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Danni dopo ingresso abusivo: vanno risarciti? (Cass. 10641/02)

20 luglio 2002, Cassazione civile

Il proprietario-custode è scagionato per danni dalle cose in custodia solo se prova che il danno è dipeso da caso fortuito, ipotesi quest'ultima comprendente anche la colpa del danneggiato, ovvero di quella dell'art. 2043 c.c. che comporta invece l'ordinario, completo onere probatorio a carico di quest'ultimo ex art. 2697 c.c..

Pertanto, nel caso in cui taluno abusivamente acceda all'altrui proprietà, esula la responsabilità per danni cagionati dalle cose in custodia ex art. 2051 c.c. mentre sussisterebbe la generale responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., ove sia configurabile l'esistenza sul fondo di un pericolo imprevedibile dal quale il proprietario dello stesso, che non lo abbia chiuso, non abbia adempiuto l'obbligo di preservare l'incolumità dei passanti.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

20/07/2002, n. 10641

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Angelo GIULIANO - Presidente -

Dott. Paolo VITTORIA - Consigliere -

Dott. Luigi Francesco DI NANNI - Consigliere -

Dott. Ennio MALZONE - Consigliere -

Dott. Antonio SEGRETO - Rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

HAAS WINDEGGER ERIKA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell'avvocato LUIGI MANZI, che la difende anche disgiuntamente all'avvocato REINHART VOLGGER, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

WINDEGGER PERNSTICH HERTA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA ANAPO 20, presso lo studio dell'avvocato CARLA RIZZO, che la difende anche disgiuntamente all'avvocato CARLO ALBERTO CELEGHIN, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 203/98 della Corte d'Appello di TRENTO SEZ DIST BOLZANO, emessa il 19/11/98 e depositata il 18/12/98 (R.G. 56/98);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/04/02 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO;

udito l'Avvocato Emanuele COGLITORE (per delega Avv. Luigi MANZI);

udito l'Avvocato Carla RIZZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Libertino Alberto RUSSO che ha concluso per l'accoglimento p.q.r. del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione del 18 ottobre 1994 Haas Erika conveniva davanti al Tribunale di Bolzano, Windegger Herta chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per un infortunio occorsole nella casa della convenuta, cognata, per un importo di lire 250 milioni. Assumeva l'attrice che nella visita della casa in ristrutturazione della convenuta, nel salire le scale tra il primo ed il secondo piano era caduta attraverso un'apertura laterale alla scala stessa della larghezza di oltre un metro. Si costituiva la convenuta, che chiedeva il rigetto della domanda ed in via gradata la corresponsabilità prevalente dell'attrice.

Il tribunale, con sentenza del 22 gennaio 1998, condannava la convenuta al pagamento della somma di L. 56.416.000.

Proponevano appello principale la convenuta ed incidentale l'attrice.

La corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, condannava la convenuta al pagamento della somma di L. 11.904.062, oltre interessi e rivalutazione dal giorno del fatto.

Riteneva la corte di merito che nella specie fosse da ravvisare la responsabilità dell'attrice a norma dell'art. 2043 c.c. e non a norma dell'art. 2051 c.c., poiché nella specie il danno non era stato prodotto dalla cosa; che nella fattispecie tutta la scala era protetta da un lato da un corrimano e dalla parte opposta da un muro, che presentava un'apertura di un metro per un metro; che la Haas si era comportata in modo gravemente imprudente, non percorrendo la scala dal lato fornito di corrimano, fermandosi con la schiena rivolta verso l'apertura e facendo un passo indietro; che il fatto era avvenuto verso la mezzanotte, quando l'attrice aveva già bevuto del vino; che vi era un'illuminazione adeguata, come aveva riferito la Haas al c.t.u. e che, in ogni caso, appariva assurdo che l'attrice e le altre persone visitassero la casa a mezzanotte, se non vi fosse stata un'illuminazione sufficiente; che, conseguentemente la responsabilità andava ascritta al 70% all'attrice per il suo comportamento imprudente ed al 30% alla convenuta per non aver avvisato la cognata del pericolo costituito dall'apertura.

