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Filma di nascosto in ospedale: è interferenza illecita nella vita privata (Cass. 47123/18)

17 ottobre 2018, Cassazione penale

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 615 bis cod. pen. ascritto al dipendente ospedaliero ai danni dei pazienti o di colleghi di lavoro, l’ambulatorio di un ospedale deve essere ritenuto quale luogo di privata dimora, essendo il suo uso riservato al personale e ai singoli pazienti che vi sono ammessi, e non essendo sufficiente ad escludere tale qualificazione la circostanza della disponibilità del luogo anche da parte dell’autore dell’indebita interferenza, perché la norma incriminatrice mira a tutelare riservatezza della persona offesa, la quale si trova nel luogo in questione per ragioni, anche temporanee, di salute o di servizio e per le attività strettamente giustificate da tali ragioni, ma non anche per subire interferenze illecite nella sua sfera di riservatezza.

Rientrano nella nozione di privata dimora i luoghi nei quali si svolgano non occasionalmente atti della vita privata, purché non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 maggio 2017 – 17 ottobre 2018, n. 47123
Presidente Savani – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza del 29 giugno 2016, resa all’esito di giudizio abbreviato, il Gup del Tribunale di Trieste ha condannato l’imputato, anche al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, riconosciute la continuazione e le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, per i reati di cui: A) agli artt. 609 quater, primo comma, nn. 1) e 2), e ultimo comma, cod. pen., per avere, quale infermiere in servizio presso un IRCCS, compiuto atti sessuali nei confronti di bambine e ragazze, infradecenni, infraquattordicenni, infrasedicenni, a lui affidate per ragioni di cura (alcune delle quali indicate nominativamente nell’imputazione, altre rimaste ignote), con abuso dei poteri e in violazione dei doveri inerenti al servizio pubblico sanitario, attraverso ripetuti toccamenti delle parti intime (dal (omissis) al (omissis) ); B) all’art. 600 quater, primo e secondo comma, cod. pen., per essersi procurato e avere detenuto un’ingente quantità di materiale pedopornografico, in parte da lui realizzato utilizzando una mini videocamera camuffata da grossa penna (il (omissis) ); C) all’art. 615 bis, primo e terzo comma, cod. pen., per essersi procurato indebitamente, con alcune delle condotte descritte nel capo precedente, immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nell’ambulatorio sala gessi della struttura ospedaliera nella quale lavorava, con riferimento a pazienti minori e operatrici sanitarie; con l’aggravante di avere commesso il fatto quale infermiere incaricato di pubblico servizio sanitario e con violazione dei relativi doveri (fino al (omissis) ). Il Gup ha escluso la responsabilità penale in relazione a una sola delle condotte contestate al capo B) (quella nei confronti di T.C. ) e ha ritenuto come tentata un’altra di tali condotte (quella nei confronti di M.N. ).
Con sentenza del 7 giugno 2017, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza del Gup, ha dichiarato inammissibile la costituzione di parte civile di J.E. , S.D. , M.M. , M.S. e ha revocato la condanna al risarcimento del danno nei loro confronti; ha rideterminato le liquidazioni delle spese di patrocinio delle parti civili.
Ha confermato nel resto la sentenza di primo grado.

2. - Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione degli artt. 191, 228, comma 3, e 230, comma 2, cod. proc. pen., relativamente alla perizia che ha accertato la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Il perito non avrebbe considerato, in particolare, che l’imputato aveva negato gli addebiti e che, pertanto, avrebbe dovuto essere assistito dal difensore di fiducia nel corso dello svolgimento delle operazioni peritali, essendogli state rivolte domande suggestive circa le modalità di commissione dei reati. Si lamenta, altresì, che i consulenti di parte avrebbero posto all’imputato domande dirette, pur trattandosi di un soggetto fragile che assumeva massicce quantità di psicofarmaci. La mancata partecipazione del difensore di fiducia alle operazioni avrebbe, perciò, causato la nullità della perizia, tempestivamente eccepita con la memoria difensiva del 20 gennaio 2016. Inoltre, la Corte d’appello avrebbe utilizzato, contro l’imputato e quale prova dei reati contestati, le dichiarazioni da questo rese nel corso dell’esame peritale.

