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Crisi di impresa e debiti col fisco: condannato imprenditore che sceglie altre priorità di pagamento (Cass. 46684/18)

15 ottobre 2018, Cassazione penale

In situazioni di crisi di liquidità, la scelta di politica imprenditoriale di pagare alcuni debiti piuttosto che altri esclude si possa invocare la forza maggiore.

L’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistic

In tema di reati fiscali omissivi, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico

E' preclusa la deducibilità della violazione del divieto di bis in idem in conseguenza della irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura "sostanzialmente penale" quando la prima sanzione sia stata inflitta ad un soggetto giuridico diverso da quello al quale sia stata ascritta, nel successivo procedimento penale, la violazione costituente reato, non potendosi ritenere, in tal caso, che il fatto sia corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 28 marzo – 15 ottobre 2018, n. 46684
Presidente Cavallo – Relatore Reynaud

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 7 giugno 2017, la Corte d’appello di Milano, decidendo il gravame proposto da P.R. , ha confermato - riducendo la pena per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e sospendendola alle condizioni di legge - la sentenza emessa con rito abbreviato che lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso il versamento dell’IVA, nell’anno d’imposta 2011, per la società cooperativa di cui era legale rappresentante.

2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Con il primo motivo vengono dedotti i vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione alla violazione dell’art. 45 cod. pen., per non essere stata riconosciuta la sussistenza della causa della forza maggiore o dell’inesigibilità della condotta in relazione all’assoluta impossibilità del ricorrente di adempiere al debito d’imposta per la crisi in cui versava l’impresa. In particolare, avrebbe errato la Corte territoriale nel negare l’invocata fattispecie, avendo l’imputato utilizzato le risorse disponibili per pagare gli stipendi ai soci lavoratori, in adempimento di crediti privilegiati a cui sono posteregati quelli erariali e contributivi, pena, tra l’altro, la commissione del reato di bancarotta preferenziale. Sarebbe peraltro illogica la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui addebita all’imputato di non aver allegato una strategia organizzativa volta a fronteggiare la crisi d’impresa e, in particolare, a reperire risorse, nel contempo affermando che le risorse aziendali erano scarse e che il patrimonio personale dell’imputato non era di fatto capiente.

4. Con il secondo motivo si deducono l’inosservanza dell’art. 649 cod. proc. pen., dell’art. 4, Protocollo n. 7 C.E.D.U. e dell’art. 50 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché il vizio di motivazione, per essere stato violato il divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto, sul rilievo che per le medesime omissioni del versamento dell’IVA l’Agenzia delle Entrate aveva già irrogato una sanzione amministrativa, divenuta definitiva prima del giudizio penale. Con motivazione illogica la Corte avrebbe peraltro negato la sussistenza dell’invocato bis in idem sul rilievo che difetterebbe l’identità soggettiva tra i destinatari delle due sanzioni, ignorando le allegazioni difensive circa la solidarietà - stabilita dalle disposizioni di legge richiamate in ricorso - tra l’ente ed il suo legale rappresentante quanto al pagamento delle sanzioni amministrative, identità vieppiù ravvisabile, nel caso di specie, essendo l’imputato socio lavoratore della cooperativa da lui amministrata.

In via alternativa rispetto al richiesto annullamento della sentenza impugnata per i suddetti motivi, il ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale degli artt. 649 cod. proc. pen., 10-ter d.lgs. 10 n. 74 del 2000 e 13 d.lgs. n. 472 del 1977, in relazione agli artt. 10, 11 e 117 Cost., per violazione dell’art. 4, Protocollo n. 7 C.E.D.U., nella parte in cui non prevedono l’applicazione del principio del ne bis in idem rispetto a procedimenti amministrativi la cui sanzione ha natura penale sostanziale afferenti al medesimo fatto storico oggetto del procedimento penale per contestata violazione dell’art. 10-ter d.lgs. 74 del 2000.

