Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Datore di lavoro deve verificare uso dei DPI (Cass. 18327/19)

11 gennaio 2019, Cassazione penale

In caso di infortunio sul lavoro, è penalmente responsabile il datore di lavoro che tollera che i lavoratori non indossino i presidi antinfortunistici: il datore di lavoro è infatti titolare di una posizione di garanzia,  e deve esigere, tramite costanti controlli, l'impiego da parte dei suoi dipendenti dei presidi antinfortunistici.

In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

Cassazione Penale

Sez. 4 Num. 18327/2019, 11.01.2019 (ud)

Presidente: DI SALVO EMANUELE
Relatore: DAWAN DANIELA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BN nato
a LAMEZIA TERME il ***

avverso la sentenza del 12/01/2018 della CORTE APPELLO di TRENTO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA DAWAN;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PAOLA FILIPPI che ha concluso chiedendo l'inammissibilita' del ricorso.

Per Brizzi e' presente l'avv. PS del foro di Verona che chiede raccoglimento del ricorso.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 12/01/2018, la Corte di appello di Trento, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Rovereto impugnata anche dal Procuratore generale, ha rideterminato la pena inflitta a NB - titolare della ditta individuale Impresa Costruzioni di BN- in mesi tre di reclusione, confermando nel resto.

2. All'esito del giudizio di primo grado, l'imputato - dichiarato colpevole del reato ascrittogli (artt. 40 cpv. e 590, comma 3, cod. pen. in relazione all'art. 583, cod. pen.) - era condannato alla pena (sospesa) di mesi due di reclusione ed al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da liquidarsi in separato giudizio in favore della parte civile, nei cui confronti veniva altresì disposta una provvisionale di euro 4.000,00.

3. Durante i lavori di ristrutturazione di un immobile, il lavoratore HF mentre piantava con un martello alcuni chiodi d'acciaio in un pannello di legno al fine di fissarlo al muro, veniva colpito all'occhio sinistro da una scheggia metallica staccatasi dal chiodo che in quel momento stava battendo, subendo lesioni da cui derivava una malattia superiore a giorni 40 e l'indebolimento permanente dell'organo della vista. Il fatto accadeva in Villa Lagarina, il 28/08/2012.

4. I Giudici del merito ritenevano indiscutibilmente provata la circostanza che, nel cantiere in cui stavano operando, i lavoratori dell'impresa facente capo all'imputato, tra i quali si annovera la persona offesa, ancorché probabilmente muniti di occhiali antinfortunistici, solitamente non ne facessero uso, rinvenendo in tal colpevole tolleranza la colpa del datore di lavoro che, in quanto titolare di una posizione di garanzia, avrebbe dovuto esigere, tramite costanti controlli, l'impiego da parte dei suoi dipendenti, dei presidi antinfortunistici.

5. Avverso la sentenza di appello l'imputato, a mezzo del ricorrente, ricorre per cassazione. sollevando due motivi. Con il primo, deduce violazione degli artt. 516, 517 e 519 cod. proc. pen. e del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza ex art. 521 cod. proc.pen. perché l'imputato, citato a giudizio per aver omesso di fornire i dispositivi di sicurezza al dipendente, è stato invece condannato per non averne vigilato l'utilizzo (fatto non contestato). Le due condotte sono incompatibili, giacché l'accusa di non aver fornito i dispositivi di sicurezza esclude quella di non averli fatti usare. Con il secondo motivo, censura la mancanza di motivazione sulla doglianza formulata nell'atto di appello in ordine alla violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. per essere l'imputato stato condannato sulla base delle sole dichiarazioni del coimputato, Nreaj Mirosh, in assenza di elementi di riscontro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e va respinto.

2. Il primo motivo é incentrato sulla pretesa violazione del principio di corrispondenza tra imputazione e sentenza nonché sulla ritenuta imprecisione dell'imputazione. Nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l'imputato - non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico.

Sia pure a mero titolo di esempio, può citarsi la massima per la quale «ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione» (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278).

Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa.

Mentre nei reati dolosi - in specie commissivi - la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l'obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest'ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica).

Com'è evidente, l'una e l'altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l'agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare. Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa [ex multis,Sez. 4, n. 19028 del 01/12/2016 (dep. 20/04/2017), Casucci, Rv. 269601;Sez. 4, n.35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 260161; Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902].

L'accento posto sul concreto svolgimento del giudizio margínalizza - nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione - un approccio fondato sulla tipologia dell'intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l'ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica). Si può aggiungere che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del suo rispetto, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l'estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto).

Una simile ricostruzione del principio di correlazione è del tutto coerente con la giurisprudenza della Corte edu, che ricava dal combinato disposto dell'art. 6, paragrafi 1 e 3, lett. a) e b) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo il diritto dell'imputato ad essere informato in modo dettagliato della natura dell'accusa nei suoi confronti, nonché quello di disporre del tempo e dei mezzi necessari a preparare la propria difesa (Corte edu, 11.12.2007, Drassich c. Italia). Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la violazione di quel diritto non è integrata in ogni caso di modifica dell'accusa, compresa la qualificazione giuridica attribuita in origine al fatto, ma solo ove tali modifiche non siano prevedibili per l'imputato (da ultimo sul tema, pur sotto diversa angolazione, Corte edu, 14.4.2015, Contrada c. Italia).

 

In conclusione sul punto, in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

3. Ciò posto, con riguardo al caso di specie il Collegio osserva che dagli atti risulta pacificamente che il problema dell'utilizzo degli occhiali era stato oggetto di tematica dibattimentale sul quale l'imputato ha avuto ampio modo di difendersi tant' è che, alla specifica domanda che gli venne rivolta, egli rispondeva sulla presenza degli anzidetti dispositivi in cantiere, non assicurando tuttavia che venissero effettivamente adoperati (p. 7 dell'impugnata sentenza).

Anche il coimputato NM, sentito in dibattimento, affermava, ricorda la Corte di appello, che i lavoratori abitualmente non utilizzavano i DPI, circostanza che veniva dunque direttamente appresa dall'imputato presente e dal suo legale i quali furono pertanto posti nelle condizioni di svolgere le opportune osservazioni o richieste istruttorie, tanto bastando per escludere un concreto pregiudizio del diritto di difesa.

Il B ha così potuto svolgere le proprie difese senza pregiudizio alcuno, qualificandosi la critica avanzata dall'esponente come puramente astratta, non avendo peraltro egli individuato specifici profili di pregiudizio dei diritti di difesa.

È quindi conforme ai menzionati principi la conclusione in punto di responsabilità cui pervenivano i giudici del merito che ravvisavano in tale colpevole tolleranza la colpa del datore di lavoro che, in quanto titolare di una posizione di garanzia, avrebbe dovuto esigere, tramite costanti controlli, l'impiego da parte dei suoi dipendenti dei presidi antinfortunistici.

4. Anche il secondo motivo, formulato, peraltro, in termini generici, è infondato.

L'impugnata sentenza dà atto, con adeguata motivazione esente da vizi, non solo del contenuto delle dichiarazioni dello N., ma altresì delle risposte dello stesso B che, come già detto, pur asserendo la presenza dei dispositivi in cantiere, non ne assicurava l'uso e delle dichiarazioni rese da RB, committente dei lavori, il quale - diversamente da quanto aveva sostenuto nella causa di lavoro scaturita dall'incidente di cui all'odierno procedimento - si espresse in dibattimento in termini molto più incerti ("c'erano tutti i dispositivi...dopo che li usassero o non li usassero, questo non...").

5. In conclusione, si impone il rigetto del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in data 11 gennaio 2019