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Errore medico obbliga medico legale al referto (Cass. 51780/13)

27 dicembre 2013, Cassazione penale

L'obbligo di referto per i medici affonda le sue radici nei secoli, ben prima che fosse previsto l'obbligo di denuncia a carico degli esercenti una funzione pubblica.

Nel reato di omissione di referto, l'obbligo di riferire si configura per la semplice possibilità che il fatto presenti i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio, secondo un giudizio riferito al momento della prestazione sanitaria in relazione al caso concreto, a differenza di quanto ricorre per la fattispecie di omessa denuncia, dove rileva la sussistenza di elementi capaci di indurre una persona ragionevole a ravvisare l'apprezzabile probabilità dell'avvenuta commissione di un reato, posto che, nell'illecito previsto dall'art. 365 cod. pen., la comunicazione fornisce, per vicende riguardanti la persona, elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione del fatto, insostituibili ai fini di un efficace svolgimento delle indagini e del rispetto dell'obbligo di esercitare l'azione penale; ne consegue che il sanitario è esentato dall'obbligo di referto solo quando abbia la certezza tecnica dell'insussistenza del reato.

Errore diagnostico obbliga comunque al referto, anche se non ha avuto nesso causale con decesso. 

Gli artt. 361 e 365 c.p., che sanzionano le violazione di specifici obblighi di denuncia che incombono su taluni soggetti qualificati, delineano fattispecie di reato proprio, che hanno in comune la natura di reato pericolo, in quanto l'interesse pubblico tutelato dalla norma incriminatrice (che va individuato nell'interesse a che l'Autorità giudiziaria o altra Autorità tenuta a riferire a questa sia più rapidamente informata dei fatti costituenti reato) rimane offeso per il solo fatto omissivo, a prescindere dagli effetti che concretamente possono essere conseguiti alla medesima omissione.

Esse tuttavia differiscono non soltanto per la qualità del soggetto attivo (pubblico ufficiale nel primo caso, esercente professione sanitaria nel secondo caso), ma anche per la consistenza di conoscenza richiesta da parte dell'agente.

L'art. 361 c.p., punisce il pubblico ufficiale che omette o ritarda di denunciare "un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni". L'art. 365 c.p., punisce "chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'Autorità ...".

Il riferimento contenuto nell'art. 361 c.p., alla "notizia di reato" avuta dal pubblico ufficiale nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, rimanda alla nozione tecnica di notita criminis, che, pur in assenza di formale definizione legislativa, va individuata, secondo dottrina e giurisprudenza, in una situazione che delinei le linee essenziali di un fatto (espressione utilizzata dagli artt. 332 e 347 c.p.p.) criminoso, sulla base di elementi che appaiono sufficientemente affidabili e capaci di indurre una persona ragionevole a concludere che vi sono apprezzabili probabilità che un reato sia stato commesso.

Nell'art. 365, invece, l'obbligo di referto è correlato non già alla conoscenza della "notizia di reato", bensì a casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, espressione che connota un ambito di rappresentazione cognitiva minore, senza il grado di relativa sicurezza necessario per la configurabilità dell'obbligo incombente al pubblico ufficiale di presentare denuncia all'autorità giudiziaria.

La lettera della legge ("possono presentare...") indica che l'obbligo si configura per la semplice possibilità che il caso presenti i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio. E' stato precisato in dottrina che, per far sorgere l'obbligo di referto basta che il caso venuto a conoscenza del sanitario abbia nella sua obiettività tali caratteri da rendere meramente possibile una fisionomia delittuosa.

Il maggior rigore del legislatore a carico dell'esercente una professione sanitaria è giustificato dal fatto che tale denuncia tecnica, come è stato autorevolmente puntualizzato in dottrina, assolve ad una funzione ancor più importante di quella della generica denuncia del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.), perchè fornisce, di regola per fatti riguardanti la persona, elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione del reato, assumendo così un valore insostituibile ai fini dell'indagine e dell'eventuale successiva redazione di una perizia medico-legale.

Di tanto il legislatore ha tenuto conto, sia nella formulazione del precetto posto dalla norma penale (art. 365 c.p.), sia nella specificazione degli obblighi del medico settore (D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, recante regolamento di polizia mortuaria), che - nell'integrare la L. 15 febbraio 1961, n. 83 (norme per il riscontro diagnostico sui cadaveri) - precisa che "quando si abbia il sospetto che la morte sia dovuta a reato, il medico settore deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all'autorità giudiziaria" (art. 39, comma 3).