2.2. - In secondo luogo, si deducono la violazione dell’art. 609 quater, quarto comma, cod. pen., e vizi della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità. Non si sarebbe tenuto conto delle patologie dell’imputato che gli impedivano la percezione del disvalore dei suoi gesti, né del carattere fugace delle condotte, che avevano cagionato una compromissione minima della libertà sessuale di delle vittime. Inoltre, le circostanze del contesto in cui si era svolta l’azione e la peculiare relazione autore-vittima sarebbero stati valutati due volte in danno dell’imputato: quali aggravanti, e ai fini della determinazione della pena. Si censura anche il passaggio motivazionale della sentenza impugnata nel quale si fa riferimento al patema d’animo delle persone danneggiate in relazione al concreto rischio di diffusione mediatica o informatica dei filmati e foto eseguiti dall’imputato; un tale pregiudizio sarebbe stato, infatti, escluso dall’accertamento tecnico sui supporti sequestrati, dal quale non era emersa alcuna traccia di comunicazione con terzi.

2.3. - Con una terza censura si deducono vizi della motivazione in relazione alla detenzione del materiale pedopornografico non prodotto dall’imputato ma acquisito da fonti esterne. Mancherebbe, sul punto, la prova della durata della condotta di detenzione, non potendo essere considerati come affidabili le date e gli orari indicati dall’orologio interno del computer. Sarebbe stata omessa, inoltre, la motivazione circa la ritenuta consapevolezza dello scaricamento del materiale pornografico, trattandosi in parte di file incompleti e visionati solo a campione in sede di indagine, e non essendovi la certezza che l’imputato fosse a sua volta in grado di visionarli. Né vi sarebbe la prova di visite a siti contenenti materiale pornografico, ma solo la presenza sul computer del programma eMule. Si contesta anche l’applicazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità, che avrebbe dovuto essere esclusa, a fronte di controlli svolti solo a campione e della ripetizione di più file aventi lo stesso titolo e scaricati nel medesimo contesto temporale.

2.4. - In quarto luogo, si deducono la violazione dell’art. 615 bis cod. pen. e vizi della motivazione, per la mancata valutazione, quanto al reato di cui al capo C) dell’imputazione, delle peculiarità dei singoli episodi contestati. Circa i minori ripresi nel corso delle visite mediche, non si sarebbe considerato né che gli stessi erano presenti nella sala gessi dell’ospedale per una singola visita o, per un numero ridotto di visite, né che, in ogni caso, i luoghi di lavoro sarebbero esclusi dalla tutela penale. Quanto alla ripresa della dott.ssa D.C. nell’atto di cambiarsi d’abito, la stessa sarebbe stata effettuata da uno strumento lasciato in funzione nella stanza prima ancora che questa decidesse di occuparla momentaneamente per cambiarsi. Mancherebbe, dunque, il requisito della stabilità del rapporto tra la persona offesa e lo spazio fisico in cui questa si trovava e non si sarebbe considerata l’assoluta imprevedibilità della sua condotta, non essendo quella stanza adibita a locale per il cambio degli abiti. Più in generale la disposizione incriminatrice dovrebbe essere interpretata non come riferita al diritto alla riservatezza, quanto invece alla più specifica tutela di attività riservate svolte in luoghi privati.

2.5. - Si censura, poi, la motivazione della sentenza impugnata quanto alla determinazione della pena, in conseguenza del riconoscimento della continuazione. Sarebbe del tutto generico il riferimento operato dalla Corte d’appello alle caratteristiche soggettive delle persone offese e alla natura specifica dei traumi inflitti; riferimento che non avrebbe considerato la particolare lievità del dolo; sarebbero comunque eccessivi gli aumenti applicati per i capi B) e C) dell’imputazione.

