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Culture diverse non legittimano reato in Italia (Cass. 8986/20)

6 marzo 2020, Cassazione penale

Lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare, ..) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica.

Proprio nell'ambito dell'accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi.


CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Sentenza 12 dicembre 2019 - 5 marzo 2020, n. 8986

Dott. RAMACCI Luca - Presidente -
Dott. CERRONI Claudio - Consigliere -
Dott. ACETO Aldo - Consigliere -
Dott. CORBETTA Stefano - rel. Consigliere - Dott. REYNAUD Gianni F. - Consigliere -
sul ricorso proposto da:

H.A.K., nato in (OMISSIS);
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA


avverso la sentenza del 24/04/2019 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Gianni Filippo Reynaud;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Seccia Domenico, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 24 aprile 2019, la Corte d'appello di Roma, giudicando sul gravame proposto dall'odierno ricorrente, per quanto qui interessa ha confermato la penale responsabilità dell'imputato per il reato di violenza sessuale commesso, in due occasioni, in danno della convivente more uxorio e dei connessi reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate.

2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensori fiduciario, ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, deducendo, con il primo motivo, in relazione al reato di violenza sessuale, la violazione dell'art. 192 c.p.p. e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), ed il vizio di motivazione. Si lamenta, in particolare, l'illogicità della motivazione, definita meramente assertiva, per non essere stata ritenuta necessaria, quale prova di riscontro alle dichiarazioni della persona offesa, documentazione medica attestante la presenza di lesioni vaginali, documentazione nel caso di specie del tutto mancante.

Ci si duole, inoltre, del fatto che non sia stata riconosciuta la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve gravità senza considerare che il reato è stato ritenuto provato in sole due occasioni e che la persona offesa era più grande di età dell'imputato di sei anni, ciò che rileverebbe ai fini del giudizio sul grado di coartazione della vittima.

3. Con il secondo motivo si deducono analoghi vizi di violazione della legge processuale e di illogicità, contraddittorietà e carenza della motivazione con riguardo all'affermazione di penale responsabilità per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. Si lamenta che le conformi sentenze di merito abbiano svalutato le discrasie rilevate dalla difesa tra le dichiarazioni rese dalla sorella e dal fratello della persona offesa con riguardo all'episodio in cui quest'ultima sarebbe stata percossa dall'imputato con il filo delle cuffie e, in via generale, che le deposizioni di detti testimoni, pur se relative a circostanze riferite de relato, siano state travisate e ritenute idonee a corroborare la prova a carico.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano vizio di motivazione e violazione dell'art. 51 c.p., in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali, per non essere stata attribuita rilevanza scriminante, o anche soltanto rilievo ai fini della dosimetria della pena, alle particolari connotazioni culturali e religiose proprie dell'imputato.

5. Con memoria contenente motivi aggiunti e atti del procedimento allegati si deduce il travisamento della prova con riguardo ad una duplice prospettiva.

Quanto al reato di violenza sessuale, si segnala che i referti medici successivi all'(OMISSIS) - essendo stati ritenuti cronologicamente irrilevanti quelli precedenti - sconfessano inequivocabilmente l'affermazione di sussistenza del reato, ma non sono stati esaminati dalla sentenza impugnata.
Quanto agli altri due delitti ritenuti, si segnala che la cartella clinica del (OMISSIS) - richiamata quale prova del morso al volto integrante le lesioni personali - non è temporalmente riconducibile alle aggressioni riferite dalla persona offesa nelle due denunce (nella prima delle quali, peraltro, l'episodio neppure troverebbe riscontro) nè alle dichiarazioni al proposito rese dalla sorella e dalla madre. Ci si duole, inoltre, che la sentenza impugnata non abbia sconfessato quella di primo grado laddove detta cartella clinica sarebbe stata utilizzata per addebitare all'imputato per due volte il medesimo episodio di lesioni.

6. Con memoria datata 4 dicembre 2019, il procuratore generale ha argomentato la manifesta infondatezza di tutti i motivi proposti, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza sotto entrambi i profili dedotti.

