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Disertori hanno diritto alla protezione internazionale (CGUE, Shepard, 2015)

26 febbraio 2015, Corte di Giustizia dell'Unione Europea

Le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta devono essere interpretate nel senso

–        che esse riguardano tutto il personale militare, compreso il personale logistico e di sostegno;

–        che esse comprendono la situazione in cui il servizio militare prestato comporterebbe di per sé, in un determinato conflitto, la commissione di crimini di guerra, includendo le situazioni in cui il richiedente lo status di rifugiato parteciperebbe solo indirettamente alla commissione di detti crimini in quanto, esercitando le sue funzioni, fornirebbe, con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi;

–        che esse non riguardano esclusivamente le situazioni in cui è accertato che sono stati già commessi crimini di guerra o le situazioni che potrebbero rientrare nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, ma anche quelle in cui il richiedente lo status di rifugiato può dimostrare che esiste un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi;

–        che la valutazione dei fatti spettante alle sole autorità nazionali, sotto il controllo del giudice, per qualificare la situazione di servizio controversa, deve basarsi su un insieme di indizi tali da stabilire, tenuto conto di tutte le circostanze di cui trattasi, in particolare di quelle relative agli elementi pertinenti riguardanti il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione sulla domanda, lo status individuale e la situazione personale del richiedente, che la situazione del servizio rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti;

–        che le circostanze che un intervento militare sia stato intrapreso in forza di un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o sul fondamento di un consenso della comunità internazionale e che lo Stato o gli Stati che conducono le operazioni reprimano i crimini di guerra devono essere prese in considerazione nell’ambito della valutazione spettante alle autorità nazionali;

–        che il rifiuto di prestare il servizio militare deve costituire il solo mezzo che permetta al richiedente lo status di rifugiato di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti, e che, di conseguenza, se quest’ultimo ha omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, tale circostanza esclude ogni protezione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, a meno che detto richiedente non dimostri che non aveva a disposizione, nella sua situazione concreta, nessuna procedura siffatta.

Le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 devono essere interpretate nel senso che, in circostanze come quelle del procedimento principale, non risulta che i provvedimenti in cui incorre un militare a causa del suo rifiuto di prestare servizio, quali la condanna a una pena detentiva o il congedo con disonore, possano essere considerati, rispetto al legittimo esercizio da parte dello Stato interessato del suo diritto di mantenere una forza armata, a tal punto sproporzionati o discriminatori da rientrare tra gli atti di persecuzione considerati in tali disposizioni. Spetta tuttavia alle autorità nazionali verificare tale circostanza.

 

Corte di giustizia dell'Unione Europea  

Seconda Sezione

26 febbraio 2015 (*) -  ECLI:EU:C:2015:117

 

«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Asilo – Direttiva 2004/83/CE – Articolo 9, paragrafo 2, lettere b), c) ed e) – Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato – Condizioni per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato – Atti di persecuzione – Sanzioni penali nei confronti di un militare degli Stati Uniti che ha rifiutato di prestare servizio in Iraq»

Nella causa C‑472/13,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Bayerisches Verwaltungsgericht München (Germania), con decisione del 20 agosto 2013, pervenuta in cancelleria il 2 settembre 2013, nel procedimento

Andre Lawrence Shepherd

contro

Bundesrepublik Deutschland,

LA CORTE (Seconda Sezione),

composta da R. Silva de Lapuerta, presidente di sezione, K. Lenaerts, vicepresidente della Corte, facente funzione di giudice della Seconda Sezione, J.‑C. Bonichot (relatore), A. Arabadjiev e J.L. da Cruz Vilaça, giudici,

avvocato generale: E. Sharpston

cancelliere: I. Illéssy, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 25 giugno 2014,

considerate le osservazioni presentate:

–        per A.L. Shepherd, da R. Marx, Rechtsanwalt;

–        per il governo tedesco, da T. Henze, A. Wiedmann e K. Petersen, in qualità di agenti;

–        per il governo ellenico, da M. Michelogiannaki, in qualità di agente;

–        per il governo dei Paesi Bassi, da M. Bulterman e B. Koopman, in qualità di agenti;

–        per il governo del Regno Unito, da M. Holt, in qualità di agente, assistito da S. Fatima, barrister;

–        per la Commissione europea, da M. Condou-Durande e W. Bogensberger, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza dell’11 novembre 2014,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b), c) ed e), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU L 304, pag. 12, e rettifiche in GU 2005, L 204, pag. 24, e GU 2011, L 278, pag. 13).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Shepherd, cittadino degli Stati Uniti d’America, e la Bundesrepublik Deutschland vertente sulla decisione di quest’ultima di negargli lo status di rifugiato.

