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Coronavirus, quali sanzioni per inosservanza delle prescrizioni?

11 marzo 2020, Nicola Canestrini

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A parte il senso civico che dovrebbe indurre tutti a seguire le prescrizioni a tutela della collettività,  è efficacemente sanzionata l’inosservanza delle prescrizioni emanate in seguito alla emergenza sanitaria epidemiologica, legata al diffondersi del virus COVID – 19 (c.d. “coronavirus”)?

Attenzione il quadro noramtivo è cambiato dal 26 marzo 2020 per effetto del decreto legge 19/2020: consulta l'aggiornamento.

 Ni, nel senso che

  • l’inosservanza di provvedimento di autorità (art. 650 c.p.) pare un'arma spuntata, dato che - particolare tenuità del fatto a parte, e salva la valutazione sulla gravità della trasgressione - è comunque oblabile pagando 125 euro di ammenda e qualche decina di euro di spese processuali (più spese legali), con conseguente estinzione del reato (non rimane traccia neppure nella fedina penale);
  • più efficace, invece, la dichiarazione mendace; vi è da dire che l’autocertificazione delle ragioni per lo spostamento non è obbligatoria, ma se viene falsamente rilasciata si rischiano fino a due anni di reclusione per effetto del richiamo contenuto dell’art. 76 d.P.R. n. 445/2000 (mentre non pare configurabile il reato di false dichairazioni al p-u. ex art. 495 c.p., dato che la dichairazione mendace non ha ad oggetto qualità personali);
  • il delitto di epidemia, che può essere anche colposo (e cioè provocato da imprudenze o negligenze), richiede la “diffusione” di germi patogeni. La pena è quella dell’ergastolo per la diffusione dolosa, mentre la diffusione per imprudenza, imperizia o negligenza è sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni: è stato però osservato che non incorre nel reato di epidemia colposa chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur prevedendo che infetterà altre persone;
  • l'inosservanza delle prescrizioni dettate per evitare la diffuzione del coronoavirus può perltro ricadere anche sotto la applicabilità del’art. 260 del Testo unico delle leggi sanitarie, che punisce con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda da lire 40.000 a 800.000 la condotta di chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo; Il governo probabilmetne non conosceva la norma, che non viene mai richiamata nei decreti governativi, ma che può comunque essere constestata.

Di seguito un'analisi più compiuta delle singole fattispecie di reato, dovendo peraltro segnalare che la fonte primaria che legittima le misure di contenimento del contagio (Decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6) stabilisce che "salvo che il fatto non costituisca piu' grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto e' punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale".

 

Attenzione il quadro noramtivo è cambiato dal 26 marzo 2020 per effetto del decreto legge 19/2020: consulta l'aggiornamento.

 

 

1. L’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (art 650 c.p.)

 

1.1 Introduzione

 L’art. 3 comma 4 del Decreto Legge 23 febbraio 2020 n. 6, concernente “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID – 19” richiama l’articolo 650 del codice penale, che punisce

  • chiunque
  • non osservi un provvedimento
  • legalmente dato
  • dall’Autorità competente
  • per ragione di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o d’igiene (elencazione tassativa)

con la pena dell’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato[1].

La inosservanza - quando anche non venga esclusa la punibilità per particolare tenuità del fatto (131 bis c.p.) - quindi è punita alternativamente con una pena pecuniaria o detentiva. Trattandosi però di contravvenzione, è applicabile l'oblazione discrezionale (162 bis c.p.), che consente l’estinzione del reato versando la metà della pena pecuniaria massima prevista, pari ad € 103 oltre le spese del proedimento (salvo una particolare gravità del fatto).

Si tratta quindi di un’arma .. spuntata.

 La norma rientra nella categoria delle cd. leggi penali in bianco, cioè una legge che rinvia ad un atto normativo di grado inferiore per l'individuazione del comportamento sanzionato[2]: essa tutela l'ordine pubblico sub specie polizia di sicurezza, anche se l'interesse tutelato dall'art. 650, in ogni caso, non è leso in modo apprezzabile allorché la violazione del provvedimento attenga solo ad una delle modalità di esecuzione del medesimo, senza pregiudicarne il contenuto essenziale.

Dato che si tratta di una contravvenzione, viene punito non solo l’inosservanza per dolo (e cioè inosservanza cosciente e volontaria), ma anche l’inosservanza per colpa, cioè per negligenza, imprudenza o imperizia (c.d. colpa generica). 

Persona offesa dal reato è la collettività nel cui interesse l'ordine deve essere adempiuto, mentre il privato, che sostenga di aver subito un pregiudizio dalla inosservanza del provvedimento, può assumere esclusivamente la qualità di soggetto danneggiato (C., Sez. III, 25.2.2016, n. 35287)[3]

1.2 Condotta

La contravvenzione prevista dall'art. 650 consiste nella inosservanza del provvedimento dell'Autorità legalmente dato per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o d’igiene.

 La condotta, dunque, ha forma omissiva; se non c’ un termine per adempiere all’ordine, la contravvenzione non è consumata sino a quando l'adempimento risulti ancora utile, in relazione alle particolari circostanze del caso concreto, a meno che non si tratti di ordine che avrebbe dovuto essere eseguito non appena ricevuto dal destinatario (Sabatini, Le contravvenzioni, 139; Manzini, X, 50). Il reato ha natura permanente, protraendosi sino a quando persiste l'obbligo di ottemperare al provvedimento (Antolisei, PS, II, 466; il reato è eventualmente permanente secondo Manzini, X, 51).

Le pronunce giurisprudenziali sulla natura istantanea o permanente della contravvenzione sono alquanto variegate, riflettendo esse la molteplicità delle situazioni nelle quali il provvedimento può rimanere inosservato: la contravvenzione si considera permanente ogni qual volta l'inottemperanza all'ordine realizzi una situazione antigiuridica che si protragga nel tempo e che sia suscettibile di cessare con l'esecuzione di quanto prescritto; si considera istantanea, invece, quando l'ordine non possa più essere utilmente eseguito dopo la scadenza del termine fissato dall'autorità (C., Sez. I, 1.10.2014, n. 49646; C., Sez. I, 22.1.1997; nello stesso senso, C., Sez. I, 9.1.1996; C., Sez. I, 22.5.1992) ovvero quando, pur permanendo la materiale possibilità dell'adempimento, sia cessato l'interesse al rispetto dell'ordine (C., Sez. I, 4.6.1997) o, ancora, quando il termine fissato dall'autorità debba intendersi come perentorio, nel qual caso l'eventuale adempimento successivo non assume rilevanza alcuna al fine di escludere la sussistenza del reato (C., Sez. I, 11.7.1997; C., Sez. I, 30.5.1997). Secondo C., Sez, I, 13.7.2009, l'inottemperanza all'ordine, legalmente dato dall'Autorità, di compiere una determinata attività entro un prefissato termine integra un reato istantaneo, che si perfeziona nel momento stesso della scadenza del termine di adempimento senza che l'ordine sia osservato; tuttavia, l'eventuale, successivo protrarsi della condotta illecita non rappresenta un post factum penalmente irrilevante, ma deve essere oggetto di una ulteriore specifica contestazione ad opera del Pubblico ministero. Ove si tratti di inosservanza a un ordine di comparizione, il reato si consuma alla scadenza della data di comparizione fissata dal provvedimento e indicata nella contestazione dell'accusa, senza che rilevi, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione, la natura eventualmente permanente del reato in esame, poiché il giudice potrebbe tener conto dell'eventuale successivo protrarsi della condotta illecita solo qualora esso fosse stato oggetto di una contestazione suppletiva da parte del P.M. (C., Sez. I, 30.3.2006; C., Sez. I, 23.9.2004).

