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Giudice ignorante, di professionalità carente: è oltraggio (Cass. 22376/22)

8 giugno 2022, Cassazione penale

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Quando l'espressione oggettivamente ingiuriosa viene rivolta  ad un magistrato in udienza essa è scrimianta solo se non è gratuita, ma funzionale all'esercizio del diritto di difesa, non potendo costituire il mero richiamo ad esigenze difensive il pretesto per svillaneggiare impunemente le parti processuali.

Non costituiscono motivo di ricusazione asserite violazioni di legge o anche discutibili scelte operate dal giudice nella gestione del procedimento, riguardanti aspetti interni al processo risolvibili con il ricorso ai rimedi apprestati dall'ordinamento processuale

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 24/03/2022) 08-06-2022, n. 22376

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISCUOLO Anna - Presidente -

Dott. VILLONI Orlando - Consigliere -

Dott. GIORDANO Anna Emilia - Consigliere -

Dott. CALVANESE Ersilia - rel. Consigliere -

Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 21/01/2021 della Corte di appello di Caltanissetta;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;

lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. VENEGONI Andrea, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e/o infondato.

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Caltanissetta confermava la sentenza del 9 ottobre 2019 del Tribunale della stessa città che aveva condannato A.G. per il reato di cui all'art. 343 c.p..

Secondo l'ipotesi accusatoria, costui, nel corso dell'udienza del 28 ottobre 2015 tenutasi davanti al Tribunale di Agrigento, in composizione monocratica, per un procedimento penale che lo vedeva come imputato, offendeva l'onore e il decoro del magistrato giudicante, C.M., con espressioni del seguente tenore " siamo in presenza di un'ignoranza marchiana delle regole del processo di un atteggiamento vessatorio... codesto giudicante venendo in udienza con una preparazione del processo di che trattasi quantomeno approssimativo in mala fede... non manca di rilevare l'ignoranza già manifestata da codesto giudicante quando si diventa (forse è inventa) di sana pianta... manifestando sul punto un'ignoranza intollerabile... manifestando anche lì una professionalità assolutamente carente... le offese gratuitamente poste in essere da codesto giudicante".

In particolare, da quanto emerge dalle sentenze di merito, nel corso della suddetta udienza, a seguito della decisione del Giudice di non ammettere alcune domande poste dalla difesa dell'imputato avv. A., quest'ultimo prendeva la parola per effettuare a verbale le suddette dichiarazioni al dichiarato fine di voler ricusare il giudicante.

1.1. Secondo la tesi difensiva, che evocava l'applicazione dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., il discorso dell'imputato era da porsi in stretta correlazione con l'atto di ricusazione e intendeva porre in rilievo le condotte tenute dal giudice in violazione del codice, della logica, dello studio degli atti, in quel processo e in pregresse occasioni, sempre in danno dell' A., quale legale o imputato.

Con riferimento al procedimento in questione, A. intendeva dimostrare la totale mancanza di conoscenza del capo di imputazione, posto che non aveva ammesso domande del suo difensore, ritenendole estranee ai fatti.

La Corte di appello riteneva destituito di fondamento il gravame dell'imputato, in quanto le offese scriminate dall'art. 598 c.p., dovevano riguardare in modo diretto e immediato l'oggetto della controversia e non - come nella specie - essere adoperate contro la persona che rappresentava l'autorità giudiziaria (così, richiamando Cass. n. 33262 del 2016).

Le espressioni dell' A. erano state profferite con modalità irriguardose e perentorie alla stregua di un complessivo contegno irrispettoso accompagnato da un fare sprezzante e indubitabilmente denigratorio della professionalità del magistrato, così da farlo apparire svilito e mortificato da affermazioni gratuitamente infamanti e in ogni caso disancorate dalla realtà.

Gli insulti perentori e senza collegamenti puntuali a concrete argomentazioni difensive esulavano, secondo la Corte territoriale, dai limiti del legittimo diritto di critica, come anche dal diritto di difesa, là dove si erano tradotte in vere e proprie immotivate aggressioni all'onore e al decoro del magistrato in udienza e alla sua sfera professionale.

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, denunciando, a mezzo di difensore, i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 343 e 598 c.p. e alla giurisprudenza dominante della Suprema Corte, all'art. 10 CEDU e alla giurisprudenza della Corte EDU in tema di libertà di espressione verso organi giudicanti a garanzia del diritto di difesa.

L'imputazione è una abnorme estrapolazione chirurgica di frammenti di frasi dall'atto di ricusazione presentata ritualmente in udienza e comunque scriminate ai sensi dell'art. 598 c.p..

L'imputato, avvocato cassazionista, aveva ritenuto di essere stato leso da decisioni del giudice C. totalmente abnormi (aveva subito una condanna per diffamazione politica poi riformata con l'assoluzione in appello) e aveva presentato nei suoi confronti a tal fine formale atto di ricusazione ai sensi dell'art. 37 c.p.p. (il giudice aveva poi chiesto alla Corte di appello di essere autorizzato ad astenersi).