Riteneva, inoltre, la corte territoriale che non era applicabile nella fattispecie l'art. 68 D.P.R. n. 164/1956, poiché esso è posto a tutela dei soli lavoratori; che non sussistevano le condizioni per ammettere il giuramento supplettorio, richiesto dall'attrice; che i postumi invalidanti ai fini del danno patrimoniale andavano valutati, giusti gli accertamenti del c.t.u. nella misura del 5/6%; che l'attrice svolgeva per metà giornata l'attività di casalinga e per l'altra metà quella di segretaria del marito, perito industriale, per cui il danno da invalidità temporanea totale era pari a L. 5.836.598, mentre quello da invalidità parziale permanente era pari a L. 21.323.610, cui andavano aggiunte L. 520.000 per spese mediche; che il danno biologico, tenuto conto dei postumi accertati dal c.t.u., per quanto questi avesse omesso di accertare l'entità del danno biologico, erano quantificabili, sulla base della comune esperienza, nel 10%, liquidando equitativamente il relativo danno in L. 12.000.000.

Quindi la corte, tenuto conto della percentuale di colpa della convenuta (30%), riduceva il complessivo suddetto danno nella misura indicata.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'attrice, che ha presentato anche memoria.

Resiste con controricorso la convenuta.

 

 

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2051, 2056 e 1227 c.c., nonché il vizio motivazionale in merito all'accertamento della responsabilità.

Ritiene la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha escluso l'applicabilità dell'art. 2051 c.c., in quanto la responsabilità del custode sussiste anche in relazione a cose prive di un dinamismo proprio, allorquando il fortuito o il fatto dell'uomo possono intervenire nel processo obiettivo di produzione del danno.

2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 1227, 2730 e segg. c.c., nonché il vizio di motivazione della sentenza in tema di accertamento della responsabilità ed alla raccolta e valutazione delle prove.

Ritiene la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che essa si fosse comportata in modo gravemente imprudente nel percorrere la scala dalla parte opposta al corrimano; che non era provato che essa fosse "un pò brilla"; che la dichiarazione resa al c.t.u., secondo cui la casa era adeguatamente illuminata, non aveva carattere confessorio; che la costruzione in questione, con detta apertura nel muro, presentava un'insidia né visibile né prevedibile.

3. Ritiene questa Corte che i due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati e vanno rigettati, per quanto vada corretta la motivazione dell'impugnata sentenza, a norma dell'art. 384, c. 2, c.p.c..

La giurisprudenza prevalente di questa Corte ritiene che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha base: a) nell'essersi il danno verificato nell'ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa; b) nell'esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioé di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi.

In presenza di questi due elementi, la norma dell'art. 2051 c.c. pone a carico del custode una presunzione iuris tantum di colpa, che può essere vinta soltanto dalla prova che il danno è derivato esclusivamente da caso fortuito, inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e della colpa del danneggiato; pertanto, mentre incombe al danneggiato l'onere di provare i due elementi indicati sopra sui quali si basa la responsabilità, presunta iuris tantum, del custode, quest'ultimo, ai fini della prova liberatoria, ha l'onere di indicare e provare la causa del danno estranea alla sua sfera di azione (caso fortuito, fatto del terzo, colpa del danneggiato), rimanendo a suo carico la causa ignota (Cass. 17.5.2001, n. 6767; Cass. 14.6.1999, n. 5885; Cass. 27.8.1999, n. 8997; Cass. 9.2.1994, n. 1332; Cass. 25 novembre 1988, n. 6340; Cass. 1 marzo 1995, n. 2301; Cass. 28.10.1995, n. 11264; Cass. 1992, n. 347; Cass. 8.4.1997, n. 3041).

