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E' reato aprire un atto giudiziario destinato ad altri? (Cass. 23049/21)

10 giugno 2021, Cassazione penale

E' reato la condotta di chi sottrae o distrae, al fine di prenderne visione, ovvero distrugge o sopprime, un atto giudiziario diretto ad altri (nella specie un decreto penale di condanna), rientrando anche tale comunicazione nel concetto di "corrispondenza" individuato dalla disposizione incriminatrice.

 

Corte di Cassazione

Sezione V Penale

Sent. Num. 23049 Anno 2021

Presidente: SABEONE GERARDO
Relatore: BRANCACCIO MATILDE
Data Udienza: 23/03/2021 - dep. 10/06/2021


SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GC nato a ROVERETO il **/1965

avverso la sentenza del 10/01/2020 della CORTE APPELLO di TRENTO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere MATILDE BRANCACCIO;

letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale GIOVANNI DI LEO che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Trento, con la decisione impugnata, ha confermato la condanna ad un mese di reclusione di CG per il reato di cui all'art. 616 cod. pen. essendosi l'imputato fatto notificare un decreto penale indirizzato a Lisa Degasperi, della quale aveva falsamente dichiarato di essere il marito (la contestazione relativa al reato di cui all'art. 495 cod. pen., per aver l'autore della condotta attestato falsamente ai Carabinieri notificanti di essere il marito della persona offesa) è stata oggetto di assoluzione in primo grado per essere il falso innocuo).

2. Avverso la sentenza predetta propone ricorso l'imputato, tramite il difensore avv. CL, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione avuto riguardo alla dosimetria sanzionatoria, che si era chiesto di contenere nei limiti di una pena solo pecuniaria, dal momento che il comportamento tenuto dal ricorrente non denotava un particolare allarme sociale e la sottrazione della corrispondenza rappresentata dall'atto giudiziario-decreto penale di condanna non aveva procurato alcun concreto danno alla persona offesa, che era riuscita ad eliminare ogni effetto pregiudizievole discendente dalla mancata conoscenza dell'atto e, per tale motivo, aveva anche rinunciato a costituirsi parte civile ed a pretendere qualsiasi risarcimento.

Le ragioni della Corte d'Appello, utilizzate per confermare il trattamento sanzionatorio, sono apodittiche, quanto al riferimento alla particolare intensità del dolo, ed incoerenti con i parametri di valutazione imposti dalla legge, poiché limitate a mettere in luce le condizioni psicologiche del ricorrente ed un suo tratto comportamentale, si è, infatti, enfatizzato un dato del tutto neutro e rappresentato dal fatto che l'imputato sia risultato, da una perizia psichiatrica svolta in dibattimento, una persona che manipola la realtà, riferendosi ad accadimenti e circostanze non accadute né verificatesi.

3. Il Sostituto PG Giovanni Di Leo ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, non potendo sussunnersi un atto giudiziario nella categoria della "corrispondenza" alla cui tutela è preposta la disposizione dell'art. 616 cod. pen.

3.1. Con memoria depositata successivamente al ricorso, il difensore dell'imputato ha chiesto l'accoglimento del ricorso, associandosi alle argomentazioni del PG qualora il Collegio decidesse di rilevare l'insussistenza del reato e chiedendo, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Il tema preliminare, sollevato dalla requisitoria scritta del PG, attiene alla possibilità di configurare il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza, previsto dall'art. 616 cod. pen., nella fattispecie in esame, relativa all'appropriazione, da parte dell'autore della condotta, di un atto giudiziario - un decreto penale di condanna - indirizzato ad altra persona (nella specie, una donna con cui l'imputato aveva avuto un rapporto sentimentale), dichiarandosi il marito di costei.

A prescindere dalle finalità del gesto, probabilmente collegate, secondo la ricostruzione accurata della sentenza di primo grado, alla relazione affettiva con la persona offesa ed ai problemi giudiziari causatile proprio dal ricorrente, deve essere esaminata la ratio dell'incriminazione e la natura dell'atto sottratto.

