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Diffusione di idee razziste non è (più) reato, la propaganda si (CA TN, 1/9/2011)

1 settembre 2011, Corte di Appello di Trento

Se la mera ed isolata occasione di manifestazione del pensiero anche razzista è tutelata dalla Costituzione, esso costituisce reato se si pone come un tassello di una ben più ampia attività divulgativa e propagandistica, consistente ad es. in comizi in pubblico e/o tramite i mass - media, al fine appunto di diffondere nel modo più ampio possibile le idee proprie e del proprio partito politico di appartenenza sia sulla specifica tematica dell'inserimento dei minori di etnia sinti sia più in generale sulla diversità ed inferiorità culturale di quest'ultima, e quindi anche al fine di propagandarle e di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo appunto da raccogliere il maggior numero di consensi ed adesioni intorno ad esse.

La propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico si distingue dalla condotta di diffusione delle medesime idee, perché implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all'idea divulgata. Propagandare un'idea significa divulgarla al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all'idea propagandata.

La legge non sanziona la mera denigrazione e/o avversione di gruppi ed etnie diverse (solo eventualmente idonea invero ad integrare il diverso e meno grave reato di diffamazione), quanto invece la ben più grave propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico.

CORTE D'APPELLO DI TRENTO

SEZIONE PENALE

Sent., 01/09/2011

composta dai signori magistrati:

Dott. Carmine Pagliuca - Presidente -

Dott. Mariano Alviggi - Consigliere -

D.ssa Anna Maria Creazzo - Consigliere -

ha pronunciato alla pubblica udienza la seguente

SENTENZA

nei confronti di

Gi.Em. nt. a Caltanissetta il (...) residente a Trento - si notifichi ai sensi dell'art. 157 co. 8 bis c.p.p. presso l'avv. St.Ga. di Tione di Trento e presso l'avv. Fe.Pu. di Trento

Non sofferta carcerazione preventiva

Libero - Contumace

IMPUTATO

del reato p. e p. dagli artt. 3, comma I, L. 654/1975, così come modificato dall'art. 13 L. 85/2006, e 61 n. 9 c.p. perché, abusando dei suoi poteri di consigliere comunale di Trento, nell'ambito di una seduta consigliare di detto ente, nella quale era in discussione l'approvazione del nuovo regolamento per la disciplina del sistema dei servizi socio - educativi per la prima infanzia, chiedeva di poter prendere ufficialmente la parola e, nel suo intervento, diffondeva idee fondate sull'odio e la discriminazione razziale nei confronti delle comunità Rom e Sinte, dichiarando: "...gli zingari costituiscono abitualmente dei gruppi delittuosi in cui la pigrizia, il furore, la vanità predominano, tra di loro sono numerosi gli assassini ....è innegabile che i bambini nomadi nella maggior parte dei casi non hanno dei genitori, ma degli aguzzini ...tutte le iniziative intraprese dall'Amministrazione, compresa la scolarizzazione volta a favorire l'integrazione, che risultati ha ottenuto? Un laconico nulla. Quelli diplomati quali mestieri svolgono una volta lasciate le scuole? Lo sanno tutti benissimo, furti e quant'altro. Un quant'altro che riassume anche lo sfruttamento dei bambini, compresi i loro figli. Passi per la criminalità fine a sé stessa, ma l'amministrazione non può e non deve tollerare lo sfruttamento e il maltrattamento fisico e psicologico a cui sono posti questi sfortunati bambini e ragazzini. ...Una società, la nostra comunità, se si ritiene davvero civile, deve avere il coraggio di farsi carico di scelte forti, senza mezzi termini, per un fine nobile, rendere giustizia ai bambini nomadi che quotidianamente sono esposti a vessazioni e violenze. Togliere d'autorità i bambini da questa etnia, per la stragrande maggioranza composta da canaglie, e affidarli alle istituzioni. Solo così si riuscirà davvero a spezzare questa catena che inevitabilmente, generazione dopo generazione, darà continuità alla loro sedicente cultura, alle loro discutibili tradizioni. Alle condizioni da me esplicitate ben vengano i bambini nomadi negli asili nido ...Giorgio Orwell ha scritto un giorno: "In questo tempo di inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario", nel mio caso reazionario". Fatto commesso in Trento il (...).

