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Giudice e Governo, quale ruolo nella Convenzione di Strasburgo (Cass. 57806/17)

28 dicembre 2017, Cassazione penale

La deliberazione dell'autorità giudiziaria, prevista dall'art. 743, si inserisce in un complesso procedimento teso alla stipulazione, con il consenso del condannato, di un accordo di cooperazione in materia penale, all'interno del quale al Ministro di Grazia e Giustizia sono riservate le valutazioni discrezionali e di opportunità riguardanti l'esecuzione all'estero della pena, mentre alla corte di appello è affidato il controllo di legalità di tale accordo attraverso la verifica dell'osservanza delle condizioni prescritte dalle fonti normative internazionali ed interne.

La Convenzione di Strasburgo demanda la concreta regolamentazione della procedura di trasferimento all'estero del condannato alla conclusione di un accordo bilaterale di cooperazione giudiziaria in materia penale tra i due Stati, quello di condanna e quello di esecuzione, la cui stipulazione ed il cui contenuto precettivo rientra nei poteri discrezionali delle autorità ministeriali.

Lo spazio di intervento regolamentativo rimesso alla legislazione interna consente di configurare nel caso di coinvolgimento dell'Albania una procedura che prevede la pronuncia giurisdizionale, obbligatoria e preliminare, della Corte di appello nel cui distretto sia stato reso il verdetto definitivo di condanna.

La verifica ad essa demandata riguarda le condizioni legittimanti il trasferimento all'estero della persona condannata alla stregua dei parametri valutativi dettati dall'art. 3, p. 1, della Convenzione del 1983, -cittadinanza dello Stato di esecuzione; definitività della sentenza; limite di durata della pena da scontare non inferiore a sei mesi; consenso del condannato al suo trasferimento; doppia incriminazione; accordo fra lo Stato di condanna e quello di esecuzione, l'inesistenza di impedimenti di ordine generale all'esecuzione della condanna secondo le limitazioni di cui all'art. 744 c.p.p. e l'adeguatezza della pena indicata dal Governo estero rispetto alla condanna inflitta ed agli specifici criteri dettati dalla citata Convenzione agli artt. 9 e 10 in ordine alla facoltà dello Stato di esecuzione di optare tra prosecuzione dell'esecuzione e conversione della condanna.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 29/09/2017) 28-12-2017, n. 57806

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZEI Antonella P. - Presidente -

Dott. SIANI Vincenzo - Consigliere -

Dott. SARACENO Rosa Anna - Consigliere -

Dott. ROCCHI Giacomo - rel. Consigliere -

Dott. BONI Monica - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.L. nato il (OMISSIS);

avverso l'ordinanza del 30/09/2016 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

sentita la relazione svolta dal Consigliere BONI MONICA. Lette le conclusioni del PG Dott. ROMANO Giulio che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo


1. Con ordinanza in data 30 settembre 2016, la Corte d'appello di Bologna, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, respingeva l'istanza, proposta nell'interesse del condannato L.L., di rettifica del provvedimento di unificazione di pene concorrenti del 24/01/2013, adottato dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Bologna, col quale si è posta in esecuzione la sentenza di condanna, pronunciata a carico dello stesso L. dalla Corte di Assise di appello di Milano in data 21/4/2004, irrevocabile il 4/2/2005, che lo aveva condannato alla pena finale di anni 8, mesi 1 di reclusione ed Euro 1.500,00 di multa.

1.1 A fondamento della decisione il giudice dell'esecuzione rilevava che il dedotto riconoscimento in Albania della sentenza di condanna, emessa dall'autorità giudiziaria italiana, è avvenuto in modo parziale in riferimento soltanto ad alcuni reati giudicati, non essendo i restanti previsti come tali nell'ordinamento giuridico albanese ed essendo stata disposta, per quelli riconosciuti, l'estinzione della pena; riteneva comunque irrituale il procedimento per l'assenza della necessaria previa deliberazione favorevole all'esecuzione all'estero della Corte di appello, nel cui distretto era stata pronunciata la condanna.

2. Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso l'interessato a mezzo del suo difensore, il quale ne ha chiesto l'annullamento per inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 696 c.p.p., agli artt. 743 e 746 c.p.p., ed alla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983.