5. Con il terzo motivo si deduce l’inosservanza dell’art. 133 cod. pen. per l’eccessività della pena inflitta, fissata nel triplo del minimo edittale senza tener conto della condizione di mero socio lavoratore dell’imputato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non è fondato e dev’essere respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Deve in primo luogo osservarsi come non sussista la dedotta violazione dell’art. 45 cod. pen. poiché la situazione rappresentata dal ricorrente - peraltro adeguatamente vagliata dai giudici di merito - non integra gli estremi della forza maggiore, giusta il consolidato principio secondo cui, in tema di reati fiscali omissivi, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128). In detta sentenza questa Corte ha escluso che potesse essere ascrivibile a forza maggiore la mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità.
In particolare, nella motivazione della citata decisione - che richiama numerosi precedenti conformi e che il Collegio integralmente condivide - si legge che "la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente", sicché questa Suprema Corte "ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).

2. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856). 

Ne consegue che:

  • a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta;
  • b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore, quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità;
  • c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato concausato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità;
  • d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi).

1.1. La Corte territoriale ha non illogicamente rilevato - condividendo le analitiche osservazioni fatte sul punto dal giudice di primo grado - che il quadro ricavabile dai bilanci della società prodotti dal ricorrente evidenziava come negli anni di rifermento (il 2011, anno in cui si è accumulato il debito IVA, e il 2012, alla fine del quale scadeva il termine per il pagamento dell’imposta) fossero affluite nelle casse della società significative risorse, ma che erano stati privilegiati pagamenti diversi dalle obbligazioni tributarie. In particolare, proprio nell’anno 2012 - hanno osservato i giudici di merito - i debiti della società, rispetto all’anno precedente, si erano complessivamente ridotti: da circa due milioni di Euro a circa 300.000 Euro quelli verso fornitori, mentre quelli tributari erano di circa un milione di Euro (circa 200.000 Euro, si rileva dal prospetto allegato in ricorso, erano i debiti di altra natura al 31.12.2012). Si trattò, dunque, di una scelta di politica imprenditoriale che privilegiò il pagamento di debiti diversi da quelli tributarie che non consente - giusta i principi sopra richiamati - di ravvisare gli estremi della forza maggiore.
Il ricorrente, del resto, non contesta specificamente quei rilievi o i dati di bilancio posti a base del ragionamento, e ammette essere state utilizzate le risorse della società per pagare debiti diversi, in particolare - si deduce - gli stipendi dei soci lavoratori della cooperativa. Proprio in ciò - si allega ancora starebbe la causa di forza maggiore, o di inesigibilità della condotta, posto che l’art. 2777 cod. civ., nell’indicare il regime di privilegio dei crediti, antepone quelli per retribuzione a quelli erariali e contributivi, indicati nel successivo art. 2778 cod. civ.
1.3. Il rilievo da ultimo riportato - osserva il Collegio - è generico e comunque infondato per diverse ragioni.
In primo luogo, dai bilanci prodotti non si deduce - e, anzi, lo si può ragionevolmente escludere, secondo l’id quod plerumque accidit - che la voce di bilancio "debiti v/ fornitori" comprenda soltanto i debiti nei confronti dei soci lavoratori, sicché non può ritenersi che il ricorrente abbia utilizzato le risorse per pagare soltanto gli stipendi, piuttosto che gli altri beni e servizi necessari per l’esercizio dell’impresa.