L'apposizione di un termine per l'adempimento da parte della pubblica amministrazione, peraltro, non è necessaria (C., Sez. I, 3.12.1992): ove esso manchi, il reato si consuma con l'inutile decorso del tempo entro il quale ragionevolmente il soggetto sarebbe stato in grado di obbedire, secondo una valutazione discrezionale del giudice che tenga conto del caso concreto e dell'adempimento richiesto (C., Sez. I, 7.2.1997; C., Sez. I, 25.7.1996; C., Sez. VI, 30.9.1975; nel caso deciso da C., Sez. I, 11.12.1992, il destinatario del provvedimento era stato sollecitato dall'Autorità ed era passato un notevole lasso di tempo; un caso analogo è stato deciso da C., Sez. I, 11.1.1993, che ha assimilato l'omissione ad un espresso rifiuto; ritiene consumato il reato nel momento in cui si sia realizzata quella situazione che impedisce l'utile osservanza del provvedimento C., Sez. I, 30.11.1992).

 Una volta consumata la contravvenzione, nessuna importanza hanno la cessazione delle contingenze che determinarono l'adozione del provvedimento ovvero l'annullamento del provvedimento medesimo (Romano, Commentario, 59 e autori ivi citati; contra, sul presupposto che il provvedimento integri precetto dell'art. 650, Podo, Successione di leggi penali, in NN.D.I., XVIII, Torino, 1982, 659). Neppure si attribuisce da parte della dottrina rilevanza alla revoca sopravvenuta dell'atto (Manzini, X, 51; Sabatini, Le contravvenzioni, 140; contra, Podo, 670), salvo un'opinione secondo cui tale vicenda, sancendo l'inopportunità sin dall'inizio del provvedimento amministrativo, sarebbe un fatto capace di rendere riconoscibile ex post l'inidoneità lesiva della condotta di inosservanza e di condurre alla declaratoria di impossibilità del reato ai sensi dell'art. 49, 2° co. (Petrone, 313; de iure condendo, si propone che revoca e annullamento del provvedimento rilevino quali causa di estinzione del reato, in quanto il ritiro dell'atto amministrativo, riconosciuto erroneo per profili di legittimità o di merito, potrebbe far venir meno il bisogno di punire l'inosservanza di esso: Basile, 6637; Romano, Repressione, 108). 

Recentemente la Corte di Cassazione ha ritenuto inapplicabile l'art. 650 quando l'interesse della pubblica amministrazione ad ottenere dal privato cittadino un certo comportamento sia venuto meno per revoca o annullamento del provvedimento violato (C., Sez. I, 19.9.1996); il più tradizionale orientamento considerava invece irrilevanti tali vicende (C., Sez. III, 14.12.1950; C., Sez. III, 6.9.1950).

 Quanto al soggetto attivo della contravvenzione di cui all'art. 650, esso va individuato nel destinatario del provvedimento legalmente dato dall'Autorità che, potendo ottemperarvi, non vi abbia adempiuto: tale è la persona fisica nei confronti della quale l'ordine sia emesso, ovvero, nel caso in cui l'ordine sia impartito ad una persona giuridica, il legale rappresentante della stessa (C., Sez. I, 24.2.1994).

1.3 Elemento soggettivo: dolo o colpa

La contravvenzione prevista dall'art. 650 è soggettivamente imputabile, secondo il principio generalmente stabilito dall'art. 42, ult. co., tanto se commessa con dolo quanto se commessa per colpa. È necessaria, peraltro, la volontarietà del fatto: tale requisito è soddisfatto quando il soggetto sappia, o venga posto in condizione di sapere, che il provvedimento inosservato è stato emanato per una delle ragioni indicate nell'art. 650 e quando sappia, o debba sapere, che il provvedimento è stato legalmente dato dall'Autorità (Manzini, X, 52; Sabatini, Le contravvenzioni, 178).

A garantire la conoscenza del provvedimento necessaria per imputarne l'eventuale inosservanza al destinatario, dunque, si richiede che esso sia specificamente motivato, con riferimento ad una delle quattro ragioni previste dall'art. 650 (su ciò si veda supra, par. 3); e inoltre che, una volta emesso, essa sia stato comunicato al destinatario. Se la legge prescrive modalità particolari per la comunicazione (notificazione, pubblicazione), solo il rispetto di tali modalità garantisce la legale conoscenza del provvedimento; in mancanza di prescrizioni, la comunicazione può essere effettuata nella forma ritenuta idonea, ove il provvedimento abbia carattere impersonale, mentre deve essere direttamente comunicato al destinatario, ove si tratti di provvedimento ad personam (Sabatini, Le contravvenzioni, 161).

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 650 è sufficiente, secondo il principio generale, la mera colpa (C., Sez. I, 10.1.1995; C., Sez. I, 6.7.1994). Per la sussistenza del reato è necessario che risulti provata la conoscenza piena e legale del provvedimento (C., Sez. I, 11.11.2009) e, in particolare, delle ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o igiene per le quali esso è stato emanato (C., Sez. I, 6.5.1994). Poiché non sono prescritte per i provvedimenti dell'Autorità amministrativa le forme di pubblicazione previste per le leggi e i regolamenti, è sufficiente che essi siano portati a conoscenza del cittadino con ogni mezzo idoneo, fra cui anche l'affissione nei pubblici locali o per le strade (C., Sez. VI, 12.2.1975), la diffusione a mezzo di giornali o della radio (C., Sez. III, 21.6.1954; C., Sez. III, 18.12.1951), l'inserzione nel foglio degli annunci legali della provincia (C., Sez. III, 28.6.1958), l'affissione nell'albo pretorio (C., Sez. III, 9.12.1950). Sussiste il requisito della comunicazione di un'ordinanza del sindaco che ordina la bonifica del fondo da erbe incolte nel caso in cui essa sia affissa all'albo pretorio, inserita sul sito web del Comune e pubblicata con manifesti (C., Sez. IV, 21.6.2012, n. 39897). Spetta, comunque, al giudice di merito valutare se la forma di divulgazione prescelta dall'Autorità emanante sia stata in concreto adeguata a garantire la conoscenza del provvedimento da parte dei cittadini (C., Sez. III, 10.5.1954; C., Sez. III, 3.5.1952).