Secondo la difesa, la Corte d'appello di Bologna ha omesso di considerare quanto disposto dall'art. 696 c.p.p., il quale stabilisce con riferimento ad alcune materie la prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale generale sulle norme interne, cui va assegnata una funzione integratrice e residuale di riempimento degli spazi lasciati liberi perchè non regolamentati dalla normativa internazionale, sia essa pattizia o meno (Cass., sez. 6 12 luglio 2004, rv. 230014; Cass., sez. 1, 10 ottobre 2003, rv. 227051). La Suprema Corte ha statuito che, nel caso di domanda di esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva in uno Stato con il quale vige la convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, alla Corte di appello spetta solo l'accertamento delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento ai sensi dell'art. 3 della convenzione medesima, riconoscendo che le disposizioni di cui agli artt. 742 e 743 c.p.p. trovano applicazione solo in assenza di norme internazionali che regolino diversamente la materia.

Nel caso del L., trovandosi egli in Albania, non si è posta la necessità di ottenere la previa deliberazione della Corte d'appello di Milano per l'implicito rispetto dei requisiti richiesti dall'art. 3 della Convenzione di Strasburgo, già vagliato dal Ministero della Giustizia italiano al momento della richiesta di riconoscimento alle autorità albanesi, come deducibile dalla nota dello stesso Ministero del 31/03/2010, nella quale si affermava che "in seguito alla richiesta di esecuzione pena in Albania formulata da questo Ministero, le Autorità albanesi hanno riconosciuto la sentenza di condanna emessa dalla Corte d'Assise d'appello di Milano il 21.04.2004 ed hanno emesso ordine di esecuzione nei confronti del nominato in oggetto in data 22.04.2009" (doc. 2). Pertanto, alcun onere imposto dall'art. 743 c.p.p., gravava sull'organo ministeriale o sull'autorità che cura l'esecuzione.

Anche in ordine all'ulteriore censura, relativa al "parziale" riconoscimento della sentenza italiana in Albania, il giudice dell'esecuzione ha omesso la valutazione degli artt. 8, p. 2, 9, p. 3, 10, p. 2, della Convenzione di Strasburgo del 1983, secondo i quali l'esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione, che è l'unico competente a prendere ogni decisione al riguardo, a regolare il trattamento della persona trasferita secondo le sue leggi e le sue procedure e ad adattare la sanzione alla pena o misura prevista dalla propria legge interna per lo stesso tipo di reato, con la conseguenza che lo Stato di condanna non può più eseguire la pena se lo Stato di esecuzione considera che l'esecuzione della pena è stata completata. Di conseguenza lo Stato di condanna deve preliminarmente acquisire presso lo Stato di esecuzione le informazioni necessarie circa l'avvenuta, completa espiazione della pena; nè può trarre in inganno la locuzione dell'art. 746 c.p.p., che invoca l'"espiazione" per intero della pena perchè riferita all'"esecuzione" prevista dal sopracitato paragrafo 2 dell'art. 8 della Convezione; nel linguaggio convenzionale, per espiazione si intende la conclusione dell'iter procedimentale esecutivo, indipendentemente dall'espiazione effettiva della pena. Infatti, l'art. 12 della stessa Convezione stabilisce che "ogni parte può accordare la grazia, l'amnistia o la commutazione della pena conformemente alla sua Costituzione o alle sue altre regole giuridiche".

In definitiva, potrebbe ritenersi carente la trasmissione dell' "informazione riguardante l'esecuzione" che lo Stato d'esecuzione, ossia l'Albania, doveva fornire allo Stato di condanna, una volta terminata l'esecuzione, mancanza sanata dalla difesa con la produzione diretta della sentenza del Tribunale di Valona del 29/5/2009, pur non essendo onere del condannato attivare la procedura esecutiva.