APPELLANTE

Il Pubblico Ministero avverso la sentenza del Tribunale di Trento n. 613/09 del 24.9.2009 che assolveva l'imputato dal reato ascritto, perché il fatto non sussiste.

Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dal Consigliere Dott. Mariano Alviggi;

Sentito il Procuratore Generale dr. Giuseppe Maria Fontana che ha concluso chiedendo l'affermazione di penale responsabilità dell'imputato e condannato alla pena chiesta dal Pubblico Ministero in primo grado.

Sentito il difensore di fiducia avv. SPG, di Trento che chiede la conferma della sentenza di primo grado.

Svolgimento del processo
A seguito di un intervento effettuato nell'ambito della seduta consiliare 20.6.2007, destinata all'approvazione del nuovo regolamento per la disciplina del sistema dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, Gi.Em., consigliere comunale di Trento, veniva tratto a giudizio dinanzi al Tribunale di tale città per rispondere del reato di cui all'art. 3, comma primo, della c.d. legge Mancino, essendosi invero ipotizzato a suo carico che il contenuto dell'intervento suddetto, quale sintetizzato nel capo d'imputazione, fosse di per sé idoneo a diffondere idee fondate sull'odio e sulla discriminazione razziale nei confronti delle comunità Rom e Sinte. All'esito del giudizio peraltro il Tribunale di Trento, con sentenza del 24.9.2009, emetteva sentenza di assoluzione nei confronti del medesimo con la formula perché il fatto non sussiste.

Preliminarmente ricordato, in via generale, come la norma che si assume violata sanzioni la condotta non già di mera denigrazione e/o avversione di gruppi ed etnie diverse (solo eventualmente idonea invero ad integrare il diverso e meno grave reato di diffamazione) quanto invece della ben più grave propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, e come in una società democratica la tutela da essa apprestata non possa estendersi a dismisura fino a coincidere con la difesa della particolare e specifica suscettibilità, a tutto scapito della libertà di parola. (..)

dopo aver esaminato una per una tutte le frasi nello specifico pronunciate dall'imputato nell'occasione di cui si tratta, ha espresso invero detto giudice, in motivazione, le seguenti considerazioni, solo sinteticamente qui riportate:

- se è innegabile che la forma comunicativa scelta dall'imputato non brilla per tatto diplomatico, è altresì vero peraltro che, al di là di alcune deplorevoli intemperanze verbali, il contenuto di nessuna delle frasi suddette, singolarmente valutate, ha trasmodato nell'aperta o nella implicita esaltazione di idee fondate sulla superiorità razziale o nella istigazione a commettere atti di discriminazione, solo essendosi limitato infatti il Gi. ora ad apertamente stigmatizzare dei comportamenti degli zingari adulti da lui giudicati opportunistici e censurabili (v. il loro disinteresse a far frequentare la scuola ai propri figli se non per approfittare di incentivi economici e/o della possibilità di usufruire pur essi delle mense scolastiche), senza che però la discriminazione per l'altrui comportamento si sia di fatto risolta nel caso di specie in discriminazione per l'altrui diversità, ora a manifestare un'idea di avversione verso gli stessi (v. in relazione agli eventi della quotidianità, ovvero al fatto di essere numerosi gli zingari dediti alla criminalità) solo fondata peraltro su di un pregiudizio razziale di intensità e natura non tali da configurare appunto la discriminazione punibile (posto che odiare significa desiderare la morte o un grave danno per la persona odiata, per cui non si può qualificare come odio qualsiasi sentimento di avversione o antipatia), ora ad indicare infine soluzioni drastiche per la tutela dei bambini degli zingari rispetto ad una comunità che egli ritiene informata a modelli di comportamento che possono compromettere l'integrità morale e fisica degli stessi minori (v. l'indicazione di sottrarli alle loro famiglie d'origine per evitare che siano da queste sfruttati e maltrattati, fisicamente e psicologicamente) peraltro frutto soltanto di convincimenti si oltranzistici ma che nulla hanno a che fare appunto con la esaltazione di idee razziste o con l'istigazione all'odio;

