabili rilievi critici della sentenza di appello sul punto, la coerente logicità del ragionamento attraverso il quale il primo giudice valuta i riferimenti del dott. M. nelle conversazioni con il dott. C. alla versione del casuale errore compiuto dagli operanti nell'entrare nella scuola Pascoli. Osserva in proposito il decidente g.i.p. che la spontanea espressione utilizzata dal M., per cui "chi è andato ha fatto la cazzata", enuncia la sua personale valutazione senz'altro negativa dell'episodio, ma null'altro aggiunge di più preciso. Per il M. i colleghi hanno sbagliato ad entrare nella Pascoli, ma non necessariamente perchè hanno confuso un luogo con un altro (sentenza g.i.p., p. 46: "...hanno preso una decisione sbagliata, avventata...quello che si ricava dalle poche parole del M. è che chi è entrato ha fatto una grande sciocchezza e lui stesso non è in grado di spiegare da cosa sia scaturita e chi abbia dato il relativo ordine").

6. Come per il dott. D.G., anche in riferimento alla posizione del dott. M. vengono in luce dati ed evenienze più strettamente attinenti alla peculiare condotta di istigazione o induzione contestagli in margine ai due descritti aspetti della presunta falsa testimonianza resa dal dott. C.. Dati che denunciano l'assenza di seri elementi di prova del contegno illecito dell'imputato. Contegno che, giova rammentare, entrambe le sentenze di merito giudicano senz'altro inopportuno per essersi manifestato in un contatto concernente l'esame testimoniale di un teste dell'accusa nel processo in cui il dott. M. è imputato, ma che è privo di autonomo rilievo penale e destinato, se mai, ad incidere sulla sola utilizzabilità od efficacia probatoria delle dichiarazioni testimoniali che di un tale contatto possano risultare frutto (eventualmente sotto il profilo della omessa indicazione da parte del testimone di tutte le fonti delle sue riferite conoscenze sui fatti oggetto dell'esame testimoniale).

6.1. In proposito può farsi menzione, tra le molte altre analizzate soprattutto dalla sentenza assolutoria di primo grado, di almeno tre emergenze dotate di particolare significatività.

L'interesse alla testimonianza dell'ex Questore di Genova ed ai suoi contenuti da parte del dott. M. che emerge dalle captazioni foniche è inesistente, se è indiscutibile che è stato il dott. C. a chiamarlo e in pratica a chiedergli di aiutarlo a ricordare eventi di cui l'ex dirigente la Digos della sua Questura possiede memoria ben più precisa della sua. Aiuto che il dott. M. offre, amichevolmente ma senza grande partecipazione, ad un superiore gerarchico che conosce da tempo e con il quale ha a lungo collaborato per motivi professionali.

Le notizie o precisazioni sulla dinamica dei fatti avvenuti a Genova l'ultimo giorno del vertice del G8 che l'imputato fornisce al dott. C. non soltanto non paiono aggiungere alcunchè di nuovo rispetto a quanto hanno già dichiarato sia il dott. M. che il dott. C., ma in ogni caso afferiscono ad informazioni processuali scandite da notorietà e facilmente accessibili anche a persone diverse dagli imputati, attesa la vasta risonanza mediatica che ha accompagnato le indagini e il processo per i fatti della Diaz (i difensori di entrambi gli imputati hanno ricordato che tutte le udienze del processo di primo grado, registrate da Radio Radicale, sono state rese disponibili sul sito internet dell'emittente pressochè in tempo reale).

Dalle numerose intercettazioni telefoniche posteriori all'esame dibattimentale del dott. C. non è emersa alcuna forma di compiacimento o personale soddisfazione del dott. M. sulla testimonianza resa dall'ex Questore, sì da far ragionevolmente supporre che l'imputato sia l'ispiratore, il "preparatore" o il dissimulato istigatore dell'attuazione del "militante programma" falsificatorio che l'accusa ritiene di poter assegnare al dott. C..

