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Giudice può fare domande suggestive, ma non nocive (Cass. 21627/15)

25 maggio 2015, Cassazione penale e Nicola Canestrini

Il divieto di porre domande suggestive nell'esame testimoniale non opera con riguardo al giudice, il quale può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l'accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive: sul piano logico può essere realmente suggestivo nell'esame - cioè andare oltre i limiti fisiologici della mera domanda di chiarimento nel caso di dichiarazioni equivoche - solo chi non è terzo.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Sent., (ud. 15/04/2015) 25-05-2015, n. 21627

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo - Presidente -

Dott. ORILIA Lorenzo - Consigliere -

Dott. GRAZIOSI Chiara - rel. Consigliere -

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere -

Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

E.S. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 385/2014 CORTE APPELLO di ANCONA, del 29/05/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 15/04/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IZZO Gioacchino, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per la parte civile, Avv. Na Gi di Macerata.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 29 maggio 2014 la Corte d'appello di Ancona ha respinto l'appello proposto da E.S. avverso sentenza del 5 novembre 2013 con cui il Tribunale di Macerata lo aveva condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione per il reato di cui all'art. 609 quater c.p., per avere indotto una dodicenne a un rapporto sessuale completo con lui.

2. Ha presentato ricorso l'imputato, sulla base di tre motivi.

Il primo motivo denuncia violazione dell'art. 499 c.p.p., comma 3, inattendibilità della parte offesa A.M. e travisamento della prova. Le dichiarazioni della parte offesa sono state raccolte in incidente probatorio dal gip, il quale, in violazione dell'art. 499, comma 3, non avrebbe rispettato il divieto di domande suggestive, inducendo la vittima a dichiarare che l'imputato si abbassasse la cerniera dei calzoni. In realtà, dalle dichiarazioni rese in dibattimento dalla ginecologa che aveva visitato poche ore dopo i fatti la vittima, dottoressa D.V. E., non emergeva che vi fosse stato un rapporto sessuale. Vi sarebbe quindi stata inattendibilità o comunque contraddittorieta intrinseca ed estrinseca della parte, le cui dichiarazioni sarebbero inutilizzabili per la violazione del divieto di effettuare domande suggestive.

Il secondo motivo lamenta il rigetto della richiesta perizia sulla capacità testimoniale della persona offesa, nonchè la mancata esecuzione di un tampone vaginale che avrebbe consentito di individuare il DNA riconducibile "all'eventuale responsabile della narrata violenza".

Il terzo motivo, infine, denuncia vizio motivazionale ancora in relazione alla mancata effettuazione del tampone vaginale e del relativo test del DNA, avendo al riguardo la corte territoriale fornito una motivazione contraddittoria e comunque insufficiente.

Le parti civili costituite, A.A. e L. L. - parti civili in qualità di titolari della responsabilità genitoriale sulla figlia minore A.M. - sono comparse in udienza, depositando memoria difensiva nella quale hanno argomentato per il rigetto del ricorso o anche la dichiarazione di sua inammissibilità.

Motivi della decisione
3

. Il ricorso è infondato.

3.1.1 Il primo motivo costituisce la sostanziale riproposizione di una doglianza già presentata in atto d'appello, laddove si contestava l'attendibilità della persona offesa perchè, nell'incidente probatorio, avrebbe dichiarato che, per commettere l'atto sessuale, l' E. non si era spogliato, nè si era abbassato i pantaloni, solo a seguito delle contestazioni del gip affermando che se ne era abbassata la cerniera.

La corte territoriale ha confutato la doglianza osservando che il racconto della vittima "è sicuramente intrinsecamente verosimile e coerente anche nella parte in cui M. riferisce che l' E. non si era spogliato, con ciò intendendo che non si era tolto nè abbassato i pantaloni, ma tanto non esclude che abbia potuto denudare il membro per attuare la penetrazione (abbassandosi la cerniera, come riferito dalla p.o.)". A ciò può aggiungersi che, visto il tenore delle dichiarazioni della vittima, laddove affermava che l'imputato non si era spogliato ma aveva comunque commesso la penetrazione, la domanda del gip non può intendersi come domanda suggestiva, bensi come una mera richiesta di chiarimento.