L'ignoranza incolpevole dell'ordine dell'Autorità, come l'errore incolpevole sul contenuto dell'ordine stesso, sono da considerarsi errore sul fatto ai sensi dell'art. 47, 1° co.: essi, dunque, secondo i principi generali escludono la sussistenza della contravvenzione (Antolisei, PS, II, 466; Romano, Repressione, 177; contra, poiché si tratterebbe in tali casi di errore sul precetto, Spagnolo, 3).

In ogni caso, per escludere la colpevolezza non basta constatare che l'agente abbia versato in errore circa il presupposto di fatto o di diritto costitutivo dell'incriminazione, ma occorre altresì accertare che l'errore sia del tutto incolpevole. 

1.4  Il “provvedimento dell'Autorità”?

La dottrina penalistica sull'art. 650 identifica il provvedimento con la manifestazione di volontà di un soggetto dotato di poteri autoritativi, estrinsecatasi in un atto tipico, nominativo e imperativo (Manzini, X, 25; Sabatini, Le contravvenzioni, 154).

Il reato però è integrato solo quando il provvedimento si diriga con forza obbligatoria nei confronti del destinatario, gli atti cui si riferisce l'art. 650 costituiscono sempre e necessariamente ordini: è irrilevante l'inosservanza di semplici inviti necessitando di atti imperativi emanati da un organo amministrativo che possa manifestare la volontà dell’ente avente forza coercitiva .

 Non costituiscono provvedimenti rilevanti ai sensi dell'art. 650 i pareri tecnici, atti meramente preparatori interni al procedimento amministrativo, privi in sé di efficacia cogente nei confronti dei terzi finché non siano stati recepiti in provvedimenti dell'autorità di pubblica sicurezza (C., Sez. I, 3.5.2000). 

Peraltro, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 650, che l'inosservanza riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato in occasione di un certo evento o di una certa circostanza, non integra però il reato una disposizione regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti (C., Sez. fer., 1.8.2013, n. 44238; C., Sez. I, 19.3.2013, n. 15936).

 L'art. 650 c.p. punisce l'inosservanza del provvedimento purché legalmente dato, perché solo in tal caso esso ha forza obbligatoria nei confronti del destinatario. Il provvedimento, in primo luogo, deve essere formalmente legale, cioè dato con il rispetto delle formalità eventualmente richieste dalla legge (Antolisei, PS, II, 463; Manzini, X, 27).

A questo proposito, la regola è la validità del provvedimento in qualsiasi forma - purché idonea (si vedano, ad esempio, gli artt. 22 e 23, R.D. 18.6.1931, n. 773) - esso sia dato e partecipato, salvo che la legge prescriva a garanzia della pubblica amministrazione o del destinatario determinate forme (intimazioni, notificazioni, forma scritta) ad substantiam, l'inosservanza delle quali esime il destinatario dall'obbligo di obbedienza (Manzini, X, 29; Sabatini, Le contravvenzioni, 160; v. anche la Relazione sui libri II e III, 489).

Diversamente, sul punto, la giurisprudenza recente si dimostra rigorosa. Mentre le pronunce più risalenti - ove la legge non prevedesse espressamente la forma scritta - consideravano il provvedimento legalmente emesso anche se dato verbalmente (C., Sez. I, 26.3.1953; C., Sez. III, 3.4.1950; sulla legittimità, in particolare, dell'ordine impartito oralmente da agenti di pubblica sicurezza ad un indiziato di presentarsi immediatamente in questura per accertamenti: C., Sez. I, 23.1.1970; C., Sez. IV, 15.3.1966; C., Sez. IV, 5.10.1965; C., Sez. IV, 19.1.1965), le più recenti pronunce richiedono che la manifestazione di volontà della pubblica amministrazione sia resa in forma scritta e in termini chiaramente intellegibili, date le esigenze di determinatezza del comportamento imposto al suo destinatario (C., Sez. I, 3.12.1992) ed escludono la possibilità anche della mera integrazione dell'ordine scritto da parte di una intimazione orale (C., Sez. I, 16.1.1996; in termini meno perentori C., Sez. I, 16.12.1995, secondo cui è consentita un'integrazione verbale della motivazione, purché questa sia già sufficientemente specificata per iscritto).

Fra i requisiti di legittimità del provvedimento si annovera anche la presenza di una sufficiente motivazione, la cui carenza costituisce violazione di legge, quando essa sia richiesta espressamente da una norma giuridica (si legga ora l'art. 3, L. 7.8.1990, n. 241, che sancisce tale obbligo per la generalità dei provvedimenti amministrativi, salvo quelli espressamente esclusi), ovvero è sintomatica di un eccesso di potere da parte della pubblica amministrazione (Sabatini, Le contravvenzioni, 152). La necessità di un'adeguata motivazione del provvedimento, peraltro, discende anche da considerazioni squisitamente interne alla fattispecie: l'interpretazione pregnante dell'elemento della "ragione" del provvedimento, infatti, impone non solo che il provvedimento risulti in sé stesso determinato dalle ragioni tassativamente indicate dall'art. 650, ma anche che il motivo che lo informa sia conosciuto e compreso da colui al quale è diretto (per tutti Manzini, X, 34; contra Siniscalco, 666, in considerazione del fatto che letteralmente la norma richiede soltanto che il provvedimento sia dato "per ragioni di" giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o igiene, e non che tali ragioni si riflettano sul contenuto di esso); pertanto, ove tale motivo non appaia evidente dalle stesse circostanze concrete o dalla connessione con altri atti dell'Autorità, già noti o in via di esecuzione, il provvedimento deve essere formalmente motivato mediante l'indicazione non solo della generica ragione che lo ha determinato, ma altresì del motivo specifico, fra quelli indicati dall'art. 650, che lo sorregge (Manzini, X, 35). Per la completezza della motivazione è sufficiente che essa contenga l'esposizione delle circostanze di fatto che giustificano - sulla base delle norme di legge richiamate - l'emissione del provvedimento (Alibrandi, La sindacabilità del provvedimento amministrativo nel processo penale, Milano, 1969, 84), mentre compete al giudice di verificare la logicità dell'iter che dai fatti affermati porta all'emissione del provvedimento (Sabatini, Le contravvenzioni, 153).

 Pacifico in giurisprudenza che il provvedimento debba essere motivato (C., Sez. I, 10.1.1995; C., Sez. I, 6.5.1994; C., Sez. I, 18.3.1993) e che la garanzia costituita da tale requisito sia da intendersi in senso sostanziale: la motivazione dell'ordine impartito dall'Autorità non deve essere "apparente" (C., Sez. I, 11.4.1995), nel senso che il testo del provvedimento deve contenere, sia pure succintamente, l'indicazione della concreta ragione che lo sorregge fra quelle indicate dall'art. 650, così da soddisfare il requisito della determinatezza del provvedimento (C., Sez. I, 11.4.2003; C., Sez. I, 3.12.1992) e da consentire al destinatario una sufficiente cognizione della legalità anche sostanziale dell'ordine ( C., Sez. I, 29.9.1997; C., Sez. I, 30.5.1995; C., Sez. I, 6.5.1994); le circostanze di fatto e di diritto alle quali è condizionato l'esercizio del potere di ordinanza da parte dell'Autorità devono risultare dall'atto medesimo, né è consentito al giudice integrare il testo del provvedimento con considerazione relative alla situazione concreta che lo ha determinato (C., Sez. III, 27.5.1955; C., Sez. III, 28.2.1955); non è sufficiente il mero richiamo alla norma attributiva del potere di emettere il provvedimento (C., Sez. II, 27.1.1959). Non è necessaria, invece, l'indicazione della disposizione penale che il giudice sarebbe chiamato ad applicare per effetto dell'inosservanza del provvedimento (C., Sez. I, 10.1.1994)[4].