 Contesto normativo

 La convenzione relativa allo status dei rifugiati

3        Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, della convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], ed entrata in vigore il 22 aprile 1954 (in prosieguo: la «convenzione di Ginevra»), quale completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore, quest’ultimo, il 4 ottobre 1967, il termine «rifugiato» si applica a colui che, «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».

 La direttiva 2004/83

4        La direttiva 2004/83 contiene i seguenti considerando:

«(1)      Una politica comune nel settore dell’asilo, che preveda un regime europeo comune in materia di asilo, costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione [nell’Unione].

(...)

(3)      La convenzione di Ginevra (…) [costituisce] la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.

(...)

(6)      Lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri.

(...)

(16)      Dovrebbero essere stabilite norme minime per la definizione ed il contenuto dello status di rifugiato, al fine di orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione della convenzione di Ginevra.

(17)      È necessario introdurre dei criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo della qualifica di rifugiati ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra».

5        Ai sensi del suo articolo 1, la direttiva 2004/83 ha lo scopo di stabilire norme minime, da un lato, sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale e, dall’altro, sul contenuto della protezione riconosciuta.

6        Ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, ai fini della stessa, per «rifugiato» si intende il «cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (...)».

7        L’articolo 4 di detta direttiva definisce le condizioni per l’esame dei fatti e delle circostanze pertinenti che il richiedente è tenuto a esporre al fine di motivare la sua domanda di protezione internazionale. Detto articolo, al paragrafo 3, così dispone:

«L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:

a)      di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione;

b)      della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni (...);

c)      della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

(...)».

8        L’articolo 9 della stessa direttiva, intitolato «Atti di persecuzione», definisce questi ultimi, nei suoi paragrafi 1 e 2, in tali termini:

«1.      Gli atti di persecuzione ai sensi dell’articolo [1, sezione A,] della convenzione di Ginevra devono:

a)      essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della [convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950], oppure

b)      costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).       

2.      Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:  

(...)

b)      provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;

c)      azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;  

(...)

e)      azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2;

(...)».

9        L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2004/83 richiede che esista un collegamento tra i motivi di persecuzione di cui all’articolo 10 della medesima e gli atti di persecuzione.

10      L’articolo 12 di detta direttiva, intitolato «Esclusione», ai suoi paragrafi 2 e 3 enuncia quanto segue:

«2.      Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato ove sussistano fondati motivi per ritenere:  

a)      che abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

b)      che abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato, abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune;

c)      che si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni unite.

3.      Il paragrafo 2 si applica alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati».

11      Ai sensi dell’articolo 13 della medesima direttiva 2004/83, lo Stato membro riconosce lo status di rifugiato al richiedente che soddisfa, in particolare, i requisiti previsti dai suoi articoli 9 e 10.

 Il diritto tedesco

12      Ai sensi dell’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della legge sulla procedura d’asilo (Asylverfahrensgesetz), del 27 luglio 1993 (BGBl. 1993 I, pag. 1361), nella versione pubblicata il 2 settembre 2008 (BGBl. 2008 I, pag. 1798; in prosieguo: l’«AsylVfG»), cui si riferisce il giudice del rinvio:

«1.      Uno straniero è un rifugiato a norma della convenzione [di Ginevra] quando egli, nello Stato di cui ha la cittadinanza o, in caso di apolide, in quello dove ha il suo domicilio abituale, sia esposto a minacce ai sensi dell’articolo 60, paragrafo 1, della legge relativa al soggiorno, all’attività professionale e all’integrazione degli stranieri sul territorio federale (Gesetz über den Aufenthalt, die Erwerbstätigkeit und die Integration von Ausländern im Bundesgebiet), del 30 luglio 2004 (BGBl. 2004 I, pag. 1950; in prosieguo: l’“Aufenthaltsgesetz”).

2.      Uno straniero è escluso dallo status di rifugiato ai sensi del paragrafo 1 ove sussistano fondati motivi per ritenere:

1)      che abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

2)      che abbia commesso un reato grave di diritto comune al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso come rifugiato, in particolare un atto crudele, anche quando quest’ultimo sia stato commesso con un dichiarato obiettivo politico, oppure

3)      che abbia commesso atti contrari ai principi e alle finalità delle Nazioni Unite.

Il primo periodo si applica agli stranieri che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati».