Si nota - ad abundantiam, non essendovi stata, appunto, una vera e propria domanda suggestiva - che, visto il chiaro dettato dell'art. 499, comma 3, per cui le domande suggestive sono vietate "nell'esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune", la giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna che "il divieto di porre domande suggestive nell'esame testimoniale non opera con riguardo al giudice, il quale può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l'accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive" (così da ultimo Cass. sez. 1, 17 settembre 2014 n. 44223; conforme Cass. sez. 3, 20 maggio 2008 n. 27068).

Sulla stessa linea Cass. sez. 3, 12 dicembre 2007-30 gennaio 2008 n. 4721 chiarisce la ratio della norma osservando che il divieto di domande suggestive vale per chi ha un interesse comune al teste, ovvero si applica nell'esame di teste condotto dalla parte che può avere un tale interesse, e non invece nel caso di controesame oppure nel caso d'esame condotto direttamente dal giudice, perchè in questi due casi non vi è il rischio di un precedente accordo tra il teste e l'esaminante. In effetti, considerato anche il fatto che proprio al giudice davanti al quale si forma la prova deve essere proposta l'eccezione di suggestività della domanda, al giudice dei gradi seguenti competendo solo il vaglio della motivazione di accoglimento o di rigetto dell'eccezione (Cass. sez. 6, 10 marzo 2011 n. 13791; Cass. sez. 3, 23 ottobre 2008 n. 47084; Cass. sez. 1, 31 maggio 2005 n. 22204), ritenere come diretto al giudice il divieto di domande suggestive è un non senso, perchè il giudice, in quanto tale, agisce in un'ottica di terzietà.

Sussiste d'altronde un minoritario orientamento - richiamato nel motivo - che estende anche al giudice detto divieto nel caso d'esame di un minore (Cass. sez. 3, 18 gennaio 2012 n. 7373 - pure per il suo ausiliario - e Cass. sez. 3, 11 maggio 2011 n. 25712), ma rimane peraltro condivisibile l'orientamento maggioritario, dal momento che sul piano logico può essere realmente suggestivo nell'esame - cioè andare oltre i limiti fisiologici della mera domanda di chiarimento nel caso di dichiarazioni equivoche - solo chi non è terzo, e sul piano strettamente giuridico il dettato dell'art. 499, comma 3 è inequivoco.

In claris non fit interpretatio: dinanzi a una norma il cui contenuto non lascia spazio ad una pluralità di diverse interpretazioni, essendo dotata di un tenore letterale del tutto chiaro, non è configurabile nè una interpretazione che con tale lettera contrasti, nè una sorta di "correzione" ermeneutica che introduca nell'unico significato della norma significati ulteriori, amplificandone l'ambito di applicazione non attraverso un metodo analogico, bensì, appunto, attraverso un'operazione modificativa e correttiva.

Invero, la prima delle due sentenze richiamate nel motivo in esame (Cass. sez. 3, 11 maggio 2011 n. 25712) supporta il divieto delle domande suggestive per il giudice mediante l'art. 498 c.p.p., comma 4, che eliderebbe, per l'esame testimoniale del minore, l'esame e il controesame ad opera delle parti, conseguentemente "trasferendo" il divieto a chi effettua l'esame, cioè al giudice.

Ma, a ben guardare, la tutela del contraddittorio - diversamente, la norma patirebbe una manifesta incostituzionalità - permane anche in questo caso, nel quale il giudice - a parte naturalmente il suo potere generale di cui all'art. 506, comma 2 - ha soltanto la funzione di filtro preventivo (anticipazione, dettata dalla peculiarità della persona esaminata, di quello che ordinariamente viene effettuato ai sensi dell'art. 499 c.p.p., commi 4 e 6), dal momento che l'esame è da lui condotto "su domande e contestazioni proposte dalle parti". Il divieto di cui all'art. 499, comma 3, anche a prescindere dall'assenza in esso di riferimento letterale al giudice, non si estende dunque a quest'ultimo, bensì rimane destinato a disciplinare esclusivamente l'attività delle parti nella formazione della prova dichiarativa.