2.6. - Con un sesto motivo di doglianza, si deducono la violazione degli articoli 185 cod. pen., 1226 e 2043 e ss. cod. civ., nonché vizi di motivazione, in relazione alla liquidazione dei danni alle costituite parti civili. Non si sarebbero considerate le censure proposte con l’atto d’appello relativamente alla carenza dell’accertamento della sussistenza dei danni poi liquidati in via equitativa nonché alle carenze motivazionali circa i criteri utilizzati per la determinazione delle somme, in difetto di prova dell’entità nonché del nesso di causalità con le condotte oggetto di condanna. Si sostiene che il criterio equitativo non avrebbe potuto essere utilizzato senza la previa dimostrazione dell’esistenza di un danno certo e non soltanto ipotetico, che fosse conseguenza diretta delle condotte contestate. Quanto, poi, al danno morale, si afferma che lo stesso sarebbe risarcibile solo in presenza dell’allegazione di elementi di fatto da parte del danneggiato. In relazione al danno reclamato dai genitori di alcune delle persone offese, mancherebbe la prova del nesso di causalità con le condotte illecite; prova che sarebbe anzi smentita dalle dichiarazioni di alcune delle persone offese, che per molto tempo non avevano ricordato i fatti o, comunque, li avevano fortemente sminuiti, nonché dalla circostanza che alcuni dei genitori avevano ritenuto di non denunciare i fatti pur conoscendoli. Sarebbe mancato, in ogni caso, l’accertamento dello stravolgimento delle vite familiari in conseguenza degli atti sessuali attribuiti all’imputato. Quanto all’ospedale, la Corte d’appello avrebbe mutato il titolo di risarcimento da danno morale a danno all’immagine, pur in assenza di prova del nesso di casualità e non prendendo in considerazione le precise responsabilità dei dirigenti dell’ospedale, che avevano omesso di approfondire o avviare indagini a seguito delle segnalazioni dei comportamenti illeciti dell’imputato, così diminuendo il prestigio dell’ente e, conseguentemente, l’entità del danno. Quanto ai danni delle minori parti offese, gli stessi sarebbero stati determinati con riferimento a patemi d’animo in realtà non provati, in presenza di reati che erano stati sminuiti dalle stesse minori. Mancherebbe, inoltre, la motivazione circa il danno subito, in relazione al reato di cui all’art. 615 bis cod. penale, dalle parti civili J.T. e J.M. . Più in generale, la sentenza sarebbe priva di una motivazione individualizzante in relazione a ciascun soggetto danneggiato.

3. - La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse di J.E. e S.D. , che affermano di essersi costituiti parti civili in proprio e quali genitori della minore persona offesa J.P. e lamentano, con unico motivo di doglianza, la violazione degli artt. 538, 541, 605 cod. proc. pen., in quanto la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile la loro costituzione di parte civile in proprio e ha revocato la condanna al risarcimento del danno nei loro confronti, condannando l’imputato alla rifusione degli onorari spettanti ai difensori per la difesa delle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato nella sola veste di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore J.P. e non anche in proprio. Non si sarebbe considerato che questi si erano inizialmente costituiti solo come esercenti la potestà genitoriale sulla minore (udienza del 16 settembre 2015), ma successivamente, prima dell’ammissione dell’imputato al rito abbreviato, si erano costituiti anche in proprio (udienza del 1 febbraio 2016). Del resto, la costituzione di parte civile anche in proprio non sarebbe stata contestata nemmeno dall’imputato con i motivi di appello. Tale errore si sarebbe riverberato sulla liquidazione delle spese, risoltasi in un compenso complessivo per entrambi gli avvocati, che non teneva in considerazione la difesa dei genitori in proprio.
4. - La difesa delle parti civili M.C. , M.M. e M.E. ha depositato memoria, con la quale chiede che il ricorso dell’imputato sia dichiarato inammissibile o comunque rigettato e afferma, quanto alla responsabilità civile, che la Corte di merito ha fornito un’adeguata motivazione, sia circa la concretezza e l’attualità del pregiudizio subito, sia circa il nesso di causalità con la condotta l’imputato.
5. - Anche la difesa dell’IRCCS (OMISSIS) ha depositato memoria, con cui che il ricorso dell’imputato sia dichiarato inammissibile o comunque rigettato.