4.1. A fronte di questo orientamento giurisprudenziale, che individua nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe pur sempre il fatto dell'uomo (nella specie del custode), che è venuto meno, al suo dovere di controllo e vigilanza perché la cosa non abbia a produrre danni a terzi, la dottrina recente ritiene che il comportamento del responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva.

Solo il "fatto della cosa" è rilevante (e non il fatto dell'uomo).

La responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia e solo lo stato di fatto e non l'obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.

Questo orientamento dottrinale è stato fatto proprio dalle S. U. di questa Corte (Cass. 11.11.1991, n. 12019), nonché da alcune decisioni successive (Cass. 20.5.1998, n. 5031; Cass. 17.1.2001, n. 584).

Ritiene questa corte di dover aderire a detto ultimo orientamento.

4.2. Il termine "custodia" ha diverse accezioni nelle fonti romane.

Le opinioni che si sono succedute sulla portata della "custodia", come criterio di determinazione della responsabilità possono essere raggruppate in due categorie, quella più antica, che si riallaccia alla configurazione giustinianea, per cui la custodia non è che un tipo particolare di "diligenza", quella "custodia rei", la quale rimane un criterio soggettivo di determinazione della responsabilità; quella più recente, che individua il concetto di custodia nella responsabilità oggettiva.

La custodia si concretizza, cioé, in un criterio di responsabilità, intendendo per tale quello che addossa a colui che ha la custodia della cosa la responsabilità per determinati eventi, indipendentemente dalla ricerca di un nesso causale tra il comportamento del custode e l'evento.

I limiti della responsabilità della custodia vanno, quindi, cercati nella determinazione degli eventi per cui il custode è chiamato a rispondere.

Le S. U. (n. 12019), facendo propri i risultati cui è pervenuta la recente dottrina, rilevano che, ai sensi dell'art. 2051, il profilo del comportamento del responsabile sembrerebbe di per sé estraneo alla struttura della normativa; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacché il solo limite previsto dall'articolo in esame è l'esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l'assenza di colpa.

Potrebbe, quindi, essere affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia.

La dottrina, parla, al riguardo di "rischio" da custodia, più che di "colpa" nella custodia ovvero, seguendo l'orientamento della giurisprudenza francese, di "presunzione di responsabilità" e non di "presunzione di colpa".

4.3. Osserva questa corte che il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l'applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo. Sempre dalla lettera dell'art. 2051, emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla cosa, per cui detto comportamento è irrilevante.

Responsabile del danno cagionato dalla cosa è cioé colui che essenzialmente ha la cosa in custodia, ma il termine non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, e quindi non rileva la violazione di detto obbligo.

Ciò è tanto più rilevante se si osserva il contesto ove trovasi la norma in questione e cioé tra altre (artt. 2047, 2048, 2050, 2054, 1^ c, c.c.) ben diversamente strutturate, in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il superamento di detta presunzione di colpa.

5.1. Pacifica, poi, è la più recente giurisprudenza sul punto che, per l'applicabilità dell'art. 2051 è necessario che il danno si sia prodotto nell'ambito del dinamismo connaturale alla cosa medesima o per l'insorgenza in questa di un processo dannoso, ancorché provocato da elementi esterni (Cass. 28.3.2001, n. 4480; Cass. 18.6.1999, n. 61231; Cass. 14.1.1992, n. 347; Cass. 26.2.1994, n. 1947; Cass. 1.3.1995, n. 2301).

Detta norma non richiede necessariamente che la cosa sia suscettibile di produrre danni per sua natura (cioé per suo intrinseco potere) e tanto meno che essa sia pericolosa, ma anche per l'insorgenza in questa di un processo dinamico dannoso, ancorché provocato da agenti esterni.

Infatti la "pericolosità" non è, nell'ambito della norma in questione un requisito necessario della cosa e quindi della fattispecie, come lo è, invece, per la "attività", considerata nel precedente art. 2050 c.c..