1.1. Quanto al fatto che le violenze sessuali siano state ritenute pur in assenza di certificazione medica attestante lesioni vaginali, si tratta di doglianza ictu oculi priva di fondamento.

Come lo stesso ricorrente ricorda - correttamente confrontandosi non solo con la sentenza impugnata, ma anche con quella, conforme, emessa dal g.i.p. all'esito del giudizio abbreviato - laddove i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice e richiamando i passaggi logico-giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615).

Ciò premesso, la sentenza di primo grado, a pag. 9, riconoscendo provata la contestazione di violenza sessuale con riguardo a due specifici episodi, afferma che "per la prova di tali fatti non è necessaria documentazione sanitaria in quanto le condotte, per come riferite, non necessariamente avrebbero dovuto lasciare segni lesivi corporei" e attesta poi delle condotte violente e minacciose con cui l'uomo coartò la volontà della donna per costringerla, nell'(OMISSIS), a subire una penetrazione vaginale e, nel successivo mese di settembre, a praticargli un rapporto orale per evitare la penetrazione anale che il compagno le voleva imporre dopo averla ammanettata (cfr. sent. primo grado, pag. 7).

Rispetto ai fatti siccome accertati, è evidente che, con riguardo al secondo episodio di violenza, nessuna lesione vaginale può essere, neppure in astratto, ipotizzata.
Quanto al primo episodio, a pag. 6, la sentenza impugnata logicamente afferma che i certificati medici in atti precedenti la data dell'(OMISSIS) sono irrilevanti, perchè il fatto non era ancora stato commesso, mentre quello immediatamente successivo - il certificato del pronto soccorso del (OMISSIS) - attesta una serie di lesioni (al volto, al collo, ecchimosi e contusioni multiple agli arti superiori ed inferiori) assolutamente compatibili con le condotte violente descritte dalla persona offesa, anche per costringerla a concedersi sessualmente, contro la sua volontà, al compagno. Il fatto che manchi specifica documentazione medica immediatamente successiva all'episodio di penetrazione violenta subita nell'(OMISSIS) - allorquando, si legge nelle sentenze, la donna, che aveva da poco partorito, subì copiose perdite di sangue - non intacca l'attendibilità della ricostruzione del fatto operata dalla persona offesa, giudicata dai giudici di merito assolutamente credibile e le cui dichiarazioni, laddove possibile, hanno trovato oggettivi riscontri, come si vedrà non scalfiti dalle contestazioni al proposito mosse con il secondo motivo di ricorso.

E' stato dunque fatto buon governo - reputa il Collegio - del consolidato principio per cui le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte e aa., Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajo e aa., Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104). Del resto, proprio nell'ambito dell'accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l'accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall'esterno, all'una o all'altra tesi (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232018).

1.2. Del pari manifestamente infondata e generica è la doglianza circa il mancato riconoscimento della circostanza attenuante speciale della minore gravità.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità (Sez. 4, n. 16122 del 12/10/2016, L., Rv. 269600; Sez. 3, n. 6784 del 18/11/2015, dep. 2016, D., Rv. 266272; Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015, K., Rv. 263821).

In particolare, per il riconoscimento della circostanza attenuante deve potersi ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n. 23913 del 14/05/2014, C., Rv. 259196; Sez. 3, n. 19336 del 27/03/2015, G., Rv. 263516), dovendosi escludere che la sola tipologia dell'atto possa essere sufficiente per ravvisare o negare tale attenuante (Sez. 3, n. 39445 del 01/07/2014, S., Rv. 260501) e rilevando esclusivamente gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., comma 1, e non anche quelli di cui al comma 2, riguardanti la capacità a delinquere ed utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena (Sez. 3, n. 14560 del 17/10/2017, dep. 2018, B., Rv. 272584; Sez. 3, n. 31841 del 02/04/2014, C., Rv. 260289).