6.2. Ne discende, per un verso, la patente illogicità dell'argomento con cui la sentenza impugnata (p. 59) ritiene potersi dedurre a sostegno della colpevolezza del dott. M. e della sua consapevole alterazione manipolativa della testimonianza C. la circostanza per cui l'ex Questore avrebbe ricevuto dal Capo della Polizia l'esortazione a rendere testimonianza anche per aiutare i colleghi. Incongruamente i giudici di appello attribuiscono, per mero effetto transitivo, al dott. M. un dato valutativo, che -già privo di consistenza per la posizione del dott. D.G. - non può essere preso in considerazione per il dott. M., quando nessuna prova risulta acquisita (oltre che di diretti personali contatti tra il dott. D.G. e il dott. M. nel periodo preso in esame) della ipotetica adesione dell'imputato all'altrui eventuale proposito criminoso.

E ne consegue ancora la fallacia della categoria del dolo eventuale, che la Corte di Appello, sulla scia della prospettazione dell'appellante p.m. circondariale, evoca surrettiziamente per dar conto dell'opera di insinuante prefigurazione degli specifici contestati contenuti della testimonianza cui era chiamato il dott. C.. Insinuazione dei cui effetti di dissimulata induzione falsificatoria il dott. M. avrebbe scientemente accettato il rischio, allorchè non si è astenuto dalL'aiutare la memoria del testimone, riferendogli dettagli dell'intervento nel complesso Diaz.

Il richiamo al dolo eventuale è compiutamente professato nell'atto di appello proposto contro la sentenza del g.i.p. dal p.m. (p. 12) con specifico riguardo proprio alla posizione dell'imputato M., dal momento che la condotta induttiva ascritta al dott. D.G. è costruita come espressione di dolo generico diretto (o intenzionale). Ad avviso del p.m. il dolo eventuale sarebbe in ogni caso immanente nel contegno tenuto dal dott. M. per il solo fatto che, accettando il contatto con il testimone C., egli ha ipso iure accettato il rischio che l'esaminando testimone riferisca - come è avvenuto - cose non appartenenti alla sua personale conoscenza e conformi a quelle che l'interlocutore gli ha propinato con sottaciute finalità decettive.

L'assunto è privo di pregio nel caso in esame in riferimento alla condotta di concorso morale contestata all'imputato M..

In linea di principio il dolo eventuale non è incompatibile con una attività ìstigatrice connessa ad un reato a consumazione anticipata o di pericolo, quale è la falsa testimonianza, punita a titolo di dolo generico, come questa S.C. ha ritenuto per altri reati di pericolo previsti dal codice penale (v. Cass. Sez. 4, 5.5.2011 n. 36626 Mazzei, rv. 251428). Ora, precisato che la falsa testimonianza è un reato di pericolo concreto e non presunto, perchè -come si è evidenziato- non ogni discostamento del testimone dal vero è punibile (ma solo quello che risulti ex ante pertinente e rilevante nel processo a quo), rimane pur sempre l'insuperabile l'esigenza della prova della condotta di messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice e del corrispondente elemento soggettivo, anche nella possibile sua forma di accettazione del rischio del verificarsi dell'evento lesivo non direttamente voluto sebbene prefigurato dal soggetto agente. Prova di cui deve constatarsi la totale assenza nel caso dell'imputato M., la categoria del dolo eventuale non potendo costituire un indebito surrogato della mancata dimostrazione del dolo generico.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i fatti non sussistono.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2012

 

Per una migliore comprensione dei compensi fatti, una delle tante ricostruzioni dei fatti riassunti da Alessandra Fava – il manifesto, 29 Maggio 2012 (estratto)