- peraltro, ed anche riguardato nel suo insieme, l'intervento oratorio in esame non consente di ritenere integrato il reato contestato, e ciò sia perché accoppiando brani da soli irrilevanti sul piano penale non si può pervenire ad un quadro completamente opposto al suo tenore letterale, sia perché tramite esso solo voleva l'imputato in realtà biasimare con durezza quello che assume essere lo sfruttamento dei bambini nomadi da parte dei loro genitori, ed i deplorevoli epiteti gratuiti ed offensivi da lui pronunciati si pongono appunto in rapporto di strumentalità con gli argomenti adoperati;

- in ogni caso, ed anche a voler ritenere le frasi del Gi. di per sé incriminabili, il nuovo testo della norma contestata punisce la sola condotta di propaganda delle idee di superiorità razziale e non già più quella di diffusione delle stesse di cui al precedente testo poi modificato nel 2006, sicché non è possibile nello specifico parlare di propaganda (che di per sé presuppone infatti un'organizzazione di mezzi ed un'attività molteplice di interventi) in presenza di un semplice intervento oratorio della durata di pochi minuti nell'ambito di una seduta del consiglio comunale, e ciò in linea con l'intento appunto del legislatore del 2006 di arretrare in senso più garantista per la libertà di parola la fondamentale difesa contro il virus razzista;

- da ultimo, sono pure da rigettarsi la teoria del razzismo implicito e la sua traslatio nel diritto penale quali parimenti invocate dall'Accusa, posto che la latitudine e l'ampia gittata del raggio d'azione della prima sono in realtà tali da ricomprendere in un giudizio di condanna le idee professate dal singolo più che i comportamenti tenuti, e che non si può appunto esporre a pena, in un sistema democratico, anche il puro e semplice senso di avversione o di irritazione che taluni provano verso gli stranieri a causa della loro meschina incomprensione delle problematiche sociali e/o per l'istintiva o sospettosa antipatia che oggi divide i componenti del consesso sociale.

Avverso tale sentenza ha proposto un articolato atto d'appello la Procura della Repubblica di Trento, il cui contenuto, che di fatto ripercorre l'argomentare del primo giudice, può essere così riassunto.

Non condivisibile deve ritenersi, innanzitutto, l'interpretazione data dallo stesso Tribunale al concetto di propaganda di idee razzistiche di cui al nuovo testo dell'art. 3 L. 654/75, avendo la Suprema Corte, con la nota sentenza n. 37581 del 7.5.2008, espressamente affermato infatti che sussiste in realtà continuità tra le corrispondenti fattispecie incriminatrici della norma de qua nelle sua stesura antecedente e successiva appunto alla modifica del 2006, posto che la condotta di propaganda non è diversa da quella di diffusione più incitamento di cui al precedente testo. Nel caso di specie l'intervento del Gi. non poteva avere appunto altra finalità che quella di diffondere presso i colleghi consiglieri le proprie motivazioni di voto, onde raccogliere consenso attorno a ben determinate tesi e così veicolare la successiva attività deliberativa in senso oggettivamente sfavorevole alle comunità Rom e Sinti.

Parimenti non condivisibile, in secondo luogo, deve ritenersi l'assunto del primo giudice secondo cui comunque le frasi dell'imputato non sarebbero in sé incriminabili, dal momento invero che accanto al razzismo classico esiste una nuova forma di razzismo, chiamato differenzialista e basato sulle asserite inconciliabili differenze a livello culturale fra le razze, che legittima il rifiuto dell'immigrazione propugnando di fatto l'isolamento delle etnie minoritarie all'interno della comunità predominante, e che anche a tale forma di razzismo deve dare appunto sanzione penale la c.d. legge Mancino.