Non vi è dubbio che il giudice penale abbia il potere di sindacare la legalità del provvedimento: in tale sindacato, infatti, si realizza l'accertamento della sussistenza di un elemento - normativo - della fattispecie; il relativo potere in capo al giudice rientra in quello di accertamento della conformità del fatto allo schema legale del reato nel quale consiste l'essenza stessa della giurisdizione penale (così la dottrina più recente: Galli, Corso di diritto amministrativo, II, Padova, 2001, 1494; Villata, "Disapplicazione" dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1980, 110; diversamente, la dottrina più risalente individuava la fonte di tale potere nel disposto dell'art. 5, L. 20.3.1865, n. 2248, all. E, a norma del quale l'autorità giudiziaria ordinaria applica «gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi», disapplicandoli in caso contrario: il sindacato così esercitato veniva iscritto nell'area della pregiudizialità, ritenendosi che la cognizione sulla legalità del provvedimento fosse esercitata da parte del giudice penale per occasioneme incidenter tantum, al fine di stabilire l'esistenza di un presupposto del fatto che costituisce reato, a differenza del sindacato del giudice civile, che giudica principaliter sulla legittimità del provvedimento ai fini della eventuale disapplicazione di esso: Battaglini, Le ordinanze prefettizie di necessità o d'urgenza e l'art. 650 Cod. pen., in GP, 1953, II, 891; Cannada Bartoli, Disapplicazione di ordini illegittimi, in GP, 1951, II, 936; Venditti, Il sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, in RIDPP, 1965, 28; Sabatini, Le contravvenzioni, 142).

Anche in giurisprudenza è costante l'affermazione che il potere di sindacato del giudice penale sulla legalità del provvedimento attenga al più generale potere di tale giudice di accertare la rispondenza del fatto alla fattispecie descritta dall'art. 650 c.p., sia per quanto riguarda la legalità formale quanto la legalità sostanziale del provvedimento, con esclusione del controllo sulla discrezionalità, intesa come necessità, opportunità, convenienza e speditezza del provvedimento ( C., Sez. feriale, 30.7.2004; C., Sez. I, 20.11.1990; C., Sez. VI, 16.4.1975; C., Sez. VI, 10.3.1975; C., Sez. I, 17.6.1974; C., Sez. VI, 14.6.1972).

Può ritenersi ormai consolidato, infine, l'insegnamento che ritiene sindacabile dal giudice penale il vizio di eccesso di potere, insieme a quelli tradizionali dell'incompetenza e della violazione di legge (C., Sez. I, 28.3.2006; C., Sez. I, 8.10.2004; C., Sez. I, 22.6.2004; C., Sez. I, 7.10.1993; C., Sez. I, 3.12.1992; C., Sez. I, 24.6.1992; C., Sez. VI, 16.4.1975; C., Sez. I, 17.12.1973; C., Sez. III, 26.11.1971; C., Sez. VI, 19.10.1970; A. Roma 26.6.1989; P. Venezia 23.5.1990)[5].

Sul punto si legga anche Corte Costituzionale 8.7.1971, n. 168, che ha definito "doveroso" il sindacato del giudice penale chiamato ad accertare la sussistenza della contravvenzione in esame. L'ampiezza del sindacato spettante al giudice rende necessario l'accertamento dell'esistenza stessa dei presupposti dell'obbligo intimato: in particolare, ad esempio, quando l'obbligo consista in una prestazione personale o patrimoniale imposta al privato con il provvedimento amministrativo a titolo di riparazione di una condotta lesiva della sicurezza pubblica, il giudice dovrà verificare sia il coinvolgimento dell'intimato nel fatto lesivo, sia la sussistenza, in capo a lui, della giuridica facoltà di prestare l'attività imposta (C., Sez. I, 22.6.2004). La contravvenzione non è integrata quando il provvedimento amministrativo violato, difettando dei requisiti di legittimità, debba essere incidentalmente disapplicato in sede penale (C., Sez. I, 7.2.2012, n. 11448). L'inottemperanza ad un'ordinanza emessa da soggetto delegato dal sindaco ma incompetente non integra la contravvenzione (C., Sez. I, 1.2-15.2.2018, n. 7405). 

1.5. Ragioni di “giustizia”, “sicurezza pubblica” “ordine pubblico” o “igiene”.

L’ordine dell’autorità deve essere stato emanato per ragioni di “giustizia”, “sicurezza pubblica” “ordine pubblico” o “igiene”.

Per ragioni di giustizia si intendono quelle che riguardano in genere l'attuazione del diritto oggettivo, sia da parte del giudice sia da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria (Antolisei, PS, II, 464). Analoga formula è consolidata nelle pronunce delle Corti: C., Sez. I, 8.7.1992; C., Sez. I, 23.3.1992; C., Sez. I, 28.11.1991; C., Sez. VI, 8.1.1979; C., Sez. VI, 11.4.1975; C., Sez. VI, 13.3.1969; C., Sez. IV, 16.10.1964.

 Per quanto riguarda l’”ordine pubblico”, esso pare identificarsi con l’ordine pubblico in senso stretto - cioè in contrapposizione a pubblico disordine, quale aspetto dell'ordine pubblico generale che costituisce l'oggetto della contravvenzione (Manzini, X, 47) - così che d'ordine pubblico devono dirsi le ragioni riguardanti la tutela della tranquillità pubblica, della pace sociale, del regolare andamento della convivenza civile (Antolisei, PS, II, 465; Calzolari, Art. 650 e riserva di legge in materia penale, in AP, 1971, II, 273; Sabatini, Le contravvenzioni, 175; Spagnolo, 3; Vigna, Bellagamba, 294).