In ordine ai rapporti tra la regola stabilita dall'art. 9, par. 3 e il vincolo posto dall'art. 10 per lo Stato di esecuzione di rispettare la quantità di pena imposta dallo Stato di condanna, la Suprema Corte ha in più occasioni affermato che, se va rispettata la "durata della sanzione" nell'adattamento della pena, per le modalità di trattamento penitenziario e per le misure ad esso relative nella fase dell'esecuzione deve tuttavia applicarsi la normativa vigente nello Stato di esecuzione (Cass., sez. 1, 30 marzo 1999, Di Carlo, rv. 213490; Cass. sez. 6, 7 ottobre 2003 n. 42996, Mazzucchetti, rv. 228190), con l'unico limite del divieto di applicare sanzione più grave per natura o durata, mentre non esiste alcuna preclusione ad imporre una pena in misura meno grave rispetto a quella dello Stato di condanna (Cass. sez. 6, 13 gennaio 1999 n. 180, P.G. in proc. van Dijck, rv. 212568).

L'art. 8, par. 2, della Convenzione consente di ritenere che possa esservi differenza in melius per il condannato in forza della applicazione di una eventuale disciplina di favore dello Stato di esecuzione in relazione alla pena inflitta, da realizzarsi anche contro la volontà dello Stato di condanna mentre l'art. 9, par. 3, prevede che: "l'esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione" e che "questo Stato è l'unico competente a prendere ogni decisione al riguardo", norma apprezzata anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 73 del 22 marzo 2001. Ed ancora, l'art. 10, par. secondo, testualmente sancisce che ".... se la sua legge lo esige" lo Stato di esecuzione "può, per mezzo di una decisione giudiziaria o amministrativa, adattare la sanzione alla pena o misura prevista dalla propria legge in tema per lo stesso tipo di reato".

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, dr. Giulio Romano, ha chiesto il rigetto del ricorso.

4. Con memoria pervenuta in data 12 settembre 2017 la difesa ha proposto dei motivi aggiunti, con i quali ha ulteriormente illustrato i motivi di ricorso ed analizzato i precedenti giurisprudenziali richiamati, sostenendo che, anche quando le disposizioni convenzionali non regolino un aspetto della vicenda, tanto non autorizza l'applicazione delle norme interne, dovendosi verificare caso per caso quando il diritto interno integri l'accordo internazionale, oppure modifichi unilateralmente la disciplina pattizia.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e non merita dunque accoglimento.

1. La questione di diritto sollevata con l'impugnazione all'odierno esame ha già ricevuto appropriata e ben argomentata soluzione nel provvedimento impugnato, che ha offerto corretta applicazione delle norme della Convenzione di Strasburgo del 21/3/1983 e dell'art. 743 c.p.p..

A base della decisione negativa espressa in ordine alla richiesta del condannato è stato dedotto un duplice ordine di ragioni, delle quali è preliminare ed assorbente, ad avviso di questo Collegio, la constatazione della mancata preventiva deliberazione della corte di appello, nel cui distretto è stata pronunciata la condanna da eseguire, favorevole all'esecuzione all'estero della pena inflitta dall'autorità giudiziaria italiana. In senso contrario il ricorrente assume la superfluità di tale pronunciamento, perchè per implicito già compiuto dal Ministero della Giustizia all'atto della formulazione della richiesta di riconoscimento della sentenza di condanna, emessa a carico del L. dalla Corte di Assise di appello di Milano, rivolta alle autorità albanesi: lo deduce dalla nota dello stesso Ministero del 31/03/2010, dalla quale trae spunto per sostenere che "le condizioni contemplate nell'art. 3 della Convenzione attengono a dei limiti logico/giuridici di portata generale, che sicuramente sono stati vagliati e presi in considerazione dallo stesso Ministero della Giustizia italiano al momento della richiesta di riconoscimento alle autorità albanesi", che ha attivato di sua iniziativa l'intera procedura senza che alcun onere gravasse sul condannato o sul procuratore generale.

1.1 Il corredo argomentativo posto a fondamento della prima censura mossa dal ricorrente è frutto di una lettura opinabile e non condivisibile della disciplina del procedimento di esecuzione all'estero di pena detentiva, inflitta dall'autorità giudiziaria italiana, e non si confronta compiutamente con le avversate osservazioni del provvedimento di cui sollecita l'annullamento.