Da ciò consegue che tutte le cose, come rilevato dalla più avvertita dottrina, possono costituire causa di danno ai sensi della norma in esame, quale che sia la loro struttura e qualità, siano esse inerti o in movimento, pericolose o meno. È solo necessario che il danno sia provocato dalla "cosa", che è già di per sé, in grado di produrli, o perché, per effetto della combinazione con altri elementi, diventa produttiva di danni.

Se il danno è causato dall'azione dell'uomo, per quanto per il tramite della cosa, la norma in questione non sarà applicabile (cass. 12.2.2000, n. 1682; Cass. 25.3.1995, n. 3553).

5.2. Occorre poi che la cosa, pur nella combinazione con l'elemento esterno, costituisca essa la causa o la concausa del danno, sotto il profilo dinamico, per cui va esclusa la responsabilità del custode nel caso in cui il fatto esterno, non imputabile al custode, sia stato da solo sufficiente a causare il danno (Cass. 28.11.1995 n. 12300).

In questo caso, infatti, non è la cosa custodita che ha prodotto o concorso a produrre il danno, ma il fatto esterno e la cosa è solo il mezzo o l'occasione per la produzione del danno e non la causa (o concausa) dello stesso (la giurisprudenza francese esclude l'applicazione dell'analogo art. 1384 c.c. fr., solo quando sia fornita la prova del ruolo meramente passivo della cosa).

Il nesso causale intercorre in quest'ultima ipotesi solo tra il fattore esterno e l'evento di danno.

Secondo l'orientamento prevalente anche in queste ipotesi si rimane nella fattispecie di cui all'art. 2051, ma la responsabilità del custode è esclusa per la causa di esenzione costituita dal caso fortuito.

6.1. Si suole, infatti, dire che il fortuito, che esclude la responsabilità del custode, ai sensi dell'art. 2051 c.c., va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo (anche se rimasto ignoto) e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 28.10.1995, n. 11264; Cass. 26.2.1994, n. 1947; Cass. 6340 del 1988; Cass. 15.3.1988 n. 2458).

In particolare si assume che il fatto colposo dello stesso danneggiato integra gli estremi del fortuito idoneo a superare, ai sensi dell'art. 2051, la presunzione di responsabilità del custode della cosa, soltanto quando sia dotato di autonomo impulso causale e sia per lo stesso custode imprevedibile ed inevitabile (Cass. 16.2.2001, n. 2331; Cass. 6.10.2000, n. 13337; Cass. 28.10.1995, n. 11264;)

6.2. Il limite della responsabilità del custode, costituito dal fortuito, integra il punto nodale (e per certi versi l'approdo) del dibattuto tema concernente la natura (soggettiva o oggettiva) della responsabilità ex art. 2051 c.c..

Se si sostiene la natura soggettiva della responsabilità in questione (presunzione di colpa) il fortuito dovrebbe consistere solo nella situazione in cui il custode è esente da colpa, essendo, invece irrilevante, l'efficacia causale del fattore esterno sul nesso causale.

Sennonché tale assunto contrasta con il principio che la prova del fortuito non si identifica con l'assenza di colpa (Cass. 6.1.1983, n. 75) e può apparire artificioso, come rilevato dalla dottrina, in quanto la presunzione è logicamente costruibile solo sull'oggetto della prova contraria.

Se così è, il fatto che il custode sia stato diligente non esclude la sua responsabilità per danno dalla cosa, se non è provato il fortuito.

Poiché la responsabilità si fonda non su un comportamento o un'attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poiché il limite della responsabilità risiede nell'intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene au un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma nelle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all'elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.

Si intende, così, anche la ragione dell'inversione dell'onere della prova prevista dall'art. 2051, relativa alla ripartizione della prova sul nesso causale.

All'attore compete provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

6.3. Secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente tale idoneità sussiste solo se il fattore esterno (che può essere anche il fatto di un terzo o del danneggiato) presenti i caratteri del fortuito, e cioé dell'imprevedibilità e dell'assoluta eccezionalità (Cass. 26.2.1994, n. 1947; Cass. 23.10.1990, n. 10277).