Considerato in diritto

6. - Il ricorso dell’imputato è inammissibile.

6.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si lamentano la mancata partecipazione del difensore allo svolgimento delle operazioni peritali sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato, la formulazione di domande suggestive durante tali operazioni, nonché l’uso delle dichiarazioni rese nel corso dell’esame peritale - è inammissibile per genericità.

È sufficiente qui rilevare che né le disposizioni richiamate dalla difesa (artt. 191, 228, comma 3, e 230, comma 2, cod. proc. pen.), né altre disposizioni dell’ordinamento processuale impongono la partecipazione del difensore alle attività del perito, neanche per l’ipotesi della perizia psichiatrica su soggetto che abbia negato gli addebiti. In ogni caso, il ricorrente non ha dedotto - neanche con il ricorso per cassazione - che il difensore avesse chiesto di partecipare alle operazioni peritali, avendo solo formulato ex post un’eccezione di inutilizzabilità. Quanto alla prospettata violazione dell’articolo 228, comma 3, cod. proc. pen., che consente l’utilizzazione degli elementi richiesti all’imputato ai soli fini dell’accertamento peritale, deve rilevarsi che la difesa non spiega quale sia nell’economia motivazionale della sentenza impugnata - la valenza concreta delle dichiarazioni autoaccusatorie eventualmente rese dall’imputato nel corso delle operazioni peritali ai fini della prova della responsabilità penale.

6.2. - Parimenti inammissibile è il secondo motivo di censura, con cui si deducono la violazione dell’art. 609 quater, quarto comma, cod. pen., e vizi della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità.

La difesa richiama, in primo luogo, una circostanza che deve essere ritenuta del tutto irrilevante, oltre che meramente asserita, quale la pretesa sussistenza di patologie dell’imputato che gli impedivano la percezione del disvalore dei suoi gesti. Infatti, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante invocata, non può essere preso in considerazione l’elemento soggettivo che connota il reato, ma solo l’insieme dei dati, oggettivi, rappresentati dalla tipologia e dalle modalità della condotta nonché dalle conseguenze della stessa. Né può darsi rilievo all’affermazione difensiva secondo cui non vi sarebbe stato un rischio di diffusione mediatica o informatica dei filmati e foto eseguiti dall’imputato; si tratta, anche in tal caso, di un assunto del tutto generico e scollegato dalle risultanze processuali, dalle quali invece emerso che l’imputato si collegava abitualmente alla rete Internet. In ogni caso, la sentenza impugnata reca sul punto una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente (pagg. 99-102), laddove evidenzia la totale infondatezza della tesi difensiva secondo cui le medesime persone offese avrebbero sminuito le conseguenze delle condotte subite e considera analiticamente le condotte e le loro conseguenze sulle vittime. E del tutto corretto appare anche il richiamo, contenuto nella stessa sentenza, alla giurisprudenza di legittimità che considera di regola particolarmente invasivi gli atti sessuali compiuti dal medico ginecologo - la cui specializzazione comporta che egli, anche qualora operi correttamente, venga in contatto con gli organi sessuali e le zone erogene - nel corso di una visita, perché connotati dall’approfittamento della situazione di vulnerabilità fisica e psicologica della paziente, nonché delle condizioni di luogo e di tempo (Sez. 3, n. 46184 del 05/11/2013). Tali principi trovano applicazione, a maggior ragione, nel caso di atti sessuali compiuti da sanitari diversi dal ginecologo - qual è l’infermiere addetto ai gessi - perché le loro attività e i loro interventi dovrebbero investire aree corporee del tutto diverse dagli organi sessuali e dalle zone erogene.

