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Corteggiamento? No, reato (Cass. 42659/21)

22 novembre 2021, Cassazione penale

Quando il corteggiamento si concreta non solo in regali, frasi d'amore ma anche in appostamenti che costringono la vittima a cambiare numero di cellulare e a ricorrere al medico pè configurabile il reato di stalking.

 

Cassazione penale

sez. V, ud. 17 settembre 2021 (dep. 22 novembre 2021), n. 42659
Presidente Pezzullo – Relatore De Marzo

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 30/10/2019 la Corte d'appello di Bari, nel confermare la decisione di primo grado, che aveva ritenuto sussistente la responsabilità di A.M. in relazione al reato di atti persecutori, ha rideterminato la pena in senso migliorativo per l'imputato.

2. Nell'interesse dell'imputato viene proposto ricorso per cassazione affidato ai seguenti motivi.

2.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla ritenuta sussistenza del delitto di cui all'art. 612 bis c.p., anziché della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p..

Si rileva:

a) che lo stesso giudice di appello, nel riconoscere la mancanza di prova dell'evento di danno richiesto dalla fattispecie incriminatrice contestata, era stato costretto a valorizzare vicende oggetto di un distinto procedimento; b) che l'imputato aveva solo tentato di riavvicinarsi alla persona offesa, senza mai porre in essere atti persecutori o minacciosi; c) che le condotte meramente petulanti dell'imputato, contenute in un circoscritto arco temporale, non avevano provocato alcun perdurante e grave stato di ansia nè avevano in alcun modo leso la capacità della vittima di autodeterminarsi.

2.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, censurando l'assenza di un vaglio rafforzato dell'attendibilità della parte civile, costituente l'unica fonte di prova posta a base della decisione, con particolare riguardo all'accertamento degli effetti prodotti dalle condotte sulla persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo si lamentano vizi motivazionali in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, contraddittoriamente negate nonostante la disposta riduzione della pena, in dipendenza della brevità del periodo nel quale si erano realizzate condotte di obiettiva contenuta gravità.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo è inammissibile per assenza di specificità e manifesta infondatezza. Sotto il primo profilo va ribadito che la mancanza di specificità del motivo deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio indicato, conducente, a mente dell'art. 591 c.p.p., comma 1 lett. c), all'inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).

Ora, il ricorso, insistendo in termini manifestamente infondati sull'assenza di comportamenti minacciosi (ossia, trascurando l'autonoma e alternativa rilevanza, nel quadro della fattispecie incriminatrice della quale si discute, delle molestie), trascura del tutto l'apparato motivazionale, che ha sottolineato l'escalation delle condotte - tanto più significativa in quanto manifestatasi in un breve arco temporale -, con un grado crescente di invasione della sfera psichica della vittima.

Soprattutto, l'impugnazione dimentica che il comportamento dell'imputato non si è limitato a frasi d'amore o a regali (in ogni caso, indesiderati), ma ha compreso appostamenti e un insistente seguire la persona offesa nei luoghi nei quali ella si doveva recare.

Proprio il carattere sempre più assillante delle condotte è il profilo che la Corte territoriale ha razionalmente interpretato - per coglierne gli effetti gravemente destabilizzanti sulla vittima - anche alla luce delle precedenti condotte persecutorie, la cui sussistenza è solo genericamente contestata dal ricorso attraverso il richiamo alla pendenza dell'appello - in vista dell'accertamento dell'evento di danno.

Quanto poi alla rilevanza - come significativo mutamento di abitudini - del cambio del numero dell'utenza cellulare, le affermazioni del ricorrente sono del tutto assertive nel proporre la tesi della spontanea comunicazione da parte della donna. Del tutto infondata è poi la critica che sottolinea l'assenza di un certificato medico, dal momento che, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori, non si richiede l'accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 bis c.p., non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017, Rv. 270020 - 01). Proprio la dimostrata esistenza dell'evento di danno giustifica la conclusione circa l'impossibilità di qualificare le condotte poste in essere dall'imputato nei termini auspicati in ricorso.

2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza e assenza di specificità. Al riguardo, deve ribadirsi che le regole dettate dall'art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). In ogni caso, la verifica attraverso indici esterni delle dichiarazioni della persona offesa non si deve tradurre nell'individuazione di prove dotate di autonoma efficacia dimostrativa, dal momento che ciò comporterebbe la vanificazione della rilevanza probatoria delle prime. Per questa ragione, razionalmente la Corte territoriale ha valorizzato anche le dichiarazioni della teste M.     e un'annotazione dei carabinieri, pur essendo sufficiente considerare la linearità delle dichiarazioni della persona offesa.

3. Il terzo motivo è inammissibile poiché la scelta di ridurre la pena non comporta alcun automatismo nel riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Secondo il risalente e consolidato orientamento di questa Corte, la ragion d'essere dell'art. 62 bis c.p., è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile; ne discende che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 2713150; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/1993, Stelitano, Rv. 195339). Ne discende che, già su un piano generale - in disparte la questione dei limiti di sindacabilità dell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito -, è del tutto aspecifico un atto di impugnazione che non indichi elementi positivi di valutazione o si limiti a riproporre dati già posti a base della riduzione del trattamento sanzionatorio.

4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52. Motivazione Semplificata.