Tale orientamento va condiviso, con la precisazione che la rilevanza dell'imprevedibilità, ai fini dell'individuazione del fortuito, opera, però, sempre sotto il profilo oggettivo al fine di accertare l'eccezionalità del fattore esterno e non come elemento per escludere la colpa del custode, la quale, di per sé, è irrilevante in questa sede.

Il fortuito esimente potrà, quindi, essere quello cd. "incidentale", in quanto la cosa in custodia ha assunto un ruolo di mera occasione del danno, in effetti provocato da una causa ad essa estranea, che aveva in sé tutta la potenzialità dannosa.

Ad analogo risultato non si perviene necessariamente in caso di "fortuito concorrente", in cui alla determinazione del fatto dannoso concorre, con il fattore esterno, anche la cosa che per effetto del fattore esterno ha assunto un dinamismo dannoso.

In questo caso si avrà l'effetto esimente del fortuito se detto fattore esterno, che da solo non aveva potenzialità dannosa, come non l'aveva neppure la cosa in custodia, (per cui il nesso causale si instaura tra detta combinazione di cosa + fattore esterno ed il danno) è eccezionale e straordinario (e come tale assolutamente non prevedibile).

Infatti, in assenza di detto fattore eccezionale e straordinario non si sarebbe verificato quel dinamismo della cosa, che è stata causa del danno.

Ciò che è importante chiarire è che il caso fortuito esimente può intervenire sia nel momento genetico della fonte produttiva del danno (e cioé nel momento della combinazione della cosa custodita con elementi esterni) sia nel momento funzionale o dinamico della produzione del danno.

7.1. Nella fattispecie, quindi, erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la casa in costruzione dell'attrice, non avendo un dinamismo proprio per causare un danno alla convenuta, escludeva l'applicabilità alla fattispecie della disciplina dell'art. 2051 c.c. ed ha valutato i fatti a norma dell'art. 2043 c.c., procedendo ad un accertamento in concreto della responsabilità del custode.

Sennonché, nonostante che la corte territoriale abbia impropriamente fatto roferimento al concetto di insidia o trabocchetto (posto a base della pubblica amministrazione, ex art. 2043, per i danni derivati da difetto di manutenzione delle strade) ed abbia inoltre evocato l'art. 2043 c.c., la conclusione cui è addivenuta appare tuttavia in linea coi principi enunciati da questa Corte di legittimità in tema di danno cagionato da cose in custodia, per cui occorre solo provvedere alla correzione della motivazione.

Infatti, nella ricostruzione fattuale effettuata dal giudice di merito, il varco nella parete della casa "in custodia" della convenuta, pur se in combinazione con il fattore esterno, rappresentato dal comportamento imprudente della danneggiata (ma non tale da essere eccezionale o straordinario), ha costituito la concausa del danno.

7.2. Allorché il fattore esterno, costituito dal comportamento colposo del danneggiato, è stato da solo idoneo a causare il danno, viene meno il nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno (caso fortuito del fatto del danneggiato).

Il nesso eziologico tra la cosa in custodia ed il danno viene meno anche in caso di straordinarietà o eccezionalità del comportamento del danneggiato per i principi della c.d. "causalità adeguata" o della "regolarità causale", che presiedono al collegamento causale tra condotta ed evento dannoso (Cass. 6.3.1997, n. 2009; Cass. 10.11.1993, n. 11087; Cass. 11.1.1989, n.65).

Se invece il comportamento colposo del danneggiato nella fattispecie concreta non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno, costituita dalla cosa in custodia, ed il danno, esso può anche integrare il concorso colposo del danneggiante nella produzione del danno ai fini dell'art. 1227, c. 1, c.c..