Ancora poi il bene giuridico tutelato da quest'ultima è non già l'ordine pubblico quanto la dignità della persona, e non può negarsi la lesione appunto di esso allorché si sia in presenza di frasi offensive riferite non già a singoli destinatari ben individuati ma ad una collettività generica di persone coincidente con un ben preciso gruppo etnico, posto che riferire delle affermazioni indistintamente a tutti gli zingari, per quanto attinenti alla supposta criminosità dei soggetti del gruppo etnico e non alle qualità derivanti proprio dall'appartenenza al gruppo, non è in realtà diverso dal discriminare l'etnia in quanto tale.

Ditalchè l'imputato avrebbe in realtà utilizzato lo specifico contesto in cui effettuava l'intervento incriminato non già per criticare o stigmatizzare il comportamento criminoso di alcuni membri della locale comunità Rom e Sinti, quanto invece per diffondere appunto idee razzistiche coinvolgenti proprio l'intera etnia, in particolare laddove viene indicata la parte adulta di essa come indegna del ruolo genitoriale in virtù della sua sedicente cultura e delle sue discutibili tradizioni, mentre la parte giovane viene ritenuta degna di integrazione scolastica e culturale solo previo sistematico allontanamento del nucleo familiare d'origine.

Considerazioni tutte, quelle che precedono, per le quali conclude dunque il P.M. appellante chiedendo la condanna appunto dell'imputato, quale responsabile del reato ascrittogli, a congrua pena.

Motivi della decisione

Come dalla stessa parte appellante osservato nella propria impugnazione, dirimente a fini decisori si pone l'opzione interpretativa, qui condivisa, del primo giudice in ordine alla non sussistenza nella fattispecie in esame di quella necessaria condotta di propaganda, e non già di mera diffusione, di idee a contenuto razzista quale di fatto richiesta dal testo vigente della norma che si assume violata; ciò non condividendo per converso questa Corte (per le ragioni di seguito solo brevemente indicate) le ulteriori considerazioni e conclusioni dello stesso Tribunale in ordine questa volta alla non ravvisabilità appunto di idee del genere di quelle di cui innanzi all'interno dell'intervento del Gi. oggetto di addebito.

Ha avuto modo infatti di affermare la Suprema Corte di Cassazione, nell'ambito proprio di quella sentenza n. 13234/08 più volte richiamata dal primo giudice al fine di supportare la pronuncia assolutoria poi gravata, ed in relazione sempre a condotte asseritamente discriminanti nei confronti degli zingari Sinti, che per la configurabilità del reato di cui si tratta non è necessario in realtà che la discriminazione si manifesti all'esterno per mezzo di un'esplicita dichiarazione di superiorità razziale o di odio inteso nel significato letterale del termine, quanto invece è sufficiente anche il sol fatto che la frase incriminata manifesti un'idea di avversione non superficiale determinata dalla pura e semplice diversità etnica, ovvero dalla qualità in sé di zingaridelle persone discriminate piuttosto che invece da specifici loro comportamenti (come ad es. dal loro esser ladri), così da risultare quindi fondata, in sostanza, su un vero e proprio pregiudizio razziale (che può invero "configurare la discriminazione punibile allorché contiene affermazioni categoriche non corrispondenti al vero").

Ebbene per l'appunto di un siffatto sentimento di avversione nient'affatto superficiale nei confronti dei soggetti di etnia sinti, determinata proprio dal loro essere "zingari" e non già da specifiche e concrete condotte (e quindi anche dalla criminosità) di una loro componente più o meno significativa, ben è dato in realtà rinvenire traccia, a parere di questa Corte e diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, nell'ambito dell'intervento svolto dall'imputato nell'occasione di luogo e di tempo indicata in rubrica, in quanto invero chiaramente dominato esso, una volta considerato nel suo complesso, dall'idea di fondo, da ultimo rappresentata in maniera chiara ed esplicita attraverso la sua frase di chiusura, che unica salvezza per i bambini nomadi (tutti i bambini nomadi, e non già dunque quelli soltanto di loro che abbiano la sventura di avere genitori delinquenti), ed unica via percorribile per risolvere il problema del loro inserimento nel tessuto sociale del nostro paese, siano quelle costituite dal "togliere d'autorità... (medesimi) da questa etnia" ed affidarli alle istituzioni, solo così potendosi infatti "spezzare questa catena che inevitabilmente, generazione dopo generazione, darà continuità alla loro sedicente cultura, alle loro discutibili tradizioni".