13      L’articolo 60, paragrafo 1, dell’Aufenthaltsgesetz, nella versione pubblicata il 25 febbraio 2008 (BGBl. 2008 I, pag. 162), così recita:

«1.      In applicazione della convenzione [di Ginevra] (...), uno straniero non può essere espulso verso uno Stato nel quale la sua vita o la sua libertà siano minacciate a causa della sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche (...). Una persecuzione ai sensi del primo periodo può provenire

a)      dallo Stato,

b)      dai partiti o dalle organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, oppure

c)      da soggetti non statali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro la persecuzione, e ciò a prescindere dal fatto che nel paese ci sia o meno un potere sovrano statale,

salvo che sussista la possibilità di asilo interno. Per valutare se si configuri una persecuzione ai sensi del primo periodo occorre applicare in modo complementare l’articolo 4, paragrafo 4, e gli articoli da 7 a 10 della direttiva 2004/83 (...). Quando uno straniero si richiama al divieto di espulsione ai sensi di detto paragrafo, il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge [(Ufficio federale tedesco competente in materia di immigrazione e rifugiati)] (...) accerta in una procedura d’asilo se sussistono i presupposti del primo periodo e se occorra riconoscere allo straniero lo status di rifugiato. La decisione del Bundesamt für Migration und Flüchtlinge può essere impugnata soltanto sulla base delle norme dell’[AsylVfG]».

 Procedimento principale e questioni pregiudiziali

14      Il sig. Shepherd, cittadino statunitense, nel dicembre 2003 si è arruolato nelle forze armate del suo paese impegnandosi a prestare servizio nelle truppe attive per quindici mesi. Egli ha ricevuto una formazione come tecnico per la manutenzione di elicotteri e, nel settembre 2004 è stato trasferito presso un battaglione di supporto aereo a Katterbach (Germania). All’epoca la sua unità era già impegnata in Iraq ed egli ha pertanto raggiunto il campo di Speicher, vicino a Tikrit (Iraq).

15      Tra il settembre 2004 e il febbraio 2005 ha lavorato alla manutenzione degli elicotteri e non ha partecipato direttamente ad azioni militari o di combattimento.

16      Nel febbraio 2005 la sua unità è stata riassegnata in Germania. Egli ha chiesto una proroga del suo contratto.

17      Il 1° aprile 2007 il sig. Shepherd ha ricevuto un ordine di missione per tornare in Iraq. In data 11 aprile 2007, prima di partire dalla Germania, egli ha lasciato le forze armate, considerando di non dover più partecipare a una guerra in Iraq che riteneva illegittima e ai crimini di guerra ivi commessi. Egli ha soggiornato presso un conoscente fino al deposito della sua domanda di asilo, nell’agosto del 2008, presso le autorità tedesche competenti. A sostegno della sua domanda egli ha rilevato in sostanza che per il suo rifiuto di prestare servizio militare in Iraq egli temeva di essere perseguito penalmente e che, poiché nell’ottica statunitense la diserzione costituiva un reato molto grave, la sua esistenza sarebbe stata rovinata dalla stigmatizzazione sociale che egli avrebbe subito nel suo paese.

18      Il Bundesamt für Migration und Flüchtlinge ha respinto la domanda di asilo con decisione del 31 marzo 2011.

19      L’interessato ha chiesto al giudice del rinvio l’annullamento di tale decisione e il riconoscimento dello status di rifugiato, basando la sua domanda sul combinato disposto dell’articolo 3, paragrafi 1 e 4, dell’AsylVfG e dell’articolo 60, paragrafo 1, dell’Aufenthaltsgesetz.

20      Per il giudice del rinvio, oltre a stabilire se il richiedente sarà in futuro minacciato di persecuzione nel proprio paese di origine a causa della sua diserzione, è necessario, in particolare, determinare il livello di coinvolgimento nelle operazioni militari che si esige da un membro delle forze armate affinché le sanzioni che conseguono alla sua diserzione siano qualificabili come «atti di persecuzione», ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, dato che l’espressione «servizio militare [che comporta] la commissione di crimini (...) di cui all’articolo 12, paragrafo 2» ivi figurante non è chiaramente definita.

21      Il tale contesto il Bayerisches Verwaltungsgericht München ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 debba essere interpretato nel senso che ricadono nell’ambito della tutela solo quelle persone i cui concreti incarichi militari consistano nella diretta partecipazione ai combattimenti e quindi a operazioni che prevedono l’impiego di armi, o che dispongano dei poteri per ordinare simili operazioni (prima alternativa), o se anche altri membri delle forze armate possano beneficiare della tutela accordata da detta disciplina quando il loro incarico si esaurisca nel sostegno logistico e tecnico alle truppe al di fuori delle operazioni militari vere e proprie e abbia effetti solo indiretti sull’effettivo andamento dei combattimenti (seconda alternativa).