Non si può, cioé, sostenere che detto comportamento colposo del danneggiante, integrante fortuito, non è rilevante nella fattispecie solo se raggiunge un grado tale da costituire causa esclusiva del danno stesso.

Potrebbe, infatti, in concreto, limitarsi ad un livello, per così dire, più basso, integrando in questo caso il fatto colposo concorrente del danneggiante nella produzione dell'evento dannoso (art. 1227 e 2056 c.c.).

Non vi è ragione in questa ipotesi di escludere, con riferimento all'art. 2051 c.c., l'applicabilità dell'art. 1227, 1 c., c.c..

L'art. 1227, comma 1 c.c., a norma del quale, quando vi è concorso di colpa del danneggiato, la responsabilità del danneggiante è diminuita secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate, si applica anche nei casi di responsabilità oggettiva del custode perché è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso. (Cass. 26 aprile 1994, n. 3957; Cass. 7 giugno 2000, n. 7727).

8. A tali principi la corte di merito si è sostanzialmente attenuta laddove, con valutazione di merito evidentemente non reiterabile in questa sede ed infondatamente censurata sotto il profilo del vizio di motivazione, ha ritenuto che nella produzione dell'evento il comportamento gravemente imprudente (e quindi colpevole) della danneggiata avesse inciso nella misura del 70%.

9. La ricostruzione dell'incidente effettuata dal giudice di merito, e rientrante esclusivamente nei suoi poteri, non presenta i vizi motivazionali lamentati dalla ricorrente, che si risolvono in una diversa lettura delle risultanze processuali.

Segnatamente va escluso che il giudice di merito non potesse tenere conto della dichiarazione resa dall'attrice al c.t.u. che la scala in questione fosse dotata di adeguata illuminazione.

Essa infatti costituiva dichiarazione di un fatto a sé sfavorevole resa ad un ausiliario del giudice, con la conseguenza che tale dichiarazione, a norma dell'art. 2735 c.c., forniva una prova liberamente apprezzabile dal giudice, ancorché il suo particolare valore di attestazione di verità, proveniente direttamente dalla parte e resa al consulente, imponesse al giudice del merito, che intendesse disattenderla, di darne adeguata motivazione (cfr. Cass. 24.3.1977, n. 1146).

Nella fattispecie il giudice di appello ha valutato criticamente detta dichiarazione e ha ritenuto che fosse conforme a logica che, avvenendo la visita a mezzanotte, la casa fosse dotata di illuminazione sufficiente.

10. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 68 d.p.r. n. 164/1956 e dell'art. 2043 c.c.. Assume la ricorrente che erroneamente la corte territoriale ha ritenuto che la norma in questione, sulla prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, tutelasse esclusivamente i lavoratori, mentre essa tutelava anche gli estranei che si trovavano sul posto di lavoro.

11.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che, quindi, correttamente la sentenza impugnata ha rigettato l'analogo motivo di appello, per quanto, anche in questo caso, essendo esatta la decisione, ma errata in diritto la motivazione, la stessa vada corretta a norma dell'art. 384, c. 2, c.p.c..

Infatti in materia di prevenzione infortuni, l'art. 1, d.p.r. 27 aprile 1955, n. 547, espressamente richiamato dal capo I, d.p.r. 7 gennaio 1956, n. 164, allorquando parla di lavoratori subordinati e ad essi equiparati non intende individuare in costoro i beneficiari (tanto meno i soli beneficiari) della normativa antinfortunistica, ma ha la finalità di definire l'ambito di applicazione di detta normativa, ossia di stabilire in via generale quali siano le attività assoggettate all'osservanza di essa, salvo, poi, nel successivo art. 2, escluderne talune in ragione del loro oggetto, perché disciplinate da appositi provvedimenti; pertanto, qualora sia accertato che ad una determinata attività siano addetti lavoratori subordinati o soggetti a questi equiparati, ex art. 3, 2^ comma, stesso d.p.r. n. 547 del 1955, quali i soci di società e di enti in genere cooperativi, anche di fatto, che prestino la loro attività per conto della società e degli enti stessi, non occorre altro per ritenere obbligato chi esercita, dirige o sovraintende l'attività medesima ad attuare le misure di sicurezza previste dai cit. d.p.r. 547 del 1955 e 164 del 1956. Tale obbligo quindi prescinde completamente dalla individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore; ne consegue che, ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica, ex art. 43 c.p. su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione (Cass. pen., sez. IV, 19 marzo 1991, Di Fazio).