Aggettivi quelli che precedono, riferiti appunto alla cultura degli zingari sinti (intesa essa come l'insieme tanto di tradizioni, usi, costumi e forme di organizzazione sociale, e quindi dei comportamenti e dell'apparato materiale, quanto pure della filosofia, delle arti e più in generale del modo di essere e di pensare, e quindi dell'apparato spirituale, di detto popolo) che inequivocabilmente rappresentano invero, come a ragione rimarcato dal P.M. appellante, il pregiudizio razziale del Gi. nei confronti di un'intera etnia generalmente considerata e non già invece di una parte soltanto dei suoi componenti, di fatto risolvendosi infatti nella categorica affermazione di un'inferiorità culturale della stessa di per sé passibile di poter essere affrontata e definitivamente risolta solo ed esclusivamente attraverso la decisa resezione delle sue radici, ovvero con il sistematico e drastico allontanamento della parte giovane dell'etnia de qua da quella adulta, e quindi anche dal suo nucleo familiare d'origine, in assoluto considerato ed indicato come indiscutibilmente indegno di un qualsivoglia ruolo genitoriale (e dunque anche meritevole di esser privato del diritto di svolgerlo secondo appunto i propri canoni culturali).

Sennonché, come detto, la circostanza che il contenuto dell'intervento dell'imputato di fatto contenga elementi discriminatori di per sé sola non può bastare a giustificare l'invocata riforma della decisione gravata, in quanto di fatto non accompagnata essa dalla presenza in atti di sicura prova del pure necessario carattere propagandistico dell'attività divulgativa svolta.

Su tal punto i rilievi mossi dall'appellante alle conclusioni del primo giudice esclusivamente sono concentrati nell'affermazione secondo cui "in tema di atti di discriminazione razziale ed etnica, anche a seguito delle modifiche apportate dall'art. 13 della L. 24 febbraio 2006 n. 85... sussiste continuità normativa tra le corrispondenti fattispecie incriminatrici, in quanto la condotta consistente nel propagandare idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale od etnico risulta sostanzialmente analoga a quella originariamente prevista, consistente nel diffondere in qualsiasi modo le medesime idee".

Sennonché la circostanza dell'aver provveduto il giudice di legittimità ad effettivamente affermare, con specifico e circoscritto riguardo peraltro alla problematica della continuità normativa di cui innanzi ed in relazione alla peculiare ipotesi di condotta delittuosa perpetrata ante riforma del 2006 ed a mezzo di diffusione avvenuta su internet, che "la propaganda prevista nella norma del 2006 non era diversa dalla diffusione più incitamento previsti dalla norma del 1993" (ed invero nel caso de quo i termini "diffonde" e "propaganda" sono stati ritenuti sostanzialmente equivalenti per la sola ed evidente ragione che "la diffusione di idee nella rete di fatto si risolve nella loro propaganda" allorché il sito incriminato inequivocabilmente indichi "un intento di fare proseliti per la guerra santa contro il dominio degli ebrei sul mondo") non automaticamente comporta come conseguenza che ogni attività di diffusione debba esser ritenuta comprensiva anche di quella di propaganda, posto infatti che quest'ultima si risolve appunto nell'incitamento operato attraverso la diffusione, e dunque evidentemente è qualcosa di diverso e di più rispetto a quest'ultima, così potendo o meno sussistere in ogni singolo caso di divulgazione di idee "razziste".