6.3. - Del tutto generico è il terzo motivo di censura con cui si deducono vizi della motivazione in relazione alla detenzione del materiale pedopornografico. La difesa non si confronta, neanche a fini di critica con l’analitica motivazione della sentenza impugnata che si pone in totale continuità con quella di primo grado - limitandosi a sostenere l’inaffidabilità delle date e degli orari indicati dall’orologio interno del computer, senza peraltro negare che l’imputato fosse l’effettivo detentore delle immagini, evidentemente da lui scaricate in larga parte con programmi di condivisione, quale eMule. La sentenza censurata risulta, inoltre, puntualmente motivata sia sull’ingente quantità, sia sulla consapevolezza della detenzione e della natura pornografica del materiale (pagg. 107113), laddove evidenzia che tutti i file visionati a campione hanno contenuto pornografico, descrivendone dettagliatamente i contenuti, e comprendono quelli girati dallo stesso imputato in ospedale, oltre ad altri parzialmente cancellati, anch’essi natura pornografica; si tratta, in ogni caso, di video del tutto privi di giustificazione medico-scientifica.

6.4. - Manifestamente infondato è il quarto motivo di doglianza, con cui si deducono la violazione dell’art. 615 bis cod. pen. e vizi della motivazione, per la mancata considerazione, quanto al reato di cui al capo C) dell’imputazione, delle peculiarità dei singoli episodi contestati.

Quanto alla ripresa, da parte dell’imputato, di minori nel corso di visite mediche e di colleghi in stanze dell’ospedale, devi evidenziarsi che la disposizione incriminatrice punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi (visto il richiamo operato dalla norma al precedente art. 614 cod. pen.).

Deve ritenersi che rientrino nella nozione di privata dimora i luoghi nei quali si svolgano non occasionalmente atti della vita privata, purché non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, Rv. 270076).

Più in particolare, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 615 bis cod. pen., si è ritenuta quale luogo di dimora privata la toilette di uno studio professionale, trattandosi di un locale il cui accesso è riservato al titolare e ai dipendenti dello studio ed è consentito ai clienti solo in presenza di una positiva volontà del personale (Sez. 5, n. 4669 del 07/11/2017, dep. 31/01/2018, Rv. 72279; Sez. 3, n. 27847 del 30/04/2015, Rv. 264196).

Né l’attualità dell’uso del locale implica necessariamente la sua continuità, perché la natura del luogo non viene meno in ragione dell’assenza, più o meno prolungata nel tempo, dell’avente diritto (Sez. 5, n. 48528 del 06/10/2011, Rv. 252116). Infatti, la nozione in questione comprende ogni luogo ove la persona si trattenga per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata, come ad esempio lo spogliatoio di un circolo sportivo (Sez. 5, n. 12180 del 10 novembre 2014, Rv. 262815).

Un precedente specifico è rappresentato, poi, dalla sentenza Sez. 6, n. 7550 del 26/01/2011, Rv. 249322, nella quale si è affermato che il titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice non è soltanto il soggetto direttamente attinto dall’abusiva captazione delle immagini, ma chiunque, all’interno del luogo violato, compia abitualmente atti della vita privata che necessariamente alle stesse si ricolleghino; cosicché si è ritenuto sussistente il reato ascritto al dipendente di una struttura ospedaliera che si era indebitamente procurato con il suo cellulare immagini attinenti alla vita privata dei pazienti, fotografandone gli organi sessuali mentre facevano doccia.

Non può perciò attribuirsi alcuna rilevanza alla circostanza, del tutto normale, che il paziente sia presente nell’ambulatorio solo per il tempo necessario alla visita, perché in tale circostanza egli si trova comunque in un luogo il cui accesso è regolamentato e nel quale la sua riservatezza deve trovare tutela. Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto: "Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 615 bis cod. pen. ascritto al dipendente ospedaliero ai danni dei pazienti o di colleghi di lavoro, l’ambulatorio di un ospedale deve essere ritenuto quale luogo di privata dimora, essendo il suo uso riservato al personale e ai singoli pazienti che vi sono ammessi, e non essendo sufficiente ad escludere tale qualificazione la circostanza della disponibilità del luogo anche da parte dell’autore dell’indebita interferenza, perché la norma incriminatrice mira a tutelare riservatezza della persona offesa, la quale si trova nel luogo in questione per ragioni, anche temporanee, di salute o di servizio e per le attività strettamente giustificate da tali ragioni, ma non anche per subire interferenze illecite nella sua sfera di riservatezza".