Quanto poi alla correlazione "alle esigenze di avere una testimonianza affidabile" presente nella motivazione dell'arresto invocato - ove si argomenta che le testimonianze dei minori affidabili non sono, perchè da studi sulla memoria infantile risulterebbe che i bambini imitano gli adulti e mentono inconsapevolmente -, è sufficiente ricordare che il minore non coincide con l'infante o comunque con un bambino di età tale da non rendersi conto se quel che dichiara è vero o falso, non essendo ancora entrato nella c.d. età della ragione. Siffatte considerazioni, quindi (che peraltro non legittimerebbero una "correzione" della norma da parte dell'interprete, bensì, semmai, la richiesta dell'intervento del giudice delle leggi su una norma che non garantirebbe, allora, il diritto alla difesa dell'imputato), attengono alle testimonianze di soggetti ancora nella prima infanzia, laddove, nel caso di specie, si tratta di una preadolescente dodicenne: il che vieppiù conferma, sotto il profilo della non pertinenza, che non sussistono i presupposti per aderire alla giurisprudenza invocata dal ricorrente.

3.1.2 Sempre nel primo motivo il ricorrente, dopo avere prospettato infondatamente, come si è rilevato, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni della vittima che sarebbero state di risposta a domanda suggestiva, adduce altresì "una evidente inattendibilità/contraddittorietà intrinseca ed estrinseca" delle dichiarazioni stesse, perchè il completo atto sessuale che la vittima dichiara di avere subito non sarebbe compatibile con l'esito della visita ginecologica effettuata poche ore dopo, in considerazione delle dichiarazioni testimoniali rese dalla ginecologa che l'ha effettuata, dottoressa D.V.E., secondo la quale non vi era segno di rapporto sessuale, neppure come microlesioni vaginali, e non vi erano segni recenti sull'imene.

Questa doglianza è posta evidentemente su un piano fattuale, perchè concerne il confronto di due deposizioni testimoniali al fine di valutare l'attendibilità di una di esse, e cioè quella della vittima. Peraltro, rappresentando ancora una volta la riproposizione di una censura già prospettata nel gravame di merito, non può non rilevarsi che il giudice d'appello ha adeguatamente affrontato questa apparente discrasia, con una motivazione congrua ed esente da manifeste illogicità.

Osserva infatti il giudice d'appello che la ginecologa nella testimonianza non solo aveva riferito di non avere riscontrato le cosiddette microlesioni vaginali, cioè i segni della violenza sessuale, ma altresì aveva dichiarato che "la ragazza aveva già avuto rapporti sessuali, attesa la totale mancanza della membrana dell'imene", non escludendo in tal modo che avesse potuto avere poche ore prima rapporti sessuali, e anzi lasciando intendere che proprio in conseguenza del mancato riscontro di tracce non di un rapporto sessuale in sè, bensì di un rapporto sessuale violento, non aveva eseguito un tampone vaginale.

La corte territoriale definisce comunque questa condotta "una evidente leggerezza del sanitario trattandosi di minore degli anni quattordici", ma da atto che la ginecologa era stata anche influenzata dall'aver appreso che i genitori della minore avevano prenotato l'esecuzione di un tampone vaginale per il giorno dopo a causa della vaginite da cui era affetta all'epoca la loro figlia.

Inquadra poi la corte le dichiarazioni della ginecologa sull'assenza di violenza proprio nel racconto della parte offesa, da cui risultava che questa aveva subito l'atto imprevisto dell'imputato in alcun modo "non riuscendo a reagire perchè aveva paura".

Il primo motivo del ricorso, quindi, risulta in ogni sua doglianza infondato.