Lo dimostra la varietà dei casi che la giurisprudenza ha ricondotto all'identica formula secondo cui ragioni di ordine pubblico sono quelle che mirano a tutelare la quiete, la tranquillità pubblica e l'armonia sociale (C. 5.2.1937). In particolare, si sono considerati emessi per ragioni d'ordine pubblico: l'ordine impartito da agenti di pubblica sicurezza di rimuovere il veicolo parcheggiato in modo da ostruire un passo carrabile (C., Sez. I, 10.3.1997; in termini diversi P. Cremona, G.I.P., 26.11.1990, secondo cui la contravvenzione de qua non è integrata quando la sosta vietata non crei ostacolo alla fluidità del traffico e non ponga in pericolo l'incolumità dei cittadini); l'ordine di circolare a targhe alterne (C., Sez. I, 5.11.1985; C., Sez. I, 26.9.1985; C., Sez. IV, 24.9.1984; C., Sez. IV, 6.7.1984); l'ordine del sindaco di ridurre la rumorosità di un'attività di tintoria e di sospendere il lavoro in orario notturno (C., Sez. I, 9.12.1980; C., Sez. VI, 29.1.1971); l'ordine di un sottufficiale dei carabinieri intimato ad un ubriaco di uscire da un locale (C., Sez. III, 5.3.1973); l'ordine di allontanarsi dalle vicinanze di una fabbrica impartito dai Carabinieri a persona che in occasione di uno sciopero vi sostava in atteggiamento ritenuto suscettibile di arrecare disordini (C., Sez. III, 26.1.1961); l'ordine impartito da un Maresciallo dei Carabinieri a persona che aveva partecipato ad un litigio in un locale di non rientrare in esso (C., Sez. VI, 27.10.1970; C. 15.11.1938); l'ordine impartito ai partecipanti ad una pubblica manifestazione autorizzata di sgomberare la strada onde assicurare nel pubblico interesse la circolazione delle persone e dei veicoli (C., Sez. VI, 17.5.1969); il divieto di incitare gli operai allo sciopero (C., Sez. III, 18.3.1952); l'ordine del sindaco di applicare al tubo di scarico di un forno un apparecchio raccoglitore della fuliggine, al fine di evitare disturbi e danni (C., Sez. II, 5.5.1951); il divieto disposto dal prefetto dell'uso di altoparlanti per la propaganda (C., Sez. III, 25.6.1949). Non è scriminata dall'esercizio del diritto di critica e del diritto di cronaca la condotta del giornalista che abbia violato il divieto prefettizio di stazionare e circolare in una determinata zona nella quale lo stesso si era introdotto al fine di acquisire notizie utili per la realizzazione di una trasmissione radiofonica (C., Sez. I, 7.4.2016, n. 27984).

(Segue) Igiene

L'art. 650 sanziona, infine, l'inosservanza al provvedimento dato dall'Autorità per ragioni d'igiene, cioè per ragioni che riguardino la sanità pubblica (Antolisei, PS, II, 465; Manzini, X, 49), a meno che tale condotta non sia repressa già da altra norma giuridica (Relazione sui libri II e III, 489; si leggano, a titolo di esempio, gli artt. 260 e 264, R.D. 27.7.1934, n. 1265). Rileva ai sensi dell'art. 650 l'inosservanza di provvedimenti dell'Autorità non specificamente sanzionata dalla legge sanitaria (C., Sez. I, 3.2-26.4.1983), e in particolare dal R.D. 27.7.1934, n. 1265, contenente il testo unico delle leggi sanitarie. In applicazione di tale principio, si è esclusa la sussistenza della contravvenzione in esame nel caso della inosservanza: all'ordinanza del sindaco che imponga a taluno l'allontanamento di animali o dei loro ricoveri dal centro abitato (C., Sez. I, 2.7.1996; C., Sez. I, 15.1.1996; contra C., Sez. I, 28.11.1995; C., Sez. II, 6.11.1995; C., Sez. I, 3.11.1995); all'ordinanza del Ministro della sanità volta a prevenire il diffondersi dell'afta epizootica e della tubercolosi bovina in Sardegna (C., Sez. VI, 26.11.1971); all'ordinanza con la quale il sindaco richiami al rispetto degli obblighi sulle vaccinazioni obbligatorie (C., Sez. I, 12.12.1990); alle prescrizioni adottate dal sindaco per prevenire il pericolo di rabbia (C., Sez. VI, 22.5.1968). La giurisprudenza ha ritenuto tutelati dall'art. 650, invece, in quanto inerenti alla salute pubblica e non sanzionati da altra norma: l'ordinanza sindacale di sospensione, nei confronti del gestore di una macelleria, dell'autorizzazione sanitaria all'esercizio di un laboratorio interno per mancanza dei requisiti di cui all'art. 28, D.P.R. 26.3.1980, n. 327 (C., Sez. I, 9.3.2005); l'ordine impartito dal sindaco di provvedere alla pulizia e al mantenimento delle buone condizioni ambientali di uno stabilimento per la produzione del cosiddetto "compoinerte" (C., Sez. III, 10.12.2003) e quello di rimuovere "rifiuti speciali" quali materiali provenienti da demolizioni e scavi nonché macchinari deteriorati o obsoleti (C., Sez. I, 14.11.1996); il provvedimento con il quale sia stata disposta la chiusura di una cava in quanto priva della licenza prescritta per il prelievo dei materiali d'opera prescritto dalla legge sanitaria (che, tuttavia, non ne sanziona la mancanza: C., Sez. I, 16.12.1996); l'ordine di sospensione di uno scarico inquinante (C., Sez. III, 18.2.1986); l'ordine di eliminare la rumorosità di un impianto termico (C., Sez. VI, 6.12.1980); il provvedimento con cui l'autorità richieda ad uno stabilimento industriale, per ragioni di igiene pubblica, la comunicazione di dati relativi alle proprie emissioni, ai sensi dell'art. 62, D.P.R. 15.4.1971, n. 322 (C., Sez. III, 14.12.1979); l'ordine rivolto al sindaco dal Medico provinciale di far provvedere alla recinzione della discarica dei rifiuti del Comune (C., Sez. VI, 7.7.1978); l'ordine del sindaco di sospendere immissioni di sostanze nocive in acque pubbliche (C., Sez. IV, 10.10.1973); i provvedimenti adottati dal medico provinciale nell'esercizio dei particolari poteri attribuitigli dalla L. 25.7.1956, n. 837 nei confronti delle persone affette da malattie veneree (C., Sez. III, 30.6.1968); l'ordine di chiudere una pensione per ragioni d'igiene (C., Sez. II, 9.7.1943); l'ordine di eliminare un pozzo nero emanante esalazioni nocive (C. 23.2.1934).

Può essere punita a norma dell'art. 650, ove non sanzionata da altre norme, l'inosservanza ai provvedimenti coercitivi a tutela dell'ambiente diretti ad ottenere la conformità delle emissioni gassose in atmosfera alle prescrizioni della legge e dei provvedimenti autorizzativi adottati dal responsabile del settore, giacché la salubrità dell'aria incide sull'igiene e quindi sulla sanità (C., Sez. III, 26.1.2007). 

Attenzione il quadro noramtivo è cambiato dal 26 marzo 2020 per effetto del decreto legge 19/2020: consulta l'aggiornamento.

2. La dichiarazione mendace 

In seguito all’istituzione di zone rosse (dapprima limitate ad alcuni comuni e regioni del Nord Italia, poi a estesa a tutto il territorio nazione) è stato predisposto da parte del Ministro degli Interni un modulo per “autocertificare” le ragioni di deroga al vieto di spostamento (e cioè la sussistenza di esigenze lavorative, situazioni di necessità o per motivi di salute).