2)      In caso di risposta alla prima questione nel senso della seconda alternativa:

se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 debba essere interpretato nel senso che il servizio militare prestato nell’ambito di un conflitto (internazionale o nazionale) debba indurre o obbligare, prevalentemente o in modo sistematico, a commettere crimini, reati o atti ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/83 (prima alternativa), o se sia sufficiente che il richiedente asilo dimostri che le forze armate cui egli appartiene abbiano commesso in singoli casi, nella zona delle operazioni in cui esse sono intervenute, crimini ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/83, perché singoli ordini operativi sono risultati essere criminosi ai sensi di tale norma o perché si sono verificati eccessi da parte di singole persone (seconda alternativa).

3)      In caso di risposta alla seconda questione nel senso della seconda alternativa:

se la protezione come rifugiato sia concessa solo quando sia altamente probabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, che si verificheranno anche in futuro violazioni del diritto umanitario internazionale o se sia sufficiente che il richiedente asilo deduca circostanze indicanti che, nel quadro dello specifico conflitto, vengono commessi (necessariamente o verosimilmente) tali crimini e che pertanto non è possibile escludere che egli possa esserne coinvolto.

4)      Se la circostanza che un tribunale militare non tolleri o sanzioni le violazioni del diritto umanitario internazionale escluda una protezione come rifugiato ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 o se la suddetta circostanza sia invece irrilevante.

Se occorra addirittura che sia intervenuta una sanzione da parte della Corte Penale Internazionale.

5)      Se la protezione come rifugiato sia esclusa in virtù del fatto che l’intervento delle forze armate o lo statuto di occupazione siano legittimati dalla comunità internazionale o si fondino su un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

6)      Se, ai fini del riconoscimento della protezione come rifugiato ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, sia necessario che il richiedente asilo possa essere condannato per l’esercizio delle sue funzioni in base allo statuto della Corte penale internazionale (prima alternativa), o se la tutela come rifugiato debba essere già accordata quando tale soglia non sia raggiunta, vale a dire quando il richiedente asilo non abbia motivo di temere una sanzione penale, ma ragioni di coscienza ostino alla prestazione del servizio militare (seconda alternativa).

7)      In caso di risposta alla sesta questione pregiudiziale nel senso della seconda alternativa:

se il mancato ricorso da parte del richiedente asilo alla normale procedura di obiezione di coscienza, pur sussistendone la possibilità, escluda la protezione come rifugiato a norma delle succitate disposizioni o se la tutela come rifugiato sia ammissibile anche quando si tratti di una decisione di coscienza attuale.

8)      Se il congedo con disonore e la condanna a una pena detentiva, con conseguente ostracismo sociale e ripercussioni negative, rappresentino un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera b) o c), della direttiva 2004/83».

 Sulle questioni pregiudiziali

 Osservazioni preliminari

22      Occorre ricordare, in primo luogo, che dai considerando 3, 16 e 17 della direttiva 2004/83 risulta che la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati e che le disposizioni di tale direttiva relative alle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato nonché al contenuto del medesimo sono state adottate al fine di aiutare le autorità competenti degli Stati membri ad applicare detta convenzione basandosi su nozioni e criteri comuni (sentenza X e a., da C‑199/12 a C‑201/12, EU:C:2013:720, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

23      L’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2004/83 deve pertanto essere effettuata alla luce dell’impianto sistematico e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Tale interpretazione deve inoltre avvenire, come risulta dal considerando 10 di tale direttiva, nel rispetto dei diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (sentenza X e a., EU:C:2013:720, punto 40).

24      Si deve ricordare, in secondo luogo, che in conformità all’articolo 2, lettera c), della direttiva 2004/83, il rifugiato è, in particolare, un cittadino di un paese terzo che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza «per il timore fondato di essere perseguitato» per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale e non può o, «a causa di tale timore», non vuole avvalersi della «protezione» di detto paese. Il cittadino in questione, quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine, deve trovarsi di fronte al fondato timore di una persecuzione contro la sua persona per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella convenzione di Ginevra (sentenza Salahadin Abdulla e a., C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105, punti 56 e 57).

25      In terzo luogo, si deve sottolineare che l’articolo 9 della direttiva 2004/83 definisce gli elementi che consentono di qualificare taluni atti come atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra. A tale riguardo, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva precisa che gli atti pertinenti devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti assoluti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Peraltro, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), di detta direttiva precisa che dev’essere considerata una persecuzione anche la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello indicato all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della stessa direttiva. Da tali disposizioni risulta che, affinché una violazione dei diritti fondamentali costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra, essa deve raggiungere un determinato livello di gravità (sentenza X e a., EU:C:2013:720, punti da 51 a 53).

26      In quarto luogo occorre rilevare che, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, lettere a), b) e c), della direttiva 2004/83, in sede di esame, su base individuale, della domanda di protezione internazionale si deve tenere conto di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente nonché della situazione individuale e delle circostanze personali di quest’ultimo.