3.2.1 Il secondo motivo si connette a quella inattendibilità delle dichiarazioni della vittima che il ricorrente reputa di avere dimostrato con le argomentazioni del primo motivo, lamentando ora, alla luce di questa pretesa inattendibilità, il diniego di perizia - chiesta dalla difesa sia in primo che in secondo grado - sulla capacità a testimoniare della persona offesa, perizia che avrebbe dovuto valutare anche la presenza di un disturbo di "pseudologia fantastica in persona affetta da disturbi dissociativi della personalità", il che significherebbe "tendenza a mentire spesso e a credere poi nella verità delle proprie fantasie".

Lo stesso ricorrente, peraltro, ammette che "tale richiesta si basava eminentemente sulle criticità emerse a seguito del raffronto tra le dichiarazioni" della vittima e della ginecologa ovvero su ciò che è stato esaminato nel precedente motivo, dando atto dell'adeguata motivazione dell'impugnata sentenza che ha escluso reali contrasti tra le due testimonianze. Comunque la sentenza d'appello, a fronte della corrispondente richiesta versata nel gravame di merito, ha motivato congruamente anche sul profilo della perizia - che era stata chiesta come perizia psicodiagnostica integrata con perizia neuropsicologica -: dopo avere dato atto, esaminando gli ulteriori elementi del compendio probatorio, della attendibilità della parte offesa, la corte territoriale rileva che "non ricorrono i presupposti per la richiesta integrazione probatoria", perchè risulta acquisita agli atti la relazione della dottoressa A.F., psicologa psicoterapeuta nominata dal PM, relazione confermata in sede di audizione testimoniale. Affidata la valutazione psicodiagnostica ad una ulteriore esperta (dottoressa P. C.), la dottoressa A. aveva concluso nel senso della capacità di testimoniare della minore.

Va peraltro ricordato che una perizia non può mai costituire una prova decisiva: consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna invero che "la perizia non rientra nella categoria della "prova decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione" (così Cass. sez. 6, 3 ottobre 2010 n. 43526; conformi Cass. sez. 3, 19 marzo 2013 n. 19498, Cass. sez. 4, 17 gennaio 2013 n. 7444 e Cass. sez. 6, 3 ottobre 2012 n. 43526; cfr. altresì sui presupposti della disposizione di perizia in secondo grado, da ultimo, Cass. sez. 2, 15 maggio 2013 n.36630).

3.2.2 Il riferimento alla mancata assunzione di prova decisiva nel ricorso è peraltro formulato in modo non completamente chiaro, potendosi intendere - seppure come l'ipotesi di minor consistenza - come suo oggetto non la perizia bensì l'esecuzione del tampone vaginale e della conseguente analisi del DNA. Se così fosse, peraltro, il motivo non meriterebbe comunque accoglimento, non trattandosi di una prova immotivatamente negata, bensì di un accertamento che, se non effettuato nell'immediatezza, è notorio che non può dimostrare nulla.

Il secondo motivo, in conclusione, risulta anch'esso infondato.

3.3 Il terzo motivo ritorna sul profilo della mancata effettuazione del tampone vaginale e del test del DNA, denunciando vizio motivazionale sulla mancata effettuazione suddetta. In realtà, il motivo continua a fondarsi sulla presenza di "tante criticità" nelle dichiarazioni della vittima, le quali avrebbero resi necessari tali accertamenti per superare ogni ragionevole dubbio. In realtà, la corte territoriale ha motivato sulla attendibilità della vittima in modo adeguato e completo, così da condurre a escludere la fondatezza dell'asserto che era la sostanza del primo motivo di questo ricorso, cioè che il referto medico fosse incompatibile alle dichiarazioni della persona offesa. Poichè non vi è, dunque, alcun reale motivo per reputare inattendibile quanto ha dichiarato la vittima - ed è ben noto che la sua testimonianza non abbisogna di riscontri e art. 192 c.p.p., comma 3, (S.U. 19 luglio 2012 n. 41461) -, anche quest'ultimo motivo risulta infondato.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese del grado alle costituite parti civili come da dispositivo.

In caso di diffusione di questa sentenza occorre omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto dalla legge.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado in favore delle costituite parti civili A.A. e L.L., liquidate in complessivi Euro 3500 oltre a spese generali e agli accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 15 aprile 2015.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2015