Si tratta di della autocertificazione prevista dal D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, sub art. Articolo 47 rubricato “Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà”: il cd. atto di notorietà può infatti avere ad oggetto fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato. La legge prevede controlli in capo alle amministrazioni  procedenti , che sono  tenute ad  effettuare  idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi, sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive.

Chiunque rilasci dichiarazioni mendaci, è punito ai sensi del codice penale edelle leggi speciali in materia (art. 76 DPR cit.): il richiamo va all’articolo 483 c.p.p, rubricato “falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” che prevede una pena sino a due anni.

Peraltro, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è configurabile solo nei casi in cui una “specifica” norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (Sez. V, n. 32859/2019).

Si precisa peraltro che in Italia non è previsto alcun obbligo a firmare alcunché, quindi nemmeno la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.  

Meno convincente è invece lil tentativo di configurare il reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (495 c.p.), dato che il falso non ha ad oggetto qualità personali.

3. Il delitto di epidemia 

3.1 Introduzione

 Con il termine epidemia si intende una particolare malattia infettiva che, sviluppatasi in maniera più o meno brusca, colpisce gruppi rilevanti della popolazione, per poi attenuarsi più o meno rapidamente dopo aver compiuto il suo corso (Piccinino, I delitti, 124; Battaglini, Bruno, 559). Secondo un orientamento restrittivo, epidemia non è qualunque malattia infettiva e contagiosa ma soltanto quella suscettibile di diffondersi nella popolazione per la facile propagazione dei suoi germi, in modo da colpire in un unico contesto temporale un elevato numero di persone (Erra, 47; Manzini, 398, il quale richiede, altresì, il carattere della straordinarietà). 

Al riguardo, la giurisprudenza ha indicato come elementi dell'epidemia (intesa come malattia contagiosa che colpisce ad un tempo stesso gli abitanti di una città o di una regione):

  • il carattere contagioso del morbo;
  • la rapidità della diffusione e la durata limitata del fenomeno;
  • il numero elevato delle persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale e correlativo pericolo per un numero indeterminato e notevole di persone;
  • un'estensione territoriale di una certa ampiezza, sì che risulti interessato un territorio abbastanza vasto da meritare il nome di regione e, di conseguenza, una comunità abbastanza numerosa da meritare il nome di popolazione (T. Bolzano 13.3.1979. In senso conforme v. anche T. Savona 6.2.2008, che ha escluso il configurarsi del reato nell'ipotesi in cui l'insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano nell'ambito di un ristretto numero di persone. Richiede l'incontrollabilità del diffondersi del male T. Bolzano 20.6.1978).

 In questa prospettiva si è escluso che possa integrare il delitto in esame la causazione di un focolaio epidemico, ove la malattia si manifesti in ambiente ristretto e rimanga localizzata, come per esempio in una comunità familiare (Battaglini, Bruno, 559; Piccinino, I delitti, 258).

Ad analoghe conclusioni è giunta la giurisprudenza in relazione all'ipotesi in cui la malattia si sia manifestata nell'ambito di una struttura ospedaliera (T. Bolzano 20.6.1978. V. anche T. Roma, Sez. VII, 22.3.1982: il Tribunale ha ritenuto insussistente l'epidemia in un caso in cui la salmonellosi Wien aveva causato la morte di sedici neonati presso il nido di una clinica pediatrica, trattandosi di malattia infettiva diffusasi in ambiente chiuso, e qui rimasta localizzata, e perciò non avente caratteristiche tali, quanto a vastità e diffusibilità, da configurare un pericolo alla salute di un numero rilevante e indeterminato di persone, tenuto conto della possibilità di mantenere circoscritto il fenomeno e di adeguatamente contrattaccarlo).

L'epidemia deve essere tenuta distinta dalla endemia, in quanto la prima deriva da una causa accidentale e la seconda da una causa abituale, costante o periodica per la quale la malattia si ripete costantemente in un determinato territorio con poche diffusioni di variazioni da un ciclo all'altro (Riondato, 1098).

L'epidemia concerne esclusivamente le malattie umane, non anche le malattie infettive degli animali (epizoozie) o delle piante, le quali possono eventualmente configurare il delitto di cui all'art. 500 o il reato di danneggiamento qualora ne sussistano gli estremi [Manzini, 398; Mazza, Riondato, Il reato di diffusione di una malattia degli animali (art. 500 c.p.). Un raro caso di applicazione giurisprudenziale, in GA, 1989, 49. Secondo Ardizzone, 252, se la diffusione delle malattie alle piante o agli animali per la propagazione dei germi patogeni colpisce anche le persone, determinandosi così un pericolo per la salute di un indeterminato numero di individui, si applicherà l'art. 438].

3.2 La salute pubblica, il bene giuridico tutelato 

Il delitto di epidemia apre la serie delle norme poste a tutela dell'incolumità pubblica nel particolare settore della salute pubblica (Ardizzone, Epidemia, in Digesto pen., IV, Torino, 1990, 253). In riferimento al fatto di epidemia, la tutela della salute pubblica esprime l'esigenza che il contagio di malattie infettive, che abbia già interessato un certo numero di individui, non ne colpisca altri in modo da incrinare la sicurezza delle condizioni di salute della collettività (Ardizzone, 253).

La salute pubblica è bene di significativa rilevanza costituzionale (art. 32 Cost.), suscettibile di diverse interpretazioni. 

In dottrina è discussa la natura - reato di danno o di pericolo - del delitto di epidemia (sul punto v., di recente, Bonfiglioli, Epidemia (Art. 438), in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato 1, IV, 390 ss).

Secondo un primo orientamento - che sembra preferibile -, la lesione della salute pubblica deve concretizzarsi in un effettivo danno consistente nella diffusione di determinate malattie (Santoro, Manuale di diritto penale, parte spec., III, Torino, 1965, 97). Si tratta di un reato di danno concreto per la salute pubblica (Riondato, sub art. 438, in Comm. Crespi, Forti, Zuccalà, 1097; Patalano, Significato e limiti della dommatica del reato di pericolo, Napoli, 1975, 194; Piccinino, I delitti, 255; Barbalinardo, sub art. 438, in Comm. Lattanzi, Lupo, IX, 507). Parte della dottrina ritiene, tuttavia, che si tratti di reato di pericolo concreto, in quanto il pericolo connesso alla diffusività del male caratterizza l'epidemia (Ardizzone, 254, e Nappi, I delitti contro la salute pubblica, in Giur. sist. dir. pen. Bricola, Zagrebelsky, IV, 651; v. anche D'Alessandro, Pericolo astratto e limiti di soglia, Milano, 2005, 179, secondo cui non è possibile parlare di epidemia in assenza di una minaccia concreta per una collettività indeterminata di persone). A ciò si obietta che oltre al pericolo, e prima di esso, è il danno che caratterizza la fattispecie in esame, mentre il pericolo per la salute pubblica costituisce, da un lato, una fase intermedia necessaria nella progressiva realizzazione del reato, configurandosi come pericolo concreto - rilevante ai fini dell'integrazione del tentativo - e, dall'altro lato, un effetto eventuale del delitto in relazione all'ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell'epidemia (Riondato, 1097). La diffusività della malattia induce peraltro qualche autore ad individuare una presunzione assoluta di pericolo, in considerazione anche della collocazione della norma tra i delitti di comune pericolo (Erra, Epidemia, in ED, XV, Milano, 1966, 47; Manzini, VI, 396. Contra Nappi, 651, il quale osserva che se l'epidemia richiede la diffusività della malattia, senza pericolo non vi è epidemia: non di presunzione si tratta, quindi, ma di implicazione logica di un concetto nell'altro).