1.2 E' pacifico che la materia del trasferimento all'estero della persona condannata ha ricevuto regolamentazione nella Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, la quale stabilisce all'art. 2, p. 2, nell'ambito dei principi generali, che: "2. Una persona condannata sul territorio di una Parte può, conformemente alle disposizioni della presente Convenzione, essere trasferita nel territorio di un'altra Parte per subirvi la condanna inflittale. A tal fine può esprimere, sia presso lo Stato di condanna, sia presso lo Stato di esecuzione, il desiderio di essere trasferita in virtù della presente Convenzionel all'art. 3 detta poi le condizioni del trasferimento nei seguenti termini: "1. Un trasferimento può aver luogo secondo la presente Convenzione soltanto alle seguenti condizioni: a. il condannato deve essere cittadino dello Stato d'esecuzione; b. la sentenza deve essere definitiva; c. la durata di condanna che il condannato deve ancora subire deve essere di almeno sei mesi alla data di ricezione della domanda di trasferimento, o indeterminata; d. il condannato o, qualora uno dei due Stati lo ritenesse necessario a causa della sua età o del suo stato fisico o mentale, il suo rappresentante deve consentire al trasferimento; e. gli atti o le omissioni che hanno provocato la condanna devono costituire un reato per il diritto dello Stato d'esecuzione, o dovrebbero costituirne uno qualora avvenissero sul suo territorio; f. lo Stato di condanna o lo Stato di esecuzione devono essersi accordati su tale trasferimento". Le disposizioni che seguono le due norme citate riguardano: l'obbligo di fornire informazioni; domande e risposte; atti a sostegno; consenso e verifica; conseguenze del trasferimento per lo stato di esecuzione e per quello di condanna; prosecuzione dell'esecuzione e conversione della condanna; grazia, amnistia, commutazione della pena; cessazione dell'esecuzione; informazioni sull'esecuzione. Può concludersi che l'assetto normativo della Convenzione si limita ad individuare solo alcune condizioni formali per avanzare la domanda di esecuzione all'estero e per acconsentire alla richiesta in tal senso formulata dallo Stato straniero.

La rassegna delle fonti normative rilevanti per la soluzione del caso deve annoverare anche la L. n. 334 del 1988, che ha dato attuazione alla predetta Convenzione nell'ordinamento italiano e la L. 3 luglio 1989, n. 257, introduttiva di disposizioni per l'attuazione di convenzioni internazionali aventi ad oggetto l'esecuzione delle sentenze penali, la quale, all'art. 5, comma 1, dispone: "L'esecuzione all'estero di una sentenza di condanna non è ammessa se non vi è stata deliberazione favorevole della corte di appello nel cui distretto fu pronunciata la condanna. A tale scopo il ministro di grazia e giustizia trasmette gli atti al procuratore generale affinchè promuova il procedimento davanti alla corte di appello". Tale previsione dal tenore chiaro e preciso, che ricalca quanto stabilito dall'art. 743 c.p.p., comma 1, non ha subito alcuna deroga ad opera di altre disposizioni convenzionali successive e non si pone nemmeno in contrasto con l'Accordo integrativo aggiuntivo della convenzione del 1983, stipulato tra Italia ed Albania in data 24 aprile 2002, ratificato dall'ordinamento nazionale con la L. n. 204 del 2003.

1.3 Tanto premesso, si concorda sull'assunto preliminare del ricorrente circa la funzione soltanto integratrice e residuale rispetto alla disciplina normativa dettata dagli accordi internazionali in materia di esecuzione all'estero della sentenza penale, assegnata alle disposizioni di cui agli artt. 742 e 743 c.p.p. e stabilita in via generale dall'art. 696 c.p.p.: le stesse sono oggetto di applicazione soltanto quando la regolamentazione pattizia sia priva di espresse previsioni, oppure se non disponga diversamente. E tale basilare concetto non risulta smentito nemmeno nel provvedimento impugnato. Non possono però condividersi le conseguenze che la difesa pretende di ricavare da tale premessa, ossia che spetti soltanto all'autorità ministeriale nelle sue interlocuzioni con l'autorità estera governare il procedimento in base a proprie discrezionali e non verificabili determinazioni.