In secondo luogo, non è pertinente il richiamo all’ordine dei privilegi perché - com’è noto - questi vengono in rilievo soltanto laddove si tratti di far valere la responsabilità patrimoniale del debitore in una procedura esecutiva concorsuale (o individuale con l’intervento di altri creditori) e non possono evidentemente essere invocati per legittimare l’inadempimento di talune tipologie di obbligazioni a scapito di altre al di fuori di tale contesto procedurale, contesto che non risulta essere stato attuale al momento di consumazione del reato. Si aggiunga che gli artt. 2777 e 2778 cod. civ., invocati dal ricorrente, stabiliscono l’ordine dei privilegi sui beni mobili (nell’ambito dei quali è corretta la posteregazione dei crediti tributari rispetto a quelli di lavoro), ma non riguardano invece il privilegio generale sui beni immobili, che, a norma dell’art. 2780, n. 4, cod. civ., vede invece preferito il credito IVA di rivalsa.
Manifestamente infondato, poi, è il rilievo secondo cui il pagamento del debito contributivo oggetto di contestazione avrebbe potuto generare responsabilità penale per il reato di bancarotta preferenziale: al di là del fatto che non è provato che alla data del 27 dicembre 2012 vi fosse una situazione conclamata di insolvenza (e neppure risulta che la società sia stata successivamente dichiarata fallita), basti osservare come il reato di cui all’art. 216, terzo comma, legge fall. richieda il dolo specifico di favorire taluno dei creditori in danno di altri (Sez. 5, n. 673 del 21/11/2013, dep. 2014, Lippi, Rv. 257963; Sez. 5, n. 592 del 04/10/2013, dep. 2014, De Florio, Rv. 258713), ciò che certamente non ricorre laddove l’imprenditore adempia ad un’obbligazione tributaria la cui omissione sia penalmente sanzionata.
1.4. Da ultimo, osserva il Collegio come non possa neppure condividersi nei generali, e generici, termini esposti in ricorso - l’affermazione secondo cui "la necessità di pagare i dipendenti risulta evidente anche perché, in caso contrario, ne deriverebbe,i1 blocco dell’attività imprenditoriale; con conseguenze irrimediabili sulla vita dell’impresa e, dunque, sulla stessa possibilità di pagare i tributi e gli altri creditori". Se non altrimenti circoscritta, questa eventualità finirebbe di fatti col risolversi, in tutti i casi di scarsa remuneratività (ovvero di insufficiente liquidità o capitalizzazione), nel giustificare la prosecuzione in perdita di attività d’impresa che resterebbero sul mercato, con grave lesione delle regole di concorrenza, soltanto grazie al mancato pagamento delle imposte. Proprio per le società cooperative di lavoro come quella amministrata dall’imputato - che non hanno quale fine la produzione di utili - un tale meccanismo si potrebbe paradossalmente risolvere nel garantire ai soci la remunerazione dell’attività lavorativa (vale a dire il soddisfacimento dello scopo mutualistico che costituisce causa del contratto di società) in un regime di sostanziale evasione fiscale.
Nel respingere questa prospettazione, i giudici di merito hanno peraltro rettamente applicato il principio secondo cui, nei reati omissivi tributari, l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190, che ha considerato irrilevante la mancata riscossione di crediti osservando che l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa). La sentenza impugnata ha al proposito osservato che la società fu gestita dall’imputato per diversi anni e che - non essendo peraltro stata allegata alcuna seria strategia organizzativa per fronteggiare la condizione di crisi - egli aveva semplicemente deciso di non destinare le pur scarse (ma sufficienti) risorse di liquidità per onorare i debiti tributari, né di impiegare a tal fine i suoi beni personali.
Che questi non avesse un patrimonio personale sufficiente a consentirgli di intervenire per pagare i debiti - circostanza allegata dalla difesa e che la Corte valorizza al diverso fine di non sostituire la pena detentiva inflitta con quella pecuniaria (questione che non viene sollevata in questa sede e che peraltro andava disattesa per mere ragioni di diritto, non essendo sostituibile con la pena pecuniaria una pena detentiva superiore a sei mesi) - è aspetto marginale nell’economia della motivazione, sicché non vale ad inficiare la tenuta della stessa, ciò che può avvenire soltanto quando l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato od omesso (Sez. 6, n. 5146/2015 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774).
2. Parimenti infondato è il secondo motivo.