Tale norma regolamentare, a ben vedere, non reca alcuna innovazione a quanto prescritto dall'art. 365 c.p., per tutti gli esercenti attività sanitaria, ma specifica, per il medico settore - la cui attività viene in rilievo quando si ritiene necessario controllare la diagnosi o chiarire quesiti clinico-scientifici ovvero quando sussista il dubbio sulle cause di morte - la doverosità dell'immediata comunicazione all'autorità giudiziaria dei casi che possono presentare i caratteri del più grave dei reati procedibili d'ufficio.

L'obbligo del referto sorge nel momento stesso in cui il sanitario, prestando la propria opera, si viene a trovare di fronte a un caso che può presentare i connotati di un delitto perseguibile d'ufficio. Per stabilire se ricorra una tale ipotesi, è necessario fare leva su criteri di valutazione che, sia pure con giudizio ex ante (riferito cioè al momento della prestazione sanitaria), tengano conto della peculiarità del caso concreto, nel senso che deve verificarsi se il sanitario abbia avuto conoscenza di elementi di fatto dai quali desumere, in termini di teorica possibilità, la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio.

Il reato è punito a titolo di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di omettere (o ritardare) il referto da parte dell'esercente la professione sanitaria, il quale logicamente deve anche rendersi conto di trovarsi in presenza di fatti che, sia pure in astratto, possono presentare i caratteri del delitto perseguibile d'ufficio.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 29/10/2013) 27-12-2013, n. 51780

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AGRO' Antonio - Presidente -

Dott. IPPOLITO F. - rel. Consigliere -

Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere -

Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere -

Dott. PATERNO' RADDUSA Benedett - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S., n. a (OMISSIS);

B.A., n. a (OMISSIS);

contro la sentenza della Corte d'appello di Bologna del 15/2/2013;

- letti il ricorso e il provvedimento impugnato;

- udita la relazione del cons. F. Ippolito;

- udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Dott. D'ANGELO Giovanni, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

- udito il difensore delle parti civili, avv. L. M, che ha aderito alla richiesta del P. G. e depositato conclusioni scritte e nota spese;

- uditi l'avv. M. M per l'imputato C. e l'avv. G. M per B., i quali hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi.

Svolgimento del processo

1. Gli imputati ricorrenti, B.A. e C.S. - il primo direttore, la seconda medico dell'unità di anatomia dell'ospedale "(OMISSIS)" di (OMISSIS) - procedettero il (OMISSIS) ad un riscontro diagnostico autoptico sul cadavere del piccolo A.Y. di tre anni, che era giunto cadavere all'ospedale il mattino del giorno (OMISSIS).

Nel corso della notte precedente, poco dopo mezzanotte, il bambino, in preda a fortissimi dolori addominali, era stato portato in ospedale dai genitori e visitato dal dott. Bi.Au., medico responsabile del reparto di terapia intensiva pediatrica, il quale - avendo diagnosticato, come causa dei malori, un evento di origine neurologica derivanti dalle gravissime patologie cerebrali conseguenti alla difficile nascita ed alla patita asfissia perinatale - aveva disposto di non ricoverarlo per ulteriori accertamenti, con prescrizioni farmacologiche.

Con il passare delle ore il bambino si era aggravato. I genitori avevano ritenuto di non ritrasportarlo subito in ospedale per evitare che fosse visitato dallo stesso pediatra di turno, avevano chiamato l'ambulanza alle ore 8.50 e il bambino era giunto in ospedale (in mancanza di polso e di attività cardiaca) alle ore 10.25.

2. Il 24 settembre 2010 il Tribunale di Forlì condannò, con i doppi benefici di legge, i due imputati, coautori del riscontro diagnostico, alla pena di sette mesi di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili per i reati di omissione di atti d'ufficio (art. 328 c.p.) e di omissione di referto (art. 365 c.p.), in questo assorbito il contestato delitto di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.).