In primo luogo, l'obiezione mossa dal ricorrente non indica quale specifica disposizione convenzionale deroghi alla previsione della L. n. 257 del 1989, citato art. 5, comma 1, e delinei una fisionomia legale del procedimento, divergente da quella individuata dalla Corte distrettuale.

Sotto altro profilo pare confondere le funzioni istituzionali assegnate nella materia all'autorità amministrativa ed a quella giudiziaria. Sebbene la Convenzione di Strasburgo demandi la concreta regolamentazione della procedura di trasferimento all'estero del condannato alla conclusione di un accordo bilaterale di cooperazione giudiziaria in materia penale tra i due Stati, quello di condanna e quello di esecuzione, la cui stipulazione ed il cui contenuto precettivo rientra nei poteri discrezionali delle autorità ministeriali, lo spazio di intervento regolamentativo rimesso alla legislazione interna e, per quanto qui rileva, colmato con l'Accordo aggiuntivo con l'Albania e con la successiva legge attuativa, ha consentito di configurare una procedura che prevede la pronuncia giurisdizionale, obbligatoria e preliminare, della Corte di appello nel cui distretto sia stato reso il verdetto definitivo di condanna. La verifica ad essa demandata riguarda le condizioni legittimanti il trasferimento all'estero della persona condannata alla stregua dei parametri valutativi dettati dall'art. 3, p. 1, della Convenzione del 1983, -cittadinanza dello Stato di esecuzione; definitività della sentenza; limite di durata della pena da scontare non inferiore a sei mesi;

consenso del condannato al suo trasferimento; doppia incriminazione; accordo fra lo Stato di condanna e quello di esecuzione, l'inesistenza di impedimenti di ordine generale all'esecuzione della condanna secondo le limitazioni di cui all'art. 744 c.p.p. e l'adeguatezza della pena indicata dal Governo estero rispetto alla condanna inflitta ed agli specifici criteri dettati dalla citata Convenzione agli artt. 9 e 10 in ordine alla facoltà dello Stato di esecuzione di optare tra prosecuzione dell'esecuzione e conversione della condanna (Cass. sez. 6, n. 180 del 13/01/1999, van Dijk,rv. 212568).

Nè può ritenersi che la deliberazione favorevole sia frutto di mera constatazione dei presupposti richiesti, che dia suggello, quasi notarile, alla volontà espressa dall'interessato o dallo Stato di condanna tramite la sua autorità amministrativa di vertice: la verifica delle molteplici condizioni pretese implica un accertamento da condurre con gli ordinari poteri cognitivi del giudice di merito, non superabile o surrogabile con eventuali apprezzamenti positivi, condotti da organi di un diverso potere dello Stato.

Va dunque ribadito quanto già statuito da questa Corte con mirabile chiarezza e condivisibile analisi del sistema normativo vigente, ossia che "la deliberazione dell'autorità giudiziaria, prevista dall'art. 743, si inserisce in un complesso procedimento teso alla stipulazione, con il consenso del condannato, di un accordo di cooperazione in materia penale, all'interno del quale al Ministro di Grazia e Giustizia sono riservate le valutazioni discrezionali e di opportunità riguardanti l'esecuzione all'estero della pena, mentre alla corte di appello è affidato il controllo di legalità di tale accordo attraverso la verifica dell'osservanza delle condizioni prescritte dalle fonti normative internazionali ed interne" (Cass. sez. 1, n. 2200 del 17.03.1999, Vitale, rv. 213201, che richiama sez. 6, n. 4802 del 12/12/1995, Gabor Sandor, rv. 204654). L'opposta soluzione propugnata dal ricorrente pretende l'estromissione da questo accordo "triadico" tra i due Stati coinvolti ed il condannato (Cass. sez. 6, n. 44089 del 14/10/2014, Tason Arosemena, rv. 260386), di un protagonista necessario, l'autorità giudiziaria dello Stato di condanna, e priva il procedimento di quelle verifiche necessarie ad assicurare il pieno rispetto delle garanzie nell'interesse dello Stato e del condannato.

Il riscontro dell'infondatezza del primo motivo, che è assorbente rispetto alle restanti censure, esime dalla loro disamina ed è già sufficiente per respingere ricorso con la conseguente condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2017