Nel respingere l’identica doglianza proposta col gravame - peraltro esaminata e motivatamente disattesa già dal tribunale - la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di ne bis in idem processuale. Di fatti, è preclusa la deducibilità della violazione del divieto di bis in idem in conseguenza della irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura "sostanzialmente penale" - secondo l’interpretazione dell’art. 4 Protocollo n. 7 C.E.D.U. data dalle decisioni emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nelle cause "Grande Stevens e altri contro Italia" del 4 marzo 2014, e "Nykanen contro Finlandia" del 20 maggio 2014 - quando la prima sanzione sia stata inflitta ad un soggetto giuridico diverso da quello al quale sia stata ascritta, nel successivo procedimento penale, la violazione costituente reato, non potendosi ritenere, in tal caso, che il fatto sia corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale (Sez. 3, n. 24309 del 19/01/2017, Bernardoni, Rv. 270515, fattispecie relativa all’irrogazione di una sanzione amministrativo-tributaria nei confronti di due società, delle quali l’imputato del reato ex art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000 era legale rappresentante).

Non vale richiamare la responsabilità solidale prevista ex lege per il legale rappresentante dell’ente per il pagamento delle sanzioni amministrative a quest’ultimo inflitte per le omissioni di versamento dell’IVA, poiché - come osserva la sentenza di primo grado - la cartella esattoriale ad esse relativa è stata emessa soltanto nei confronti della società. Non è stata data prova in processo del fatto che vi sia stato anche soltanto un procedimento amministrativo per far valere la responsabilità solidale in parola nei confronti dell’odierno imputato. Non risulta, dunque, che questi sia stato sottoposto a procedimento sanzionatorio - diverso dall’odierno procedimento penale - con riguardo ai medesimi fatti qui scrutinati e, se questo dovesse accadere laddove l’Agenzia delle Entrate decidesse di far valere nei suoi confronti la responsabilità solidale prevista dall’art. 11, comma 1, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, l’imputato potrebbe semmai opporre in quella sede la ritenuta violazione del bis in idem processuale.

Per questa ragione non è rilevante nella specie la questione di legittimità costituzionale sollevata in ricorso, avendo peraltro la Corte di giustizia dell’Unione Europea - pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale disposto dal giudice penale italiano in un caso analogo - affermato il principio secondo cui l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (che detta una previsione sovrapponibile a quella contenuta nell’art. 4, Protocollo n. 7 alla C.E.D.U., disposizione che la Corte di giustizia, nel caso in esame, ha tuttavia ritenuto di non dover espressamente esaminare in quanto non ancora formalmente integrata nell’ordinamento giuridico dell’Unione), "deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell’IVA dopo l’irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti, qualora tale sanzione sia stata inflitta ad una società dotata di personalità giuridica, mentre detti procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di una persona fisica" (Corte giust. U.E., 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti, nella quale si dà atto che "i diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali e E...) l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta prevede che i diritti in essa contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU hanno lo stesso significato e la stessa portata di quelli loro conferiti dalla suddetta convenzione").

3. Quanto al terzo motivo, lo stesso è inammissibile posto che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione, per assolvere il quale è sufficiente che il giudice dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro e a., Rv. 271243), ciò che nella specie non è, essendo superiore di soli tre mesi di reclusione alla misura media.
Il ricorrente, peraltro, deduce soltanto il vizio di violazione di legge e non anche quello di motivazione e - in ogni caso - la Corte d’appello ha ritenuto congrua la pena base indicata in primo grado in base al rilevante importo dell’IVA non versata, così sostanzialmente richiamando il criterio della gravità del reato di cui all’art. 133, primo comma, n. 2 cod. pen., valorizzando le particolari connotazioni soggettive dell’imputato (l’incensuratezza e la veste di socio-lavoratore), per concedere, nella massima estensione, le circostanze attenuanti generiche che erano state invece negate in primo grado. Detta valutazione, peraltro, è legittima e non è contraddittoria, in quanto non sussiste un rapporto di necessaria interdipendenza tra le due statuizioni, le quali - pur richiamandosi entrambe astrattamente ai criteri fissati dall’art. 133 cod. pen. - si fondano su presupposti diversi. Ne consegue che l’applicazione delle attenuanti generiche non implica necessariamente un giudizio di non gravità del fatto reato (Sez. 5, n. 12049 del 16/12/2009, dep. 2010, Migliazza, Rv. 246887). Anzi, in altre occasioni si è statuito che tra gli elementi di valutazione che il giudice può utilizzare ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen. si pongono anche quelli relativi alla gravità del reato e alla capacità a delinquere del reo indicati dall’art. 133 cod. pen., con il solo limite che una stessa circostanza specifica non può essere valutata due volte. Ne consegue che legittimamente il giudice può determinare la pena, tenendo distinta la valutazione della gravità del reato, eseguita considerando l’aspetto oggettivo della condotta criminosa, da quella concernente il riconoscimento delle attenuanti generiche (Sez. 6, n. 20818 del 23/01/2002, Bala, Rv. 222020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.