Nel caso di specie la sentenza impugnata (pagg. 6 e 7) mostra di aver fatto una corretta valutazione dei due episodi di violenza nella loro globalità, ritenendo che gli stessi non possano essere ritenuti di minore gravità anche perchè avvenuti in un contesto di abituale maltrattamento della persona offesa per il quale è stato ritenuto integrato anche il delitto di cui all'art. 572 c.p.. La valutazione di merito non è illogicamente motivata e si sottrae, pertanto, a censure in questa sede di legittimità, attesa anche l'assoluta genericità degli elementi fatti oggetto di contestazione in ricorso, vale a dire che la sentenza impugnata non si confronterebbe con il fatto che gli episodi di violenza sessuale erano stati ritenuti provati in due sole occasioni (doglianza, questa, categoricamente smentita dalla semplice lettura della sentenza) e non valuterebbe il fatto che la persona offesa era più grande di età di sei anni rispetto all'imputato (contestazione, quest'ultima, assolutamente priva di rilievo, posto che si trattava di due adulti, avendo l'imputato, all'epoca dei fatti, circa 21 anni ed essendo stato il grado di coartazione della volontà ritenuto logicamente significativo, rispetto alle condizioni della persona offesa, proprio perchè le violenze sessuali si inserirono in una abituale condotta maltrattante).

2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per genericità.

Nel criticare la motivazione con cui la sentenza impugnata ha ritenuto relative ad elementi di dettaglio le discrasie segnalate dall'appellante con riguardo alle dichiarazioni rese in sede di s.i.t. dai due fratelli della persona offesa rispetto a quanto da quest'ultima riferito, con particolare riguardo all'episodio di percosse alla schiena utilizzando il filo delle cuffie avvenuto nel (OMISSIS), il ricorrente deduce il travisamento della prova rispetto al contenuto delle sommarie informazioni.

Va innanzitutto rilevato che, in spregio all'obbligo di autosufficienza del ricorso, in questo non vengono riprodotte (nè al medesimo vengono allegate) le dichiarazioni che sarebbero state fatte oggetto di travisamento probatorio, nè l'omissione può
ritenersi sanata dall'allegazione (peraltro, soltanto parziale) di esse alla memoria contenente i motivi aggiunti al ricorso (della cui inammissibilità più oltre si dirà). Il Collegio, pertanto, non può in alcun modo apprezzare la doglianza dedotta.

In secondo luogo, le critiche del ricorrente si appuntano sulla ricostruzione di uno soltanto dei numerosissimi episodi di violenza domestica descritti - con lesioni riscontrate dai certificati medici valorizzati in sentenza sicchè non sarebbero in ogni caso in grado di scardinare la tenuta logica della sentenza circa la ritenuta prova dei reati di maltrattamento in famiglia e lesioni personali.

Ed invero, va ribadito che in tema di ricorso per cassazione, l'emersione di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nella sentenza impugnata, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l'annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all'esito di una verifica sulla completezza e sulla globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l'impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M. e aa., Rv. 271227). Il vizio di motivazione che denunci la carenza argomentativa della sentenza rispetto ad un tema contenuto nell'atto di impugnazione può essere utilmente dedotto in Cassazione soltanto quando gli elementi trascurati o disattesi abbiano carattere di decisività (Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, Perna e aa., Rv. 267723), nel senso che una loro adeguata valutazione avrebbe dovuto necessariamente portare, salvo intervento di ulteriori e diversi elementi di giudizio, ad una decisione più favorevole di quella adottata (Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, Giarri, Rv. 253445).

L'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicchè, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell'appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera e aa., Rv. 260841).

3. Generico e manifestamente infondato, e dunque del pari certamente inammissibile, è anche il terzo motivo di ricorso.

Al di là della genericità dell'esposizione del motivo nella parte in cui, per fondare la bontà delle conclusioni in diritto, si fa riferimento a pronunce di questa Corte i cui estremi non vengono tuttavia indicati - per non dire del richiamo ad un provvedimento di archiviazione di cui neppure viene menzionata l'autorità emittente - l'apodittica conclusione per la quale nel caso di specie le gravissime condotte di maltrattamento e lesioni descritte nelle sentenze di merito dovrebbero dirsi scriminate, ex art. 51 c.p., attribuendo rilievo alle "differenze culturali e religiose dell'imputato" è in fatto, ancor prima che in diritto, incomprensibile.