27      Alla luce di tali considerazioni devono essere interpretate le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, cui si riferisce il giudice del rinvio nelle sue prime sette questioni, e quelle dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), cui si riferisce il giudice del rinvio nella sua ottava questione.

28      In tale prospettiva, si deve altresì ricordare che ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2004/83, «[g]li atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di: (...) b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; (...) e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2».

29      Peraltro, riguardo all’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/83, come ha rilevato l’avvocato generale nei paragrafi da 39 a 43 delle sue conclusioni, nel contesto del procedimento principale rileva soltanto il riferimento ai «crimin[i] di guerra» di cui alla lettera a) di tale paragrafo.

 Sulle questioni dalla prima alla settima

30      Con tali questioni, che occorre esaminare unitamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 debbano essere interpretate nel senso che talune circostanze relative in particolare alla natura delle funzioni esercitate dal militare interessato, del rifiuto da lui opposto, del conflitto di cui trattasi e dei crimini che quest’ultimo comporterebbe, hanno un’influenza determinante sulla valutazione che le autorità nazionali devono compiere per verificare che una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione di tali disposizioni.

31      Prima di valutare quindi la portata di tali circostanze, si deve rilevare, da un lato, che è pacifico che, nel procedimento principale, il cittadino che chiede il riconoscimento dello status di rifugiato si espone ad azioni giudiziarie e a sanzioni nel suo paese di origine per aver rifiutato di prestare il suo servizio in occasione di un conflitto. Di conseguenza, le presenti questioni, come risulta peraltro dalla decisione di rinvio, non riguardano i motivi di persecuzione, di cui all’articolo 10 della direttiva 2004/83, ma soltanto le circostanze da riscontrare perché tali azioni giudiziarie e sanzioni possano essere qualificate come «atti di persecuzione» di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di tale direttiva.

32      Dall’altro lato si deve ricordare che l’obiettivo della direttiva 2004/83 consiste, come risulta dai suoi considerando 1 e 6, nell’identificare le persone che, spinte dalle circostanze, hanno effettivamente e legittimamente bisogno di protezione internazionale nell’Unione. Il contesto di tale direttiva è essenzialmente umanitario (v., in tal senso, sentenza B e D, C‑57/09 e C‑101/09, EU:C:2010:661, punto 93).

33      In tale ambito si deve constatare che le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, nel contemplare l’ipotesi del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto quando questo comporterebbe la commissione di crimini di guerra, non rivelano un’accezione restrittiva quanto alle persone che prestano servizio militare. Si deve quindi ammettere che il legislatore dell’Unione, nell’adottare tali disposizioni, non ha inteso limitarne l’efficacia a vantaggio di determinate categorie di persone che prestano servizio militare in considerazione, in particolare, del loro rango nella gerarchia militare, delle loro condizioni di assunzione o anche della natura delle attività da esse svolte. Come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, tali disposizioni si riferiscono a tutto il personale militare, incluso pertanto quello di sostegno logistico o tecnico.

34      Tuttavia, tenuto conto dell’obiettivo della direttiva 2004/83, ricordato al punto 32 della presente sentenza, che è inteso a identificare le persone che, spinte dalle circostanze, hanno effettivamente e legittimamente bisogno di protezione internazionale nell’Unione, la qualità di personale militare costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente per beneficiare della protezione derivante dalle disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di tale direttiva.

35      Per quanto riguarda, anzitutto, le condizioni di applicazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, si deve rilevare, in primo luogo, che tale disposizione riguarda una situazione di conflitto. Ne risulta che qualsiasi rifiuto di prestare servizio militare, qualunque ne sia il motivo, non potrebbe, al di fuori di siffatta situazione di conflitto, rientrare nel campo di applicazione di tale disposizione. Le circostanze, la cui portata si chiede alla Corte di valutare al fine di delimitare tale ambito di applicazione, devono pertanto essere in rapporto diretto con un conflitto determinato.

36      In secondo luogo, dallo stesso testo dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, risulta che il servizio militare stesso comporterebbe la commissione di crimini di guerra. Tale disposizione non riguarda soltanto la situazione in cui il richiedente sarebbe personalmente indotto a commettere siffatti crimini.

37      Ne risulta che il legislatore dell’Unione ha voluto che si prendesse in considerazione in modo oggettivo il contesto generale in cui tale servizio è prestato. Non sono quindi escluse, in linea di principio, le situazioni in cui il richiedente parteciperebbe soltanto indirettamente alla commissione di siffatti crimini, poiché, in particolare, egli non apparterrebbe alle truppe da combattimento ma, ad esempio, sarebbe assegnato ad un’unità di logistica o di sostegno. Di conseguenza, la circostanza che l’interessato, a causa del carattere semplicemente indiretto di tale partecipazione, non possa essere personalmente perseguito secondo i criteri del diritto penale, e in particolare secondo i criteri rilevanti per la Corte penale internazionale, non può ostare alla protezione derivante dall’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83.