Gianni De Gennaro, già sottosegretario alla presidenza del consiglio (..), già direttore delDipartimento delle informazioni per la sicurezza, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, capo di gabinetto del ministero dell’interno, nonché capo della polizia ai tempi del G8 genovese, non ha niente a che fare con le violenze alla Dia tra il 21 e il 22 luglio 2001. Lo ha deciso in via definitiva la Cassazione dopo l’udienza del 22 novembre scorso, dove è stato prosciolto dall’accusa di induzione in falsa testimonianza dell’allora questore di Genova Francesco Colucci nel cosiddetto allegato Diaz. Con De Gennaro viene prosciolto anche l’allora capo della Digos genovese Spartaco Mortola, condannato in secondo grado a un anno e due mesi per concorso in falsa testimonianza.
Ieri la Corte ha depositato le motivazioni della sentenza: «Non si è acquisita alcuna prova o indizio di un ‘coinvolgimento’ decisionale di qualsiasi sorta da parte di De Gennaro nell’operazione Diaz». Anzi, secondo la Cassazione l’allora capo della polizia avrebbe anche raccomandato «cautela», ma senza dare alcuna indicazione operativa. Eppure che De Gennaro fosse dietro l’«operazione Diaz», la procura lo ha sospettato dall’inizio delle indagini. Ipotizzare che decine di poliziotti entrino in una scuola affidata al Genoa social forum e picchino come degli invasati senza un’ordine «dall’alto» per un magistrato appariva impensabile. E man mano che si ricostruivano gli eventi, emergevano – già in fase di inchiesta – certi particolari, come gli arresti fatti la giornata del sabato precedente alla mattanza, quando a Genova era arrivato il prefetto La Barbera. Mandato da chi se non da De Gennaro? I magistrati però non trovavano riscontri.
Il massacro però c’è stato. La Cassazione in effetti ammette che quella notte del luglio del 2011 ci fu «inusitata violenza, pur in assenza di reali gesti di resistenza, nei confronti delle persone, molte straniere, presenti per trascorrervi la notte». E rimarca che «è ben presto emerso che nessuna bottiglia incendiaria è mai stata reperita e realmente sequestrata nei locali della scuola Pertini in possesso dei manifestanti ivi tratti in arresto». Quelle due bottiglie di Colli Piacentini e Merlot mostrate subito ai giornalisti in questura, erano dunque le bottiglie trovate in corso Italia dal vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, messe in un Magnum a disposizione del capo dei reparti mobili Valerio Donnini e poi portate alla Diaz dal vicequestore Pasquale Troiani. Tutti fatti svelati da un filmato in cui si vedono i massimi gradi della polizia italiana trafficare dentro un sacchetto blu.
L’inchiesta bis nasce proprio da quelle bottiglie. A gennaio del 2007 la procura genovese dovrebbe mostrare le bottiglie in udienza e invece scopre che dopo aver soggiornato prima negli uffici del nucleo artificieri della questura e poi nel laboratorio della polizia scientifica, sarebbero state distrutte «per sbaglio» nel settembre 2006 e decide di intercettare alcuni poliziotti. Proprio Colucci parlando con un poliziotto coinvolto nella sparizione delle molotov e mai identificato, dice di «essere pronto a rispondere come dice il capo» in vista di un’udienza del 3 maggio 2006. Così Colucci rivede le versioni al processo: prima dice che fu De Gennaro a «dirmi di chiamare alla Diaz Sgalla» (all’epoca era il capo ufficio stampa della polizia), poi dice che fu una sua iniziativa. Ma secondo la Cassazione il capo della polizia «ben più agevolmente e con l’autorevolezza del suo ruolo avrebbe potuto mettersi in contatto con Sgalla senza l’intermediazione del questore». Così scompare per l’attuale sottosegretario la condanna in secondo grado a 16 mesi di reclusione del 17 giugno 2010. Su questo punto la Cassazione ha bocciato senza rinvio tutte le tesi accusatorie, rimarcando l’«illogicità dell’assunto del pm nel malcelato tentativo di riportare nella vicenda Diaz un quadro di parallela responsabilità metagiuridica del capo della polizia, nei cui confronti non si è acquisita alcuna prova» oltre alla «farraginosa tesi della decisività dei dati relativi all’invio di Sgalla alla Diaz».