3. Ai predetti medici era stato contestato, tra gli altri reati da cui erano stati assolti:

- di avere omesso di astenersi dal procedere al riscontro diagnostico autoptico in ambito amministrativo sanitario, attesa l'ipotesi di un possibile interesse dell'autorità giudiziaria per il delitto di omicidio colposo (in ragione dei pregressi clinici del bambino, che aveva riportato gravissimi danni cerebrali da grave asfissia perinatale; era stato visitato durante la notte del 20 maggio dal dott. Bi., il quale, all'esito della visita, aveva disposto di non ricoverarlo per ulteriori accertamenti) e di avere comunque omesso di sospendere il riscontro una volta che esso aveva permesso di acclarare che la causa del decesso (infarto intestinale emorragico) non era imputabile all'evento di origine neurologica ipotizzata dal dott. Bi., bensì ad una patologia addominale in atto, da quest'ultimo non rilevata e trascurata;

- di avere omesso di fare denuncia e referto all'autorità giudiziaria, considerato che dal riscontro autoptico erano emersi elementi per ritenere che il caso presentasse i caratteri del delitto di omicidio colposo, procedibile d'ufficio.

4. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Bologna, in parziale riforma della decisione di primo grado, ritenuto l'assorbimento della condotta contestata come violazione dell'art. 328 c.p., in quella di cui all'art. 365 c.p., ha rideterminato la pena, per ciascuno degli imputati, in 300 euro di multa.

5. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, tramite difensori fiduciari.

5.1. L'avv. Guido Magnisi, nell'interesse di B.A., deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale, ai sensi dell'art. 606, lett. b), in relazione agli artt. 365 e 43 c.p., e al D.L. n. 158 del 2012, art. 3, conv. in L. n. 189 del 2012.

In particolare, il ricorrente - premessa la necessità (recentemente espressa anche dal legislatore con il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, convertito in L. 8 novembre n. 189), "di arginare l'eccessiva e costante ingerenza della giurisdizione penale nell'ambito dell'attività sanitaria, la quale ha portato gli stessi medici ad arroccarsi su posizioni di cd. "medicina difensiva" - censura la sentenza che non ha "tenuto in debito conto il margine di discrezionalità valutativa attribuito al medico dalla ratto della norma stessa, ma ha dato un'interpretazione assolutamente restrittiva e riduttiva del ruolo del sanitario e delle sue competenze tecniche- scientifiche nell'ambito medico-legale".

5.2. L'avv. MM, nell'interesse di C.S., deduce, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), vizio di motivazione della sentenza e violazione degli artt. 43 e 645 c.p., in relazione al D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, art. 37, e all'istruzione operativa I.O./P05A/01 dell'Unità operativa di anatomia patologica AUSL di Cesena vigente all'epoca dei fatti, nonchè in relazione all'art. 334 c.p.p., in punto di parametri di autonomia e discrezionalità tecnica del sanitario tenuto al referto in relazione all'atto medico cui è correlato il relativo obbligo, nonchè in punto di individuazione dello spettro soggettivo di imputazione della relativa responsabilità penale.

Motivi della decisione

1. Gli imputati sono stati condannati per il reato di omissione di referto, in esso assorbito il reato di cui all'art. 328 c.p., assorbimento ritenuto per il carattere di specialità della fattispecie prevista dall'art. 365 c.p., rispetto all'omissione di atti d'ufficio (il giudice di primo grado aveva già operato l'assorbimento del delitto di omissione di denuncia previsto dall'art. 361 c.p.).

2. Gli artt. 361 e 365 c.p., che sanzionano le violazione di specifici obblighi di denuncia che incombono su taluni soggetti qualificati, delineano fattispecie di reato proprio, che hanno in comune la natura di reato pericolo, in quanto l'interesse pubblico tutelato dalla norma incriminatrice (che va individuato nell'interesse a che l'Autorità giudiziaria o altra Autorità tenuta a riferire a questa sia più rapidamente informata dei fatti costituenti reato) rimane offeso per il solo fatto omissivo, a prescindere dagli effetti che concretamente possono essere conseguiti alla medesima omissione.

Esse tuttavia differiscono non soltanto per la qualità del soggetto attivo (pubblico ufficiale nel primo caso, esercente professione sanitaria nel secondo caso), ma anche per la consistenza di conoscenza richiesta da parte dell'agente.

L'art. 361 c.p., punisce il pubblico ufficiale che omette o ritarda di denunciare "un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni". L'art. 365 c.p., punisce "chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'Autorità ...".

Il riferimento contenuto nell'art. 361 c.p., alla "notizia di reato" avuta dal pubblico ufficiale nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, rimanda alla nozione tecnica di notita criminis, che, pur in assenza di formale definizione legislativa, va individuata, secondo dottrina e giurisprudenza, in una situazione che delinei le linee essenziali di un fatto (espressione utilizzata dagli artt. 332 e 347 c.p.p.) criminoso, sulla base di elementi che appaiono sufficientemente affidabili e capaci di indurre una persona ragionevole a concludere che vi sono apprezzabili probabilità che un reato sia stato commesso.