Ne consegue che anche l'estraneo ai lavori, ed in questo caso l'attrice, è tutelata dalla normativa antinfortunistica di cui al d.p.r. n. 164/1956.

11.2. Sennonché l'obbligo di adottare le misure antinfortunistiche nelle costruzioni, non grava sul committente dei lavori, bensì sull'appaltatore degli stessi ovvero sul soggetto che ha la direzione dei lavori e non è delegabile ad altri (Cass. pen., 13 febbraio 1990, Grattarola; Cass. pen., 15 dicembre 1998, n. 2800, Breccia e altro).

Nella fattispecie né la sentenza impugnata né la stessa ricorrente sostengono che la convenuta avesse tale qualità richiesta dalla legge e che, quindi, fosse la destinataria del precetto contenuto nella norma invocata.

12. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 2059, 1223 c.c., nonché il vizio motivazionale della sentenza in tema di valutazione del danno.

Assume la ricorrente che erratamente il giudice di appello ha liquidato il danno biologico nella misura del 10%, senza disporre una consulenza tecnica.

Inoltre lamenta che, senza un'adeguata motivazione, ha liquidato il danno biologico nella misura di L. 12 milioni, senza uniformarsi ai principi fissati dalla giurisprudenza; che la sentenza di appello, pur ritenendo sussistente un concorso di colpa della convenuta e pur sussistendo l'elemento materiale del reato di lesioni colpose, non le ha liquidato il danno morale.

13.1. Ritiene questa Corte che il motivo è solo parzialmente fondato (limitatamente al solo danno morale).

Quanto al danno biologico, va, anzitutto rilevato che la sentenza impugnata dà atto che il c.t.u. ha accertato i postumi riportati dall'attrice e li ha valutati ai fini dell'attività lavorativa di casalinga nella misura del 5/6%, mentre ha dimenticato di valutarli ai fini del danno biologico; tuttavia la sentenza, dato atto di quanto sopra e tenuto conto delle regole di comune esperienza, ha ritenuto che non fosse necessario provvedere ad una nuova consulenza, fissando il danno biologico nella misura del 10%.

Osserva questa corte che rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito accogliere o rigettare l'istanza di ammissione di una consulenza tecnica, senza che il provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità, quando risulti che gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta della parte siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici o giuridici (Cass. 24.1.1997, n. 722; Cass. 19.8.1998, n. 8200).

13.2. Nella fattispecie il giudice di merito ha ritenuto di fissare nella misura del 10% il danno biologico, dandone un'adeguata motivazione, e cioé valutando i postumi permanenti accertati ai fini dell'attività lavorativa nella misura del 5/6%, e tenendo conto delle regole di comune esperienza in tema di danno biologico.

Peraltro la censura sul punto della ricorrente è generica, in quanto essa non indica quali siano i postumi rilevanti ai fini del danno biologico e quali siano le componenti del danno biologico che, se adeguatamente valutate dal giudice di merito, avrebbero dato luogo ad una maggiore percentuale.

La censura va quindi disattesa.

14.1. Quanto alla censura relativa alla liquidazione del danno e, segnatamente a quella che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto dei "criteri uniformi", cioé in buona sostanza delle c.d. tabelle, osserva questa Corte che anche essa è infondata.

Nell'evoluzione dei criteri relativi alla liquidazione del danno biologico si è affermato che detta liquidazione non può avvenire secondo i principi di cui all'art. 4 l. n. 37/1977, che si riferisce, nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale, ed occorre far riferimento al criterio equitativo, di cui all'artt. 2056 e 1223 c.c..

