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Dichiarare il falso è reato se .. (Cass. 33218/12)

23 agosto 2012, Cassazione penale

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Nel delitto di falsità ideologica il dolo è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero.

E' invece eslcuso il dolo nel delitto di falso tutte le volte in cui la falsità risulti essere semplicemente dovuta ad una leggerezza o ad una negligenza, non essendo prevista nel vigente sistema la figura del falso documentale colposo.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Sentenza  23 agosto 2012, n. 33218
 

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Bari, con sentenza dell’11 aprile 2011, ha confermato la sentenza del Tribunale di Foggia del 30 giugno 2010 ed ha condannato L.M.M. per il delitto di false dichiarazioni sul reddito, rese in dichiarazione sostitutiva di certificazione.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, a mezzo del proprio difensore, lamentando l’insussistenza dell’elemento soggettivo dell’ascritto reato compiuto per mera disattenzione, l’insussistenza dell’elemento oggettivo per non essere le dichiarazioni del privato rese al pubblico ufficiale nè destinate a confluire in atto pubblico, infine, per l’intervenuta prescrizione del reato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.

2. Quanto al primo motivo, si osserva come il dolo integratore del delitto di falsità ideologica, di cui all’art. 483 cod. pen., sia costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero (v. Cass. Sez. 2, 28 ottobre 2003 n. 47867).

Si esclude, inoltre, il dolo del delitto di falso tutte le volte in cui la falsità risulti essere semplicemente dovuta ad una leggerezza o ad una negligenza, non essendo prevista nel vigente sistema la figura del falso documentale colposo (v. da ultimo Cass. Sez. 6, 24 marzo 2009 n. 15485).

Nella specie non v’è affatto prova che l’imputata abbia redatto la propria dichiarazione con leggerezza, ben conoscendo, al contrario, la propria situazione reddituale, sicuramente non pari allo zero.

3. L’art. 483 c.p. ha, poi, natura di norma in bianco che, quindi, richiede, per la definizione del suo contenuto precettivo, il collegamento con una diversa norma, eventualmente di carattere extrapenale, che conferisca attitudine probatoria all’atto in cui confluisce la dichiarazione non veritiera, così dando luogo all’obbligo per il dichiarante di attenersi alla verità.

In tal senso si è costantemente espressa la giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite (v. Cass. Sez. Un. 13 febbraio 1999 n. 6 nonchè 15 dicembre 2008, n. 28 e a Sezioni semplici v. Cass. Sez. 5, 13 febbraio 2006 n. 19361 e Sez. 5, 4 dicembre 2007 n. 5365).

L’autocertificazione, prevista dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 svolge, proprio, la funzione di norma integratrice del precetto penale attribuendo efficacia probatoria ai fini amministrativi alla dichiarazione del privato di provare i fatti attestati, evitando l’onere di provarli con la produzione nella specie, della dichiarazione dei redditi e così collegando l’efficacia probatoria dell’atto al dovere dell’istante di dichiarare il vero.

4. Quanto alla prescrizione, deve osservarsi come, applicando i termini di cui ai novellati artt. 157 e 161 c.p., a cagione della emanazione della sentenza di prime cure dopo l’entrata in vigore della novella 251/2005 (30 giugno 2010) e non ravvisandosi, per quanto ripetutamente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte alcuna violazione del dettato costituzionale in tale normativa (v. Cass. sez Un. 29 ottobre 2009, n. 47008 e 24 novembre 2011 n. 15933), deve osservarsi come i fatti accertati il (OMISSIS) (e su tale data non risulta mossa contestazione alcuna durante la fase di merito) sarebbero prescritti solo il 2 giugno 2012 (anni sette e mesi sei quale termine di prescrizione), termine non ancora decorso all’atto della presente decisione, senza neppure tener conto del periodo di sospensione di cui al giudizio di prime cure.

5. Dal rigetto del ricorso deriva, infine, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.