38      Tuttavia, anche se il beneficio della protezione internazionale non è riservato a coloro che potrebbero personalmente essere spinti a commettere atti qualificati come crimini di guerra, in particolare alle truppe da combattimento, tale protezione può essere estesa alle sole altre persone che esercitano funzioni tali da poterle indurre, in modo sufficientemente diretto e con ragionevole plausibilità, a partecipare a tali atti.

39      In terzo luogo, l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 mira a proteggere il richiedente che si oppone al servizio militare per non esporsi al rischio di commettere, in futuro, atti aventi la stessa natura di quelli contemplati nell’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva. L’interessato può quindi soltanto basarsi sulla plausibilità della sopravvenienza di tali atti. Ne risulta che tali disposizioni di detta direttiva non possono essere interpretate quali riferite esclusivamente a situazioni in cui è accertato che l’unità cui appartiene il richiedente abbia già commesso crimini di guerra. Non si può nemmeno esigere che atti di tale unità siano già stati sanzionati dalla Corte penale internazionale, anche presumendo la competenza di quest’ultima al riguardo.

40      In quarto ed ultimo luogo, pur se, nell’ambito della valutazione dei fatti cui, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2004/83, spetta alle sole autorità nazionali procedere, sotto il controllo del giudice, per qualificare la situazione del servizio controversa, taluni avvenimenti quali, in particolare, il passato comportamento dell’unità cui appartiene il richiedente o le condanne penali pronunciate contro membri di tale unità possono costituire uno degli indizi della probabilità che quest’ultima commetta nuovamente crimini di guerra, essi non potrebbero di per sé soli, nel momento in cui il richiedente lo status di rifugiato opponga il rifiuto di prestare servizio, attestare automaticamente la plausibilità della commissione di tali crimini. In tali condizioni, la valutazione che le autorità nazionali devono compiere può solo basarsi su una pluralità di indizi, unico modo per stabilire, considerate tutte le circostanze di cui trattasi, che la situazione relativa a tale servizio rende plausibile la realizzazione di atti siffatti.

41      Riguardo, inoltre, all’importanza che occorre riconoscere alla circostanza che lo Stato interessato reprime i crimini di guerra o a quella che l’intervento armato sarebbe stato intrapreso su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite o sulla base di un consenso della comunità internazionale, si deve rilevare, da un lato, che un intervento armato condotto in base a una risoluzione di detto Consiglio offre, in linea di principio, tutte le garanzie che in occasione dello stesso non saranno mai commessi crimini di guerra, e lo stesso vale, in linea di principio, per un’operazione che benefici di un consenso internazionale. In tali condizioni, anche se non è mai possibile escludere che nell’ambito delle operazioni di guerra siano commessi atti contrari ai principi stessi della carta delle Nazioni Unite, la circostanza che l’intervento armato abbia luogo in un tale contesto dev’essere presa in considerazione.

42      Si deve rilevare, dall’altro lato, che conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/83, una siffatta importanza dev’essere altresì riconosciuta alla circostanza che lo Stato o gli Stati che conducono le operazioni reprimano i crimini di guerra. L’esistenza, nell’ordinamento giuridico di tali Stati, di una normativa che punisce i crimini di guerra e di organi giurisdizionali che ne assicurano l’effettiva repressione rende poco plausibile la tesi secondo cui un militare di uno di tali Stati potrebbe essere spinto a commettere tali crimini e di conseguenza non se ne può in nessun caso prescindere.

43      Da ciò risulta che, in tali condizioni, spetta a colui che intende ottenere il riconoscimento della qualità di rifugiato ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, dimostrare con sufficiente plausibilità che l’unità cui appartiene conduce le operazioni assegnatele, o le ha in passato condotte, in condizioni tali da rivelare un’alta probabilità che siano commessi atti della natura di quelli indicati in tale disposizione.

44      Infine, dal momento che gli atti di persecuzione lamentati dal richiedente lo status di rifugiato, in base a tali disposizioni della direttiva 2004/83, devono conseguire al suo rifiuto di prestare servizio, tale rifiuto deve costituire il solo mezzo che permette a tale richiedente di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti. Al riguardo, nella valutazione ad esse incombente, le autorità nazionali devono tenere conto, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2004/83, del fatto, in particolare, che nella fattispecie detto richiedente non solo si è arruolato volontariamente nelle forze armate quando esse erano già coinvolte nel conflitto in Iraq, ma, dopo essersi fermato una prima volta in tale paese al seguito di queste ultime, ha prorogato il proprio periodo di servizio presso le stesse.