Con tale ricusazione l'imputato intendeva argomentare la sua tesi di essere stato vittima di un atteggiamento vessatorio ed ostile, di vera e propria inimicizia, facendo riferimento soltanto a condotte di natura processuale del magistrato tenute in quel procedimento e in altre udienze in cui vi erano stati contrasti, asperrimi, con il medesimo magistrato, che illuminavano in termini di inimicizia le decisioni assunte il 28 ottobre 2015 (ovvero di non consentire al difensore di rivolgere al teste fondamentale domande sui fatti diffamatori indicati nella imputazione).

Con le frasi estrapolate nell'editto accusatorio l'imputato intendeva sostenere che il Giudicante non conosceva il capo di imputazione (stante la lunghezza ed articolazione del fatto diffamatorio) o impediva domande in mala fede. Quindi si trattava di frasi rivolte esclusivamente alla conduzione dell'udienza e alle decisioni assunte dal giudice (nella specie, nel pregresso processo il medesimo giudice aveva impedito con decisione illegittima ed abnorme il diritto di replica ad A., nella veste di difensore della parte civile, ed era normale sostenere nella ricusazione che si fosse inventato di sana pianta tale regola ostativa).

La Suprema Corte ha ritenuto che anche le offese contenute in un atto di ricusazione siano scriminate ai sensi dell'art. 598 c.p.. Nella specie le frasi incriminate erano tutte relative all'oggetto della causa. Si rammenta la giurisprudenza costituzionale sul punto (sent. n. 128 del 1979) nonchè quella della Corte EDU (GC 23/04/2015, Morice c. Francia).

Per contro, la Corte di appello ha citato a sostegno della tesi accusatoria un arresto di legittimità irrilevante in quanto non riguardante gli atti difensivi.

Si fa riserva di sollevare questione di costituzionalità una volta che saranno depositate le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale la pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

3. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi del D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 23, comma 8, convertito dalla L. n.176 del 18 dicembre 2020, (così come modificato per il termine di vigenza dal D.L. n. 228 del 30 dicembre 2021), in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.

La difesa del ricorrente e lo stesso ricorrente hanno depositato con Pec del 18 marzo 2022 una memoria di replica a firma di entrambi, con la quale fanno rilevare la irrilevanza dei precedenti indicati dal Procuratore generale (in un caso neppure reperito in banca dati) e sollevano eccezione d'incostituzionalità dell'art. 343 c.p. in relazione agli artt. 117 Cost. e 10 CEDU, come pacificamente interpretato, in relazione al diritto di difesa, dalla Grande Chambre Corte EDU, citata nel ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.

2. La tesi difensiva, sostenuta nel processo di merito e ribadita nel presente ricorso, è manifestamente infondata.

Secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, perchè possa ricorrere la scriminante prevista dall'art. 598 c.p. è necessario che le espressioni ingiuriose siano adoperate in scritti o discorsi dinanzi all'autorità giudiziaria e concernano, in modo diretto ed immediato, l'oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta, quand'anche non necessarie o decisive (tra tante, Sez. 5, n. 8421 del 23/01/2019, Rv. 275620).

L'espressione oggettivamente ingiuriosa non deve essere quindi gratuita, ma deve essere funzionale all'esercizio del diritto di difesa, non potendo costituire il mero richiamo ad esigenze difensive il pretesto per svillaneggiare impunemente le parti processuali.

Come ha evidenziato la Corte costituzionale, la tutela della libertà della difesa, che potrebbe non essere efficiente se non fosse libera dalla preoccupazione di possibili incriminazioni per offese all'altrui onore e decoro, non attribuisce infatti una singolare facoltà di offendere (sent. n. 380 del 1999).

3. Sul tema dell'abuso delle facoltà difensive, si è già da tempo pronunciata la giurisprudenza di legittimità, ponendo in risalto anche i pronunciamenti delle istanze giudiziarie sovranazionali sul tema (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251496).

Il diritto di difesa trova invero il suo limite quando trasmodi "in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale" (Sez. U. civ., n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316) o si manifesti in condotte "manifestamente contrarie alla finalità per la quale il diritto è riconosciuto" e che ostacoli il buon funzionamento dell'autorità giudicante e il buono svolgimento del procedimento dinanzi ad essa (Corte EDU, Molubovs e altri c. Lettonia, p.p. 62 e 65; Corte EDU, 18/11/2011, Petrovic c. Serbia) o per far valere un diritto che confligge con gli scopi di questo (Corte U.E., 20/09/2007, Tum e Dari, p. 64; 21/02/2006, Halifax e a., e ivi citate, p. 68).

Muovendo dagli arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, la Suprema Corte nella sentenza Rossi ha enucleato la nozione di abuso del processo, quale vizio, per sviamento, della funzione, che si realizza quando l'imputato realizza uno "sviamento" della funzione dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, esercitandoli per scopi diversi da quelli per i quali gli sono riconosciuti.