Nella giurisprudenza di merito si è di recente affermato che, affinché il reato di cui all'art. 438 possa ritenersi integrato, è necessario che la condotta, consistente nella diffusione di germi patogeni, cagioni un evento definito come la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone. L'evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, costituendo il fatto come fatto di ulteriori possibili danni, cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall'incolumità e dalla salute pubblica, possa essere distrutto o diminuito (T. Trento 16.7.2004, in fattispecie concernente la diffusione di virus di specie Hiv, Hbv e Hcv).

3.2. Elemento oggettivo

 Il delitto di epidemia è un reato di evento a forma vincolata, in quanto la condotta delittuosa consiste nel cagionare un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni (Ardizzone, 251; sul punto vedi peraltro Riondato, 1097, il quale precisa che si tratta di reato a forma libera, attiva od omissiva, mentre il mezzo è vincolato dalle specifiche caratteristiche dell'evento morboso). La diffusione può avvenire tramite spargimento in terra, acqua, aria, ambienti e luoghi di ogni tipo, di germi patogeni idonei; liberazione di animali infetti; messa in circolazione di portatori di germi o di cose provenienti da malati; inoculazione di germi a determinati individui; scarico di rifiuti in acqua ecc. (Battaglini, Bruno, Incolumità pubblica (delitti contro la), in NN.D.I., VIII, Torino, 1965, 558; Dinacci, Inquinamento idrico e codice penale, in GP, 1977, I, 222; Piccinino, I delitti, 121; Manzini, 396; Santoro, 98).

Si è precisato in giurisprudenza (T. Bolzano 13.3.1979), che la norma punisce chi cagioni l'epidemia mediante diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche "in vivo" (per esempio, animali da laboratorio), mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che la affliggono.

 Le malattie infettive causate dalla diffusione di germi patogeni sono le malattie in diretto rapporto eziologico con la trasmissione di batteri, virus o determinati protozoi (Piccinino, I delitti, 118). Non rileva, dunque, la distinzione tra microrganismi patogeni e carica batterica, mentre il reato deve escludersi nel caso di malattia parassitaria (Piccinino, I delitti, 118; cfr. Battaglini, Bruno, 558, che nella locuzione germi patogeni includono tutti i microorganismi capaci di produrre malattie infettive; Santoro, 98, che si riferisce a batteri, bacilli, virus e altri germi; Ardizzone, 252, annovera nella categoria dei germi patogeni i protozoi per la lestimaniosi o la malaria, miceti per le fungosi, batteri, cocchi, virus, ecc. Sulla possibilità di ravvisare, a determinate condizioni, l'epidemia in relazione a condotte di diffusione del virus HIV che produce la malattia denominata Aids, v. Ardizzone, 252; sulla possibile configurazione del delitto di epidemia, a fronte di un numero rilevante di soggetti contagiati, in relazione alla vendita per la commercializzazione sul mercato e il successivo consumo di carni infettate dal morbo di Creutzfeldt - Jacobs, v. Stolfi, Brevi note sul reato di epidemia, in CP, 2003, 3946).

L'art. 438, 2° co. nel testo originario del codice penale comminava la pena di morte, qualora dal fatto fosse derivata la morte di due o più persone contagiate, prevedendo così una circostanza aggravante; tuttavia, data l'equiparazione del trattamento sanzionatorio a seguito dell'abolizione della pena di morte, la distinzione tra le due ipotesi, semplice e aggravata, non ha alcuna ragione di essere (Erra, 47). È dubbio, peraltro, che si tratti ancora di circostanza, non rivestendone la funzione ai fini dell'aggravamento della pena. Vi è, peraltro, la possibilità di ravvisare nella figura in commento l'evento relativo ad una fattispecie autonoma di reato di danno (Zuccalà G., Nota introduttiva al capo II, titolo III, libro I, agg. da Zuccalà M.A., in Comm. Crespi, Forti, Zuccalà, 229).

3.3 Elemento soggettivo

Nel delitto in esame il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e volontà dell'evento epidemico conseguente. Parte della dottrina richiede l'intenzione di cagionare l'epidemia, ovvero il fine di provocarla, escludendo in tal modo la rilevanza del dolo eventuale (Battaglini, Bruno, 48; Manzini, 399. Contra Antolisei, PS, II, 36; Fiandaca, Musco, 526).

 Non si rinviene giurisprudenza per il delitto di epidemia dolosa; gli scarsi precedenti giurisprudenziali (concernenti soprattutto casi di tossinfezione prodotta da salmonella) riguardano il delitto di epidemia colposa, prevista dall'art. 452 c.p.

3.4 Momento consumativo e tentativo

Il reato si consuma al momento del verificarsi dell'epidemia.

Il tentativo è configurabile qualora si sia avuta diffusione di germi patogeni senza che sia derivata l'epidemia, o se il contagio si sia arrestato a pochi casi (Ardizzone, 254). L'idoneità degli atti compiuti deve essere valutata sia in relazione alla qualità dei germi diffusi sia alle modalità della diffusione (Antolisei, 31; Battaglini, Bruno, 559; Erra, 48; Manzini, 399).

Attenzione il quadro noramtivo è cambiato dal 26 marzo 2020 per effetto del decreto legge 19/2020: consulta l'aggiornamento.

4. Inosservanza di un ordine teso d impedire diffusione di malattia infettiva (art 260 TULS)

 Stranamente (o forse no) il governo non ha richiamato il reato previsto dall’art. 260, R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 (cd. Testo unico delle leggi sanitarie), che punisce con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda da lire 40.000 a 800.000 la condotta di chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo, aggravanto se il fatto è commesso da persona che esercita una professione o un'arte sanitaria.

Si tratta di una contravenzione, ma non oblabile dato che vengono previste pena pecuniaria e detentiva in via cumulativa.

Singolare che poi la materia sia stata disciplianta (anche in deroga a diritti fondamentali) da decreto del Presidente dle Congisloi,m in luogo del Ministero degli Interni che ne avrebbe la competenza, dato che l'articolo 1 del Testo unico delle leggi sanitarie del 1934 (TULS), dispone che "la tutela della sanità pubblica spetta al Ministro per l'interno e, sotto la sua dipendenza, ai prefetti e ai podestà."