45      Ne consegue che la circostanza, invocata dal giudice del rinvio nella sua settima questione, che il richiedente lo status di rifugiato si sarebbe astenuto dal ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza esclude ogni protezione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, a meno che detto richiedente non dimostri di non aver potuto disporre, nella sua situazione concreta, di nessuna procedura siffatta.

46      Tenuto conto di tutte le suddette considerazioni, si deve rispondere alle questioni dalla prima alla settima che le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83 devono essere interpretate nel senso

–        che esse riguardano tutto il personale militare, compreso il personale logistico o di sostegno;

–        che esse ricomprendono la situazione in cui il servizio militare prestato comporterebbe di per sé, in un determinato conflitto, la commissione di crimini di guerra, includendo le situazioni in cui il richiedente lo status di rifugiato parteciperebbe solo indirettamente alla commissione di detti crimini in quanto, esercitando le sue funzioni, fornirebbe, con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi;

–        che esse non riguardano esclusivamente le situazioni in cui è accertato che sono stati già commessi crimini di guerra o le situazioni che potrebbero rientrare nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, ma anche quelle in cui il richiedente lo status di rifugiato può dimostrare che esiste un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi;

–        che la valutazione dei fatti spettante alle sole autorità nazionali, sotto il controllo del giudice, per qualificare la situazione di servizio controversa, deve basarsi su un insieme di indizi tali da stabilire, tenuto conto di tutte le circostanze di cui trattasi, in particolare di quelle relative agli elementi pertinenti riguardanti il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione sulla domanda, lo status individuale e la situazione personale del richiedente, che la situazione del servizio rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti;

–        che le circostanze che un intervento militare sia stato intrapreso in forza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite o sul fondamento di un consenso della comunità internazionale e che lo Stato o gli Stati che conducono le operazioni reprimano i crimini di guerra devono essere prese in considerazione nell’ambito della valutazione spettante alle autorità nazionali, e

–        che il rifiuto di prestare il servizio militare deve costituire il solo mezzo che permetta al richiedente lo status di rifugiato di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti, e che, di conseguenza, se quest’ultimo ha omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, tale circostanza esclude ogni protezione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, a meno che detto richiedente non dimostri che non aveva a disposizione, nella sua situazione concreta, nessuna procedura siffatta.

 Sull’ottava questione

47      Con la sua ottava questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 debbano essere interpretate nel senso che, tra gli atti di persecuzione da esse contemplati, devono essere ammesse le misure in cui incorre un militare in conseguenza del suo rifiuto di prestare servizio militare, come la condanna a una pena detentiva e il congedo con disonore, con conseguente ostracismo sociale e ripercussioni negative.

48      Tenuto conto delle considerazioni del giudice del rinvio a sostegno delle sue precedenti questioni, si deve presumere che esso riferisca la presente questione alla sola ipotesi in cui le autorità nazionali competenti per l’esame della domanda del ricorrente nel procedimento principale considerino non dimostrato che il servizio che egli ha rifiutato di prestare avrebbe comportato la commissione di crimini di guerra.

49      Occorre pertanto rilevare, anzitutto, che le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 riguardano atti adottati dalle autorità pubbliche e il cui carattere discriminatorio o sproporzionato deve, ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo, raggiungere un determinato livello di gravità, come ricordato al punto 25 della presente sentenza, affinché essi possano comportare una violazione dei diritti fondamentali costitutiva di una persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra.

50      Come rilevato dall’avvocato generale al punto 80 delle sue conclusioni, determinare se le azioni giudiziarie e le sanzioni in cui incorrerebbe il ricorrente nel procedimento principale nel suo paese di origine, a causa del suo rifiuto di prestare servizio militare, siano sproporzionate, presuppone che si verifichi che tali atti vanno oltre quanto necessario allo Stato interessato per esercitare il suo legittimo diritto di mantenere una forza armata.

51      Anche se la valutazione di tale necessità comporta che si prendano in considerazione elementi di natura diversa, in particolare di natura politica e strategica, su cui tale diritto è fondato e che ne delimitano le condizioni di esercizio, nessun elemento del fascicolo sottoposto alla Corte permette di considerare che un siffatto diritto, nel contesto del procedimento principale, dovrebbe essere rimesso in discussione, né di considerare che il suo esercizio non giustificherebbe l’irrogazione di sanzioni penali ai militari che intendano sottrarsi alla prestazione del servizio, o la decisione, in tal caso, del loro congedo con disonore.