4. Muovendo da tali premesse, va rilevato che nel caso in esame, come hanno rilevato concordemente i Giudici di merito, le offese pronunciate dall'imputato nei confronti del magistrato giudicante esulavano dall'ambito scriminato dall'art. 598 c.p..

In primo luogo, il ricorrente non ha dimostrato di aver presentato un formale atto di ricusazione ai sensi dell'art. 37 c.p.p.: l'art. 38 c.p.p. prevede che la dichiarazione di ricusazione sia proposta (anche personalmente) dall'imputato con atto scritto alla cancelleria del giudice competente a decidere. Le Sezioni Unite hanno ammesso la possibilità di formulare la dichiarazione in udienza per evitare di abbandonare l'udienza, ma sancendo tuttavia l'onere della parte di "formalizzare" tale dichiarazione nel termine di tre giorni rispettando le modalità previste dal codice (Sez. U, n. 36847 del 26/06/2014, Della Gatta, Rv. 260096). Senza la formalizzazione dell'atto di ricusazione (il ricorrente dichiarava infatti in udienza di voler di seguito "integrare" nei termini la ricusazione), la dichiarazione resa in udienza finisce per essere soltanto il volano di gratuite ed impunite offese prive di un aggancio a reali e effettive esigenze difensive.

In secondo luogo e in ogni caso, le offese rivolte al giudicante fuoriuscivano dalla stessa astratta possibilità di giustificare un atto di ricusazione.

Le argomentazioni poste a sostegno della dichiarazione resa in udienza si risolvevano infatti in un attacco gratuito e offensivo alla professionalità del magistrato nella conduzione dei processi (accusato di "preparazione...quantomeno approssimativa o in mala fede", di "ignoranza evidente" e di "professionalità assolutamente carente"), sol per questo ipotizzando una "conclamata inimicizia grave" a giustificazione della dichiarazione resa in udienza.

Non costituiscono invero motivo di ricusazione asserite violazioni di legge o anche discutibili scelte operate dal giudice nella gestione del procedimento, riguardanti aspetti interni al processo risolvibili con il ricorso ai rimedi apprestati dall'ordinamento processuale (Sez. 5, n. 11968 del 26/02/2010, Rv. 246557).

Il sentimento di grave inimicizia, rilevante per la ricusazione, deve essere reciproco e deve trarre origine da rapporti di carattere privato, estranei al processo, non potendosi desumere dal mero trattamento riservato in tale sede alla parte (Sez. 6, n. 22540 del 13/03/2018, Rv. 273270), salvo che presenti aspetti "talmente anomali e settari" da costituire momento dimostrativo di una inimicizia maturata all'esterno. Quanto al carattere anomalo o settario, è necessario che la condotta processuale manifesti ex se, per l'eccentricità e la evidente connotazione discriminatoria, un sentimento gravemente negativo in danno della parte processuale, tale da rivelare l'esistenza di una avversione ad hominem maturata in conseguenza di fatti estranei al processo, e di cui il medesimo processo costituisca occasione di esternazione (Sez. 5, n. 12511 del 10/02/2020).

Ebbene, nessuna di questi aspetti era stato allegato con la dichiarazione orale resa dal ricorrente all'udienza del 28 ottobre 2015, avendo questi soltanto denunciato la ignoranza e impreparazione del giudicante, nel non ammettere in quel caso le domande,a suo avviso pertinenti con i fatti e in un caso pregresso le repliche della parte civile, e colorando il tutto con un generico richiamo ad una non meglio indicata nota sottoscritta dal magistrato al Consiglio dell'Ordine.

E' appena il caso di rammentare che, ai fini della ricusazione, le dichiarazioni e le denunce di un imputato contro il giudice preposto a giudicarlo devono essere sorrette da un apprezzabile coefficiente di concretezza e serietà essendo a tutti chiaro che dare corpo a deduzioni, impressioni e fantasticherie, insinuatesi in buona o in mala fede nell'animo del solo ricusante, significherebbe esporre la trattazione di ogni procedimento al rischio di venire paralizzata per mera volontà ed arbitrio di chi non reputasse il giudicante di proprio gradimento (Sez. 6, n. 3249 del 22/09/1995, Rv. 202729).

In definitiva, siamo in presenza di offese prive di evidente connessione strumentale con l'atto difensivo che in astratto avrebbe dovuto scriminarle, risultando soltanto il mero pretesto per rivolgere al giudicante un attacco personale.

5. La manifesta infondatezza dei motivi principali travolge, secondo quanto prevede l'art. 585 c.p.p., comma 4, ult. parte, i motivi nuovi proposti con la memoria di replica.

E' solo appena il caso di aggiungere che, una volta esclusa nel caso in esame l'applicazione dell'esimente dell'art. 598 c.p. (e quindi che la condotta contestata sia stata funzionale all'esercizio di difesa), vengono meno all'evidenza i profili di incostituzionalità evocati dal ricorrente con riferimento alla norma incriminatrice.

Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento a favore della Cassa delle Ammende della somma a titolo di sanzione pecuniaria, che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro tremila.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2022