A giudizio del PG, con una prospettiva poi successivamente colta anche dalla difesa dell'imputato nella memoria depositata prima dell'udienza tenutasi dinanzi al Collegio, un atto giudiziario, quale è, nel caso di specie, il decreto penale di condanna, non può essere annoverato nella categoria della "corrispondenza", alla cui tutela è preposta la disposizione incriminatrice citata.

Tale affermazione muove dall'interpretazione di un arresto di questa Sezione - la sentenza Sez. 5, n. 12603 del 2/2/2017, Degagni, Rv. 269517 - per distinguere tra comunicazione umana nel suo profilo "statico", come pensiero già comunicato o da comunicare, fissato su supporto fisico o in altra forma di rappresentazione materiale, e atto giudiziario inviato per la notificazione da un ufficio di polizia giudiziaria, senza ausilio dell'invio mediante posta, come avvenuto nel caso sottoposto al Collegio (in cui il ricorrente si è recato all'interno della caserma dei Carabinieri, fingendosi il marito della persona cui il decreto penale doveva essere notificato), che non sarebbe oggetto, di per sé, per la sua natura, di quella tutela del "segreto" dei contenuti della comunicazione umana, propria della ragione incriminatrice di cui all'art. 616 cod. pen.

Il PG evoca la possibilità di sussumere la condotta entro l'alveo di altre e diverse fattispecie incriminatrici, senza specificare meglio a quali faccia riferimento, ma non a quella in esame.

2.1. La prospettiva ermeneutica suddetta non può essere condivisa.

Stando alla lettera del primo comma dell'art. 616 cod. pen., in rilievo nel caso di specie, viene tutelata dal legislatore penale ogni forma di cognizione non autorizzata del contenuto di corrispondenza chiusa diretta a taluno, da parte di chi non ne sia il destinatario, nonché ogni sottrazione, distrazione, distruzione o soppressione, in tutto o in parte, di detta corrispondenza, chiusa o aperta che sia.

Orbene, nel caso di specie, anche a voler ritenere che l'atto giudiziario diretto alla reale destinataria non fosse "chiuso" e, quindi, nella prospettiva qui disattesa, coperto dal segreto (tale circostanza non emerge dalle sentenze di merito), è evidente come la disposizione citata sanzioni anche - nella seconda parte del primo comma - la condotta di chi si appropri senza autorizzazione, proditoriamente e con l'inganno, della "comunicazione" diretta ad altri ancorchè non "chiusa" ma "aperta", a garanzia della riservatezza della sfera personale di ciascuno rispetto ad informazioni a lui solo dirette.

Neppure può revocarsi in dubbio che, all'interno di un "genus" così ampio quale è quello della corrispondenza, inteso proprio nel senso evocato dalla sentenza Sez. 5, n. 12603 del 2/2/2017, Segagni, Rv. 269517, possa rientrare un atto giudiziario, comunque notificato, non essendo rilevante l'utilizzo del mezzo postale al fine dell'inserimento della comunicazione della categoria normativa della "corrispondenza" (si pensi, oltre alla fattispecie in esame, a quella, più frequente e banale, di lettere o altri scritti lasciati direttamente ed "a mano" nella cassetta adibita a raccolta nominativa da parte del destinatario) e, d'altra parte, dovendo tale tipologia di scritto essere ricompresa nel novero, ampio, di quelle "comunicazioni umane statiche" che configurano un "pensiero già comunicato o da comunicare fissato su supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale", secondo le indicazioni della pronuncia ora richiamata.