52      Benché dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio risulti che il ricorrente nel procedimento principale sarebbe incorso in una pena detentiva compresa tra i 100 giorni e i 15 mesi, per diserzione, che poteva persino arrivare a un massimo di cinque anni, nessun elemento nel fascicolo sottoposto alla Corte consente di considerare che tali misure vadano manifestamente oltre quanto necessario allo Stato interessato per esercitare il suo legittimo diritto di mantenere una forza armata.

53      Spetta tuttavia alle autorità nazionali interessate procedere al riguardo a un esame di tutti gli elementi pertinenti riguardanti il paese di origine del richiedente lo status di rifugiato, compresi, come prevede l’articolo 4, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/83, le leggi e i regolamenti di quest’ultimo e il modo in cui sono applicati.

54      Inoltre, quanto al controllo del carattere discriminatorio degli atti di cui trattasi, occorrerebbe verificare se, rispetto agli obiettivi di una normativa fondata sul legittimo esercizio del diritto di mantenere una forza armata, la situazione dei militari che rifiutino di prestare servizio possa essere comparata a quella di altre persone, per accertare se le sanzioni inflitte ai primi possano rivelarsi manifestamente discriminatorie. Orbene, gli elementi del fascicolo sottoposto alla Corte non consentono di considerare esistente, nella fattispecie, una situazione comparabile siffatta. La verifica al riguardo spetta in ogni caso alle autorità nazionali.

55      Infine, l’«ostracismo sociale e [le] ripercussioni negative» evocati nella questione dal giudice del rinvio risultano essere soltanto le conseguenze dei provvedimenti, delle azioni giudiziarie o sanzioni di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 e non possono pertanto essere considerati, in quanto tali, ricompresi tra queste ultime.

56      Tenuto conto delle considerazioni che precedono, si deve rispondere all’ottava questione che le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 devono essere interpretate nel senso che, in circostanze come quelle del procedimento principale, non risulta che i provvedimenti in cui incorre un militare a causa del suo rifiuto di prestare servizio, quali la condanna a una pena detentiva o il congedo con disonore possano essere considerati, rispetto al legittimo esercizio da parte dello Stato interessato del suo diritto di mantenere una forza armata, a tal punto sproporzionati o discriminatori da rientrare tra gli atti di persecuzione considerati in tali disposizioni. Spetta tuttavia alle autorità nazionali verificare tale circostanza.

 Sulle spese

57      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:

1)      Le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta devono essere interpretate nel senso

–        che esse riguardano tutto il personale militare, compreso il personale logistico e di sostegno;

–        che esse comprendono la situazione in cui il servizio militare prestato comporterebbe di per sé, in un determinato conflitto, la commissione di crimini di guerra, includendo le situazioni in cui il richiedente lo status di rifugiato parteciperebbe solo indirettamente alla commissione di detti crimini in quanto, esercitando le sue funzioni, fornirebbe, con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi;

–        che esse non riguardano esclusivamente le situazioni in cui è accertato che sono stati già commessi crimini di guerra o le situazioni che potrebbero rientrare nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, ma anche quelle in cui il richiedente lo status di rifugiato può dimostrare che esiste un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi;

–        che la valutazione dei fatti spettante alle sole autorità nazionali, sotto il controllo del giudice, per qualificare la situazione di servizio controversa, deve basarsi su un insieme di indizi tali da stabilire, tenuto conto di tutte le circostanze di cui trattasi, in particolare di quelle relative agli elementi pertinenti riguardanti il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione sulla domanda, lo status individuale e la situazione personale del richiedente, che la situazione del servizio rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti;

–        che le circostanze che un intervento militare sia stato intrapreso in forza di un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o sul fondamento di un consenso della comunità internazionale e che lo Stato o gli Stati che conducono le operazioni reprimano i crimini di guerra devono essere prese in considerazione nell’ambito della valutazione spettante alle autorità nazionali;

–        che il rifiuto di prestare il servizio militare deve costituire il solo mezzo che permetta al richiedente lo status di rifugiato di evitare la partecipazione ai crimini di guerra asseriti, e che, di conseguenza, se quest’ultimo ha omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, tale circostanza esclude ogni protezione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2004/83, a meno che detto richiedente non dimostri che non aveva a disposizione, nella sua situazione concreta, nessuna procedura siffatta.

2)      Le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere b) e c), della direttiva 2004/83 devono essere interpretate nel senso che, in circostanze come quelle del procedimento principale, non risulta che i provvedimenti in cui incorre un militare a causa del suo rifiuto di prestare servizio, quali la condanna a una pena detentiva o il congedo con disonore, possano essere considerati, rispetto al legittimo esercizio da parte dello Stato interessato del suo diritto di mantenere una forza armata, a tal punto sproporzionati o discriminatori da rientrare tra gli atti di persecuzione considerati in tali disposizioni. Spetta tuttavia alle autorità nazionali verificare tale circostanza.

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