Tale principio trova applicazione anche nel caso di specie, in cui le interferenze sono state poste in essere in luoghi da considerarsi pacificamente di privata dimora, quali la sala gessi e altre stanze o ambulatori dell’ospedale.

Quanto alla ripresa della dott.ssa D.C. nell’atto di cambiarsi d’abito, la medesima è stata effettuata - secondo la stessa prospettazione difensiva - da uno strumento lasciato in funzione dall’imputato in una stanza dell’ospedale, prima che la vittima decidesse di occuparla momentaneamente per cambiarsi. Tale modo di procedere presuppone - come ben evidenziato dei giudici di merito, e contrariamente a quanto affermato dalla difesa - un dolo particolarmente intenso, per le modalità insidiose di realizzazione dei video (pagg. 116-117 della sentenza). Né la circostanza - peraltro meramente asserita - che la dottoressa avesse scelto come spogliatoio una stanza che non vi era normalmente adibita muta il quadro della situazione, perché la stanza in questione era comunque riservata al personale e
preclusa al libero accesso del pubblico.

6.5. - Inammissibile è il quinto motivo di ricorso, riferito alla motivazione della sentenza impugnata quanto alla determinazione della pena in conseguenza del riconoscimento della continuazione. La difesa oppone generiche considerazioni attinenti al merito della decisione a fronte della chiara e analitica motivazione fornita dalla Corte d’appello (pagg. 143-144) che si impernia su: le caratteristiche soggettive delle persone offese, la natura dei traumi inflitti, l’intensità del dolo, la totale mancanza di considerazione della legalità e dell’importanza del ruolo istituzionale svolto dall’imputato, che emerge dalla pluralità e dalle modalità insidiose delle condotte; motivazione che si integra pienamente con quella della sentenza di primo grado, con la quale si pone in totale continuità.