Invero, la sentenza da cui si è voluto trarre spunto per ritenere non applicabile all'ipotesi concreta in esame la disposizione prevista dall'art. 616 cod. pen., lungi dall'offrire argomenti contrari alla configurabilità del reato in parola nel caso di sottrazione di un atto giudiziario contenuto in uno scritto comunicativo assimilabile alla "corrispondenza", ha inteso sancire i confini tra le fattispecie collegate previste dagli artt. 616, 617 e 623- bis del codice penale, chiarendo come "nell'ambito di una non nitida sistematica quale è quella che caratterizza le incriminazioni poste a tutela della inviolabilità delle comunicazioni, deve ritenersi che la possibile interferenza tra le fattispecie punite dagli artt. 616 e 617 c.p. (determinata dalla comune previsione della condotta di colui che prende cognizione della corrispondenza o delle comunicazioni altrui) sia solo apparente. In realtà le stesse hanno ambiti operativi ben definiti dalla diversa configurazione dell'oggetto materiale della condotta, anche indipendentemente dalle specifiche connotazioni modali che la caratterizzano nell'art. 617 e che invece non sono previste nell'art. 616."

In tal senso, si è voluto precisare che la "corrispondenza" costituisce null'altro che una species del genus "comunicazione", ma che, nell'ambito dell'art. 617 cod. pen., quest'ultimo termine non identifichi il genus nella sua astratta omnicomprensività, ma assuma un significato maggiormente specializzato, riferibile al profilo "dinamico" della comunicazione umana e cioè alla trasmissione in atto del pensiero, come suggeriscono anche l'ulteriore termine dispiegato per definire l'oggetto materiale del reato ("conversazione") e le condotte alternative a quella di fraudolenta cognizione idonee ad integrare il fatto tipico (interrompere ed impedire), differenziandolo, così, dal concetto "statico" di comunicazione offerto dall'art. 616 cit. e concludendo, nella fattispecie decisa (in cui l'imputato aveva preso cognizione del contenuto della corrispondenza telematica altrui conservata nell'archivio di posta elettronica di uno degli interlocutori), per la configurabilità dell'art. 616 commi 1 e 4 cod. pen. e non già, come ritenuto dai giudici di merito, a quello degli artt. 617, comma 1, cod. pen. (anche tenendo conto della sua integrazione ad opera dell'art. 623-bis c.p.).

Non vi sono argomenti per trarre, da tale operazione di chiarificazione ermeneutica, spunti interpretativi contrari alla tesi qui sostenuta.

2.1. Deve affermarsi, pertanto, che configura il reato previsto dall'art. 616 cod. pen. la condotta di chi sottrae o distrae, al fine di prenderne visione, ovvero distrugge o sopprime, un atto giudiziario diretto ad altri (nella specie un decreto penale di condanna), rientrando anche tale comunicazione nel concetto di "corrispondenza" individuato dalla disposizione incriminatrice.

Rimane irrilevante, ai fini della sussistenza del reato, il movente della condotta così come non costituisce discrimen la modalità di notifica con cui l'autore del delitto si sia appropriato dello scritto (che, nel caso di specie, non è noto se sia stato distrutto, successivamente alla sicura prova della sua ingannevole distrazione da parte dell'agente, essendo venuta a conoscenza la parte offesa della vicenda penale che la riguardava non perché tale atto le sia stato restituito).

3. Quanto alle doglianze effettivamente proposte nel ricorso formulato dal ricorrente, e relative alla dosimetria sanzionatoria, si rileva la loro infondatezza.
La Corte d'Appello ha ampiamente argomentato sulle ragioni, del tutto plausibili, sulla base delle quali ha ritenuto la condotta del ricorrente di particolare allarme sociale, semplicemente aggiungendo un dato di fatto idoneo a svelare la personalità criminale dell'imputato e la particolare intensità del dolo dimostrato dalle circostanze di realizzazione del fatto, e cioè le condizioni psicologiche del ricorrente ed il suo tratto comportamentale "manipolatorio" della realtà, risultato da una perizia psichiatrica svolta in dibattimento.

3.1. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed al rigetto segue la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 23 marzo 2021.