Nell'art. 365, invece, l'obbligo di referto è correlato non già alla conoscenza della "notizia di reato", bensì a casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, espressione che connota un ambito di rappresentazione cognitiva minore, senza il grado di relativa sicurezza necessario per la configurabilità dell'obbligo incombente al pubblico ufficiale di presentare denuncia all'autorità giudiziaria.

La lettera della legge ("possono presentare...") indica che l'obbligo si configura per la semplice possibilità che il caso presenti i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio. E' stato precisato in dottrina che, per far sorgere l'obbligo di referto basta che il caso venuto a conoscenza del sanitario abbia nella sua obiettività tali caratteri da rendere meramente possibile una fisionomia delittuosa.

Il maggior rigore del legislatore a carico dell'esercente una professione sanitaria è giustificato dal fatto che tale denuncia tecnica, come è stato autorevolmente puntualizzato in dottrina, assolve ad una funzione ancor più importante di quella della generica denuncia del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.), perchè fornisce, di regola per fatti riguardanti la persona, elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione del reato, assumendo così un valore insostituibile ai fini dell'indagine e dell'eventuale successiva redazione di una perizia medico-legale.

E' questa la ragione per cui - come emerge dalla ricostruzione storica che la dottrina ha compiuto - l'obbligo di referto per i medici affonda le sue radici nei secoli, ben prima che fosse previsto l'obbligo di denuncia a carico degli esercenti una funzione pubblica.

Di tanto il legislatore ha tenuto conto, sia nella formulazione del precetto posto dalla norma penale (art. 365 c.p.), sia nella specificazione degli obblighi del medico settore (D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, recante regolamento di polizia mortuaria), che - nell'integrare la L. 15 febbraio 1961, n. 83 (norme per il riscontro diagnostico sui cadaveri) - precisa che "quando si abbia il sospetto che la morte sia dovuta a reato, il medico settore deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all'autorità giudiziaria" (art. 39, comma 3).

Tale norma regolamentare, a ben vedere, non reca alcuna innovazione a quanto prescritto dall'art. 365 c.p., per tutti gli esercenti attività sanitaria, ma specifica, per il medico settore - la cui attività viene in rilievo quando si ritiene necessario controllare la diagnosi o chiarire quesiti clinico-scientifici ovvero quando sussista il dubbio sulle cause di morte - la doverosità dell'immediata comunicazione all'autorità giudiziaria dei casi che possono presentare i caratteri del più grave dei reati procedibili d'ufficio.

3. Anche secondo la giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, l'obbligo del referto sorge nel momento stesso in cui il sanitario, prestando la propria opera, si viene a trovare di fronte a un caso che può presentare i connotati di un delitto perseguibile d'ufficio. Per stabilire se ricorra una tale ipotesi, è necessario fare leva su criteri di valutazione che, sia pure con giudizio ex ante (riferito cioè al momento della prestazione sanitaria), tengano conto della peculiarità del caso concreto, nel senso che deve verificarsi se il sanitario abbia avuto conoscenza di elementi di fatto dai quali desumere, in termini di teorica possibilità, la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio (Sez. 6, n. 9721 del 09/07/1998, Branchi, Rv. 213040).

4. Nel caso in esame, la tesi dei ricorrenti, già espressa con gli atti di appello, è che le contestate omissioni sono espressione di una legittima e pertinente valutazione tecnica di inevitabilità della morte del piccolo Y., in quanto - per utilizzare la sintesi contenuta nella sentenza impugnata - "l'evento letale ...

sarebbe seguito comunque, anche in caso di diagnosi corretta della causa del dolore addominale evidenziato nella visita notturna e/o di disposizione di ulteriori accertamenti clinici o controlli in regime di degenza ospedaliera; e ciò perchè la certezza della sussistenza dell'infarto intestinale si sarebbe determinata comunque solo dopo alcune ore ed a quel punto, attesa la mancanza di un reparto di chirurgia pediatrica in loco, l'intervento chirurgico (solo astrattamente salvifico) sarebbe stato praticato comunque tardivamente".

Tele tesi, nell'atto d'appello, era stata fondata su considerazioni giuridiche e su valutazioni di consulenti, secondo cui gli imputati "nel momento in cui rilevarono l'obiettività dell'infarto emorragico intestinale, riscontrarono bensì la omissione diagnostica del collega, ma anche la vastità dell'area interessata e, conseguentemente, la non emendabilità della patologia con qualsiasi tempestivo intervento".