6.6. - Il sesto motivo di doglianza - con cui si deducono la violazione degli artt. 185 cod. pen., 1226 e 2043 e ss. cod. civ. e vizi di motivazione, in relazione alla liquidazione dei danni alle costituite parti civili - è inammissibile, perché formulato in modo non specifico e perché comunque diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del merito della decisione di secondo grado; rivalutazione preclusa in sede di legittimità.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, la Corte territoriale ha ampiamente preso in considerazione le censure proposte con l’atto d’appello, fornendo una motivazione analitica con riferimento a tutti i soggetti danneggiati. La sentenza: opera una corretta determinazione equitativa dei danni, evidentemente sussistenti e causalmente collegati con le condotte dell’imputato; tiene in considerazione le richieste delle parti civili quanto al danno morale, anch’esso conseguenza delle condotte dell’imputato; quanto alla posizione dei genitori delle persone offese, evidenzia che gli abusi sessuali hanno provocato paterni d’animo e disagi psicologici, non potendo gli episodi in questione essere considerati di scarsa rilevanza. Ne può ritenersi che l’accertamento dello stravolgimento delle vite familiari in conseguenza degli atti sessuali - che la difesa dell’imputato, con mere asserzioni, ritiene di escludere - costituisca presupposto necessario per la liquidazione dei danni, anche morali.
Quanto alla posizione dell’ospedale deve levarsi che - contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa - la Corte d’appello ha liquidato il richiesto danno all’immagine, valorizzando l’evidente nesso di casualità con le gravi condotte dell’imputato. E risulta meramente asserita e priva di riscontri istruttori la circostanza che vi sarebbero state precise responsabilità omissive dei dirigenti della struttura, che avrebbero diminuito il prestigio dell’ente e, conseguentemente, l’entità del danno.
Quanto ai danni alle minori parti offese, gli stessi sono stati determinati con riferimento a conseguenze materiali e paterni d’animo ampiamente provati; ed è del tutto destituita di fondamento la tesi difensiva secondo cui le conseguenze dei reati sarebbero state sminuite dalle stesse minori.
Manifestamente infondata è, infine, la censura difensiva secondo cui mancherebbe la motivazione circa il danno subito, in relazione al reato di cui all’articolo 615 bis cod. pen., dalle parti civili J.T. e J.M. . È sufficiente, sul punto, la lettura della pag. 138 della sentenza di secondo grado, dalla quale emerge che, come in altri casi, si trattava di operatrici sanitarie che hanno dovuto subire insidiose videoriprese nell’esercizio delle loro funzioni all’interno della struttura ospedaliera.
7. - Il ricorso dell’imputato, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. L’imputato deve essere anche condannato alla reclusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate come in dispositivo.
8. - Il ricorso proposto nell’interesse di J.E. e S.D. , relativamente alla loro costituzione di parte civile in proprio, è fondato.
Come emerge dalla sentenza impugnata, la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile la loro costituzione di parte civile in proprio e ha revocato la condanna al risarcimento del danno nei loro confronti, condannando l’imputato alla rifusione degli onorari spettanti ai difensori per la difesa delle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato nella sola veste di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla minore J.P. e non anche in proprio. Così statuendo, la Corte distrettuale non ha considerato che questi si erano inizialmente costituiti solo come esercenti la potestà genitoriale sulla minore (udienza del 16 settembre 2015), ma successivamente, prima dell’ammissione dell’imputato al rito abbreviato, si erano costituiti anche in proprio (udienza del 1 febbraio 2016), con gli avvocati Florindo Ceccato e Giorgio Bonet. Ed è comunque vero che dalla sentenza emerge che la costituzione di parte civile anche in proprio non è stata contestata nemmeno dall’imputato con i motivi di appello. Tale errore si è anche riverberato sulla liquidazione delle spese, risoltasi in un compenso che non ha tenuto in considerazione la difesa dei genitori in proprio.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente alla costituzione di parte civile in proprio di J.E. e S.D. ; costituzione che deve essere dichiarata ammissibile, con revoca dell’esclusione della condanna risarcimento del danno in favore degli stessi. Conseguentemente, le spese processuali per i primi due gradi di giudizio a carico dell’imputato e in favore di J.E. e S.D. , sia in proprio sia quali legali rappresentanti della figlia minore, devono essere rideterminate in complessivi Euro 5250,00, oltre spese generali e accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla costituzione di parte civile in proprio di J.E. e S.D. , costituzione che dichiara ammissibile, e revoca l’esclusione della condanna al risarcimento del danno in favore degli stessi. Ridetermina le spese processuali per i primi due gradi di giudizio a carico dell’imputato, in favore di J.E. e S.D. , sia in proprio, sia quali legali rappresentanti della minore J.P. , in complessivi Euro 5250,00, oltre spese generali e accessori di legge.
Dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili: J.E. , S.D. e J.P. , che liquida complessivamente in Euro 3.500,00 da distrarsi in favore dello Stato; I.R.C.C.S. (omissis) , che liquida in Euro 3600,00; T.S. , C.S. e T.D. , che liquida complessivamente in Euro 3.266,67, da distrarsi in favore dello Stato; D.A. , che liquida complessivamente in Euro 2.500,00 da distrarsi in favore dello Stato; M.M. , S.R. e M.E. , che liquida complessivamente in Euro 4.900,00; Z.G. , che liquida in Euro 3.500,00; I.M. , che liquida in Euro 3.500,00; J.T. , che liquida in Euro 3.500,00; M.N. , che liquida in Euro 2.500,00 da distrarsi in favore dello Stato; M.C. , M.M. e M.E. , che liquida complessivamente in Euro 3.500,00 da distrarsi in favore dello Stato; per tutti oltre spese generali e accessori di legge.
La Corte dispone inoltre che copia del dispositivo della sentenza sia trasmessa all’amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico a norma dell’art. 70 del d.lgs. n. 150 del 2009.