Il che è quanto chiaramente desumibile dai pronunciamenti della stessa Suprema Corte laddove, chiamata ad esprimersi sull'argomento, ha affermato che "la propaganda si qualifica piuttosto come diffusione di messaggi volta ad influenzare le idee ed i comportamenti dei destinatari..." (v. proprio la stessa sentenza citata dall'appellante), e che "l'uso del verbo propaganda in luogo di diffonde restringe la fattispecie originaria perché implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all'idea divulgata. Propagandare un'idea significa divulgarla al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all'idea propagandata" (v. Cass. Pen., Sez. III, sent. 13234/08 del 13.12.2007).

Caratteristiche queste della più ampia attività di diffusione originariamente prevista dalla norma incriminata (ed invero erroneamente contestata nel capo d'imputazione, il quale non tiene appunto conto dell'intervenuta modifica del 2006) che, così come esattamente ritenuto dal Tribunale (fra l'altro con la condivisibile sottolineatura di un preciso intento del legislatore in quell'occasione di "arretrare in senso più garantista per la libertà di parola la fondamentale difesa contro il virus razzista"), non è dato invero rinvenire in un caso come quello in esame:

1) in cui la condotta materiale oggetto di addebito di fatto solo si sostanzia nell'aver il Gi. sinteticamente espresso, nell'esplicazione di un preciso diritto - dovere correlato al mandato elettorale ricevuto, e secondo le forme regolamentari, la propria personale posizione in relazione alla specifica problematica oggetto di discussione e votazione;

2) in relazione al quale nulla è dato sapere a proposito del fatto che la riunione consiliare nell'ambito della quale l'intervento stesso veniva pronunciato fosse aperta al pubblico o invece riservata ai soli consiglieri comunali presenti in rappresentanza dei rispettivi partiti di appartenenza (in tal ultimo caso essendo evidente che non poteva aspettarsi l'imputato di riuscire, in quella sede e con quel semplice mezzo, ad influenzare le diverse posizioni e psicologie dei rappresentanti dell'opposto schieramento politico), e così pure fosse o meno destinata ad essere ripresa e trasmessa, in diretta e/o in differita, a mezzo video (con potenziale raggiungimento quindi, nella prima ipotesi, di un pubblico ben più ampio), e quindi anche, in definitiva, di quanti e quali fossero i soggetti potenziali destinatari dell'intervento di cui si tratta;

3) con riferimento infine al quale nulla ha dedotto e dimostrato l'Accusa a proposito della circostanza che lo stesso, lungi dal rimanere una mera ed isolata occasione di manifestazione del pensiero dell'imputato (come tale tutelata dalla Costituzione), in realtà concretamente si ponesse in quel momento come un tassello di una ben più ampia attività divulgativa e propagandistica contestualmente da quegli posta in opera, anche con ulteriori e diverse iniziative (v. ad es. comizi in pubblico e/o tramite i mass - media), al fine appunto di diffondere nel modo più ampio possibile le idee proprie e del proprio partito politico di appartenenza sia sulla specifica tematica dell'inserimento dei minori di etnia sinti sia più in generale sulla diversità ed inferiorità culturale di quest'ultima, e quindi anche al fine di propagandarle e di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo appunto da raccogliere il maggior numero di consensi ed adesioni intorno ad esse (con conseguente ipotetica possibilità, in questo caso, di considerare l'intervento in esame non già fine a se stesso, e semplice momento di divulgazione, da parte del Gi., del proprio pensiero sull'argomento de quo quanto piuttosto vero e proprio mezzo rispetto al fine di una più ampia e generalizzata propaganda politica sull'argomento stesso).

Considerazioni, quelle che precedono, che in definitiva conducono pertanto la Corte, a questo punto, ad integralmente confermare la decisione gravata. Termine infine di gg. 90 per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
La Corte di Appello di Trento, Sezione Penale; Visto l'art. 605 del Codice di Procedura Penale; conferma la sentenza impugnata.

Fissa il termine di giorni 90 per il deposito della sentenza.

Così deciso in Trento, l'11 maggio 2011.

Depositata in Cancelleria l'1 settembre 2011