5. Correttamente i giudici d'appello hanno confermato la responsabilità penale degli imputati, evidenziando che la sfera della competenza del medico comprende le valutazioni che - nel contesto dell'esperimento dell'atto sanitario - si concludono con la ragionevole convinzione, ossia con la certezza tecnica, dell'insussistenza del reato.

Tale conclusione deve essere fondata su elementi certi ed obiettivi, sì da poter ragionevolmente ritenere, all'evidenza, che l'evento si sia verificato indipendentemente dall'errore diagnostico del medico.

Il giudizio tecnico del medico, dunque, può anche comprendere l'esclusione del nesso di causalità tra condotta ed evento, semprechè esso derivi in modo evidente da elementi di fatto certi ed obiettivi.

Tutte le volte che siffatta certezza manchi, il medico è obbligato al referto, giacchè in ogni caso in cui non è sicura l'insussistenza di un'ipotesi delittuosa procedibile d'ufficio, l'indagine per accertare le cause dell'evento è di competenza dell'autorità giudiziaria e l'omissione del referto costituisce violazione del precetto previsto dall'art. 365 c.p..

6. Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito, in fatto, hanno escluso che gli imputati, al momento dell'accertamento autoptico, avessero la certezza dell'impossibilità di un intervento salvifico del bambino, in quanto non avevano accertato il momento preciso della determinazione dell'infarto intestinale.

Il bambino, visitato dal pediatra che aveva sbagliato la diagnosi alle ore 0,42 del 20 maggio, era morto non prima delle 9,15.

In presenza di tale lasso di tempo (ben otto ore e mezzo), soltanto accertando e conoscendo il momento in cui l'infarto era insorto si poteva escludere l'esistenza di possibilità di intervento chirurgico salvifico, eventualmente da effettuarsi in ospedali diversi da quello di Cesena.

Giuridicamente corretta e adeguatamente motivata è, perciò, la conclusione della sentenza impugnata, secondo cui il giudizio di inevitabilità dell'evento sostenuto dagli imputati era fondato su dati nè obiettivi nè certi, ma su valutazioni approssimative e probabilistiche, suscettibili di ulteriori verifiche e controlli, di competenza dell'autorità giudiziaria.

"Una volta giunti al disconoscimento della diagnosi del collega e di fronte all'impossibilità di accertare con sufficiente certezza che l'infarto fosse insorto ... in tempo tanto ravvicinato al decesso da escludere in assoluto ogni possibile intervento salvifico, avrebbero dovuto informare immediatamente l'autorità sanitaria, cosa che non fecero nè immediatamente nè nei giorni successivi".

Quanto al profilo soggettivo - premesso che il reato è punito a titolo di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di omettere (o ritardare) il referto da parte dell'esercente la professione sanitaria, il quale logicamente deve anche rendersi conto di trovarsi in presenza di fatti che, sia pure in astratto, possono presentare i caratteri del delitto perseguibile d'ufficio - i giudici di merito (potendosi procedere a valutazione unitaria delle sentenze di primo e di secondo grado) hanno escluso, con corretta motivazione, che gli imputati, sia pure erroneamente, avessero nutrito la certezza dell'inesistenza di un delitto perseguibile d'ufficio.

7. Nè tali conclusioni possono essere invalidate dalle osservazioni dei ricorrenti sul rischio di diffusione di una medicina legale "difensiva", in cui "l'inutile refertazione dovrebbe diventare la regola".

Tale rilievo, sottolineando l'inconveniente pratico determinato dal rischio di un eccesso di referti, non tiene in alcun contro che l'obbligo di referto è funzionale al rispetto, da parte del Pubblico Ministero, dell'obbligo di esercizio dell'azione penale, presidiato a livello costituzionale (art. 112 Cost.), cosicchè non possono essere posti in comparazione l'evenienza di una certa quantità di referti inutili con il rischio del mancato esercizio dell'azione penale per omesso invio all'ufficio del P.M. di referti obbligatori in relazione a "casi che possono presentare i caratteri di un delitto per quale si debba procedere d'ufficio".

8. In conclusione, i ricorsi non meritano accoglimento, per correttezza giuridica e completa e logica motivazione della sentenza impugnata in ordine alla affermata responsabilità degli imputati, su entrambi i quali incombeva l'obbligo di referto (art. 334 c.p.p., comma 3).

Al rigetto segue la condanna al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè a rifondere le spese di parte civile che liquida in Euro 2.000, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2013