 

Attenzione il quadro noramtivo è cambiato dal 26 marzo 2020 per effetto del decreto legge 19/2020: consulta l'aggiornamento.

[1]Cfr. anche per le considerazioni che seguono, la banca dati Wolters Kluwer studio legale – leggi d’Italia (2020): i commenti sono riportati testualmente per ampi stralci. 

[2]Con la sentenza n. 168 del 1971 (C. Cost. 8.7.1971, n. 168), richiamata dalla successiva ordinanza di manifesta infondatezza n. 11 del 1977 (C. Cost. 12.1.1977, n. 11), la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 650, sollevata in relazione all'art. 25, 2° co., Cost., ribadendo (si legga, prima della citata sentenza, C. Cost. 23.3.1966, n. 26) che «il principio di legalità non è violato quando sia una legge dello Stato - non importa se proprio la medesima legge o un'altra legge - a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa alla trasgressione dei quali deve seguire la pena» e quando, inoltre, la sufficiente specificità della norma presupposta sia sindacabile, insieme alla corrispondenza del provvedimento alle prescrizioni della norma stessa, da parte del giudice penale (in generale, sul problema della costituzionalità di altre norme pure denunciate quali norme penali in bianco si leggano C. Cost. 14.6.1990, n. 282; C. Cost. 26.11.1964, n. 96; C. Cost. 19.5.1964, n. 36). Con la medesima sentenza la Corte costituzionale ha affermato la compatibilità della norma in esame con la Costituzione anche sotto altri profili: l'art. 650 non viola l'art. 3 Cost. nel comminare la medesima sanzione per l'inosservanza di provvedimenti il cui contenuto può essere il più vario, perché il bene tutelato rimane sempre lo stesso e perché in tutti casi uguale è la condotta punita, vale a dire il rifiuto di ottemperare ad un provvedimento legittimo; né viola gli artt. 2, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21 e 23 Cost. (quelli che sanciscono i diritti inviolabili dell'uomo) nella tutela accordata ai provvedimenti emessi per ragioni "d'ordine pubblico", poiché anche i diritti primari e fondamentali devono essere contemperati con le esigenze di una tollerabile convivenza, rappresentate appunto dal concetto di ordine pubblico e, inoltre, il sindacato del giudice penale sulla legalità del provvedimento e sull'essere esso stato dato per una delle ragioni previste dall'art. 650 garantisce da possibili arbitri da parte dell'autorità.

[3]In giurisprudenza la medesima tendenza si manifesta nell'esclusione della configurabilità della contravvenzione nei casi di inosservanza a provvedimenti che, pur riconducibili ad una delle ragioni previste dall'art. 650, siano diretti a dirimere private controversie (C., Sez. I, 6.6.1995) o siano comunque emessi per ragioni che concernono non la collettività, bensì privati individui. Ugualmente, si esclude che siano compresi nella previsione dell'art. 650 i provvedimenti tipici del giudice - sentenza, ordinanza, decreto - che costituiscono esercizio di attività giurisdizionale e non di polizia.

[4]Non è stata ritenuta valida motivazione la mera indicazione di "ragioni di pubblica sicurezza" (C., Sez. I, 18.3.1993) o di "motivi di giustizia" (C., Sez. I, 16.11.2010), né la generica dicitura "affari che la riguardano", fungibile a qualunque necessità di polizia, anche estranea a quelle tipizzate dalla norma (C., Sez. I, 29.9.1997; C., Sez. I, 16.1.1996; C., Sez. I, 16.12.1995; C., Sez. I, 11.4.1995; contra - in un caso in cui la formula era accompagnata dalla precisazione di comparire insieme ad un avvocato - C., Sez. I, 12.10.1995; meno recentemente, C., Sez. I, 18.3.1986, che ha ritenuto idonea a motivare l'invito di presentazione all'Autorità la dizione "per motivi di polizia giudiziaria"; analogamente C., Sez. IV, 16.10.1964, con riferimento all'ordine di presentarsi per essere sentito "in affari di giustizia"). L'incertezza circa la natura dei lavori da eseguire in base ad un'ordinanza del sindaco troppo generica (ordine di "eliminare l'inconveniente") fa venir meno l'obbligo di eseguirli e il fatto non costituisce reato ai sensi dell'art. 650 (C. 15.10.1957). Neppure costituisce reato l'inosservanza di un provvedimento prefettizio adottato ai sensi dell'art. 2, R.D. 18.6.1931, n. 773, mancante della specificazione delle ragioni di grave necessità e urgenza, poiché tale mancanza concerne la legittimità del provvedimento (C., Sez. III, 9.2.1952). Quanto alle formalità della motivazione, è sufficiente che la causa del provvedimento risulti da non equivoche circostanze che l'accompagnino secondo C., Sez. VI, 1.2.1974; in ogni caso, comunque, essa non può essere desunta in contrasto con il contenuto e con lo spirito del provvedimento (C., Sez. III, 17.4.1951). Una volta soddisfatto il requisito della motivazione, peraltro, costituisce condotta punibile l'inosservanza del contenuto del provvedimento nella sua interezza, comprese le prescrizioni da trarsi dalla motivazione dell'atto medesimo (C., Sez. I, 4.6.1991).

 

[5]Talune recenti pronunce, tuttavia, sembrano manifestare un disagio da parte dei giudici nel condurre in profondità il controllo sull'uso della discrezionalità amministrativa. Così, ad esempio, C., Sez. I, 1.6.2000, secondo cui l'eccesso di potere può essere oggetto di sindacato incidentale da parte del giudice penale solo in quanto esso si traduca in illegittimità sostanziale, il che avviene quando il provvedimento si presenti manifestamente aberrante per assoluto difetto di nesso tra presupposti di fatto e conclusioni e ponga, dunque, in evidenza un abuso del potere discrezionale. Così anche C., Sez. III, 13.1.1999 (pronunciata a proposito di un ordine di demolizione in via d'urgenza adottato dalla competente autorità locale ex art. 38, L. 8.6.1990, n. 142 per salvaguardare l'incolumità pubblica), secondo cui il sindacato del giudice penale non può spingersi sino ad intaccare le scelte discrezionali, adeguatamente motivate, dell'autorità amministrativa sulla ricorrenza delle condizioni di necessità e urgenza legittimanti l'ordinanza. Su tale ultimo punto, la giurisprudenza più risalente - formatasi in relazione alle ordinanze emanate dal prefetto ex art. 2, R.D. 18.6.1931, n. 773 - affermava costantemente la sindacabilità dei presupposti della necessità e dell'urgenza ( C., Sez. II, 27.1.1959; C., Sez. III, 28.6.1958; C., Sez. III, 27.5.1955; C., Sez. III, 28.2.1955), evidenziando la possibilità di rilevare il vizio del provvedimento per eccesso di potere (C., Sez. III, 18.2.1952) o per carenza della motivazione ( C., S.U., 31.3.1951; C., Sez. III, 9.2.1952; C., Sez. III, 3.12.1951).