Va in ogni caso ribadito il principio - condiviso dal Collegio ed affermato in una vicenda analoga a quella qui in esame - secondo cui, in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia (nella specie: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, violazione degli obblighi di assistenza familiare) non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Sez. 3, n. 14960 del 29/01/2015, E. H., Rv. 263122).

4. Quanto ai motivi nuovi proposti con la memoria datata 26 novembre 2019, va osservato che la loro ammissibilità dipende da quella dell'impugnazione a cui i medesimi accedono, ai sensi dell'art. 585 c.p.p., comma 4, u.p.. Ritenuta, per quanto sopra detto, l'inammissibilità del ricorso, la stessa non può essere sanata dalla proposizione di motivi nuovi, in quanto si trasmette a questi ultimi il vizio radicale da cui sono inficiati i motivi originari per l'imprescindibile vincolo di connessione esistente tra gli stessi (Sez. 6, n. 9837 del 21/11/2018, dep. 2019, Montante, Rv. 275158).

Sotto altro profilo, la proposizione del suddetti motivi sarebbe comunque inammissibile per non essere stato rispettato il termine perentorio di deposito nella cancelleria del giudice dell'impugnazione, stabilito sino al quindicesimo giorno precedente l'udienza dall'art. 585 c.p.p., comma 4. Ed invero, la memoria risulta essere stata spedita a mezzo posta in data 26 novembre 2019, ma è pervenuta a questa Corte soltanto il successivo 28 novembre, vale a dire quattordici giorni prima dell'udienza fissata. Dev'essere pertanto richiamato il condivisibile principio secondo cui, in tema di impugnazione, sono inammissibili i motivi aggiunti al ricorso per cassazione pervenuti nella cancelleria della Suprema Corte oltre il termine di quindici giorni prima dell'udienza, in quanto alla specifica disposizione di cui all'art. 585 c.p.p., comma 4, non si può derogare con applicazione analogica delle modalità di presentazione ex art. 582 c.p.p. o di spedizione ex art. 583 c.p.p., comma 1, (Sez. 2, n. 1381 del 12/12/2014, Tomaino e aa., Rv. 261862; Sez. 6, n. 27603 del 18/03/2016, Nocera, Rv. 267263). Ed invero, le disposizioni da ultimo richiamate sono riferite al solo atto di presentazione dell'impugnazione e sono sorrette da una diversa ratio, vale a dire quella di provare il rispetto del termine perentorio fissato a pena di decadenza per l'esercizio del diritto.

La differente modalità di presentazione prevista per i motivi aggiunti - che postula invece,
unicamente, il loro deposito presso la cancelleria del giudice dell'impugnazione, in un termine il cui mancato rispetto è sanzionato con la decadenza ex art. 585 c.p.p., comma 5, - si spiega con l'esigenza di consentire al giudice ed alle altre parti processuali di prendere tempestiva cognizione degli ulteriori motivi addotti a sostegno dell'impugnazione in tempo utile per approfondire le relative questioni e, quanto alle altre parti, per poter eventualmente dedurre argomenti in replica con memorie da depositarsi almeno cinque giorni prima dell'udienza, a norma dell'art. 611 c.p.p., comma 1.

Per risalente orientamento, infatti, tale ultima disposizione, pur esplicitamente formulata con riguardo ai procedimenti in camera di consiglio, è applicabile anche ai procedimenti trattati in udienza pubblica, oltre che in virtù della disposizione dell'art. 585, comma 4, avente valore generale in tema di impugnazioni, anche in considerazione della piena salvaguardia del contraddittorio sia nell'uno, sia nell'altro tipo di procedimento (Sez. 1, n. 853 del 27/11/1995, Coppolaro, Rv. 203500; l'orientamento è stato più volte successivamente ribadito: Sez. 3, n. 14038 del 12/12/2017, dep. 2018, Faldini e aa., Rv. 272553; Sez. 3, n. 50200 del 28/04/2015, Ciotti, Rv. 265935; Sez. 1, n. 19925 del 04/04/2014, Cutrì e a., Rv. 259618; Sez. 6, n. 18453 del 28/02/2012, Cataldo e aa., Rv. 252711).

5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019. Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020.