Nella necessità di rendere effettiva la valutazione equitativa del danno biologico, il giudice di merito deve considerare le circostanze del caso concreto, e specificamente, quali elementi di riferimento pertinenti, la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l'età, l'attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato.

Può anche ispirarsi a criteri predeterminati e standardizzati, purché ciò attui flessibilmente, definendo così una regola ponderale su misura per il caso specifico.

É un criterio valido di liquidazione equitativa del danno alla salute quello che assume a parametro il valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari; onde la decisione che ricorre a tale criterio non è di per sé censurabile in sede di legittimità, purché sia sorretta da congrua motivazione in ordine all'adeguamento del valore medio del punto alla peculiarità del caso. Condizioni di corretta applicazione di tale criterio debbono essere il suo collegamento al danno specifico e la sua personalizzazione (Cass. 22.5.1998, n. 5134; Cass. 16.11.1998, n. 11532).

Sennonché l'utilizzo delle c.d. "tabelle" non è un criterio necessario per la liquidazione del danno biologico, ma solo uno dei modi di estrinsecarsi del potere di liquidazione equitativa dello stesso, a norma degli artt. 2056 e 1226 c.c..

14.2. Ne consegue che nella fattispecie ben poteva il giudice di appello provvedere ad una liquidazione equitativa del danno biologico (peraltro costituente una c.d. micropermanente) utilizzando il proprio potere di liquidazione equitativa, senza far riferimento alle c.d. "tabelle". Né la motivazione di detto uso del potere equitativo é insufficiente, avendo dato atto di aver tenuto conto "della gravità del fatto.................delle condizioni economiche della danneggiante e della danneggiata......... del concorso della Haas in modo notevole, all'evento dannoso.......".

15. Fondata, è invece, la censura relativa alla mancata liquidazione del danno morale.

La corte di merito ha escluso detto danno, ritenendo che nella fattispecie non sussistessero gli estremi di alcun reato.

Osserva questa Corte che la risarcibilità del danno non patrimoniale, prevista dall'art. 2059 c.c. in relazione all'art. 185 c.p. non richiede che l'illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che sia astrattamente previsto come tale, come si desume dall'art. 198 c.p. secondo cui l'estinzione del reato o delle pene non importa l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato medesimo (Cass. 10 novembre 1997, n. 11038; Cass. S. U. 6.12.1982, n. 6651).

É necessario tuttavia che sussistano gli elementi soggetti ed oggettivi del reato.

Se nella fattispecie fosse stata affermata la responsabilità della convenuta, fondandola sulla sola presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., non poteva sussistere una responsabilità per danno morale, per mancanza dell'esistenza dell'elemento soggettivo.

Sennonché nella fattispecie, avendo la corte di merito accertato non solo l'esistenza dell'elemento materiale delle lesioni subite dall'attrice, ma anche in concreto l'elemento della colpa, per quanto concorrente nella misura del 30%, della convenuta, non poteva escludersi l'esistenza in astratto di un reato di lesioni colpose e quindi di un danno morale (principio pacifico in materia di responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, allorché sia stata accertata in concreto la colpa del conducente e non sulla base della presunzione di cui all'art. 2054 c.c.; Cass. 11 marzo 1998, n. 2674; Cass. 17 novembre 1999, n. 12741).

16. In definitiva va accolto, per quanto di ragione, il quarto motivo di ricorso e vanno rigettati i restanti.

L'impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla corte di appello di Trento, che si uniformerà ai principi di diritto sopra esposti e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.
Accoglie, per quanto di ragione, il quarto motivo di ricorso e rigetta i restanti motivi.

Cassa l'impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche sulle spese di questo giudizio di cassazione, alla corte di appello di Trento.

Così deciso in Roma il 4 aprile 2002

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 20 LUGLIO 2002.