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Coppia non sposata e non convivente, è famiglia? (Cass. 345/19)

7 gennaio 2019, Cassazione penale

Per esserci "famiglia" di fatto vanno analizzati natura e intensità del vincolo, che, pur non richiedendo  di una stabile convivenza fisica, sussiste quando via sia un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale.

Se è vero che la coabitazione è l’elemento di norma rivelatore, secondo l’id quod plerumque accidit, il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, non può solo essere la condivisione della stessa abitazione il parametro che consente di individuare la convivenza more uxorio al cui ambito è stata estesa la tutela già apprestata dal legislatore penale alla famiglia fondata sul matrimonio.

Non è sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce il presupposto applicativo del reato di maltrattamenti in famiglia in assenza di convivenza.

In tema di valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice.

Corte di Cassazione

sez. III Penale, sentenza 27 novembre 2018 – 7 gennaio 2019, n. 345
Presidente Ramacci – Relatore Galterio

In fatto

1.Con sentenza in data 18.1.2018 della Corte di Appello di Venezia ha integralmente confermato la pronuncia resa dal Tribunale di Vicenza all’esito del primo grado di giudizio in ordine alla penale responsabilità di A.A. per i reati di cui agli artt. 572, 609-bis e 582 e 585 c.p. e art. 576 c.p., n. 5 per i ripetuti maltrattamenti posti in essere nei confronti di R.F. con la quale intratteneva una relazione sentimentale da cui era nata una figlia, per averla costretta a subire un rapporto sessuale puntandole un coltello alla gola e percuotendola con pugni e schiaffi e per averle procurato in tale occasione lesioni personali giudicate guaribili in 30 giorni, reati per i quali era stato condannato alla pena di quattro anni e tre mesi di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, la configurabilità del reato di maltrattamenti in assenza tanto di una convivenza stabile con la donna alla quale era legato solo da un rapporto sentimentale, ma avendo sempre abitato ognuno per proprio conto anche dopo la nascita nel 2015 della bambina che sporadicamente andava a trovare trattenendosi solo in tali circostanze nella di lei abitazione, quanto dell’abitualità della condotta essendosi la p.o. limitata a rendere dichiarazioni vaghe e generiche su minacce, violenze ed offese non collocate temporalmente, né contestualizzate, prive peraltro di riscontri testimoniali, senza che neppure ne venisse valutata l’attendibilità alla luce della sua condizione di tossicodipendente. Contesta altresì la sussistenza del delitto di violenza sessuale in ragione sia dell’anomala dinamica riferita dalla stessa vittima che aveva dichiarato che solo dopo la consumazione del rapporto, da lei stessa assecondato, era stata minacciata dall’imputato con un coltello, sia dell’assenza di riscontri oggettivi non essendo stato prodotto neppure un certificato medico, sia della condotta ambivalente tenuta da costei che aveva prima sporto denuncia nei suoi confronti, poi l’aveva ritirata e poi gli aveva inviato una lettera affettuosa rimpiangendo il passato trascorso insieme.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 609-bis c.p., u.c. e al vizio motivazionale, che essendosi il fatto consumato in costanza di una relazione affettiva, che non essendosi la p.o. opposta in maniera drastica al rapporto sessuale avendo lei stessa ammesso di aver prestato il suo consenso dopo l’opposizione iniziale, che l’azione si era svolta in camera da letto e quindi in un luogo intimo e che le lesioni risultavano successive all’amplesso, sussistevano tutti i presupposti, in considerazione della valutazione globale della vicenda, per l’applicabilità dell’attenuante di minore gravità.
2.3. Con il terzo motivo lamenta l’insussistenza della condizione di procedibilità per il reato di lesioni personali, le quali non erano state poste in essere in occasione della violenza sessuale con la finalità di ottenere un rapporto sessuale, bensì successivamente ad esso quando la donna era già uscita dalla camera da letto, con conseguente inconfigurabilità di un collegamento tra le due condotte.

Considerato in diritto

1.Il primo motivo, che si compendia di una pluralità di doglianze afferenti a tutti e tre i reati ascritti al prevenuto, deve ritenersi fondato nei limiti di seguito indicati.

1.1.Per quanto concerne il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. le censure proposte appaiono, indipendentemente dalla qualificazione giuridica loro conferita dal ricorrente, volte a contestare l’apparato motivazionale della sentenza impugnata.

Esse tuttavia, lungi dal denunciare un errore logico del percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito, si risolvono nella pedissequa riproposizione delle medesime doglianze articolate con i motivi di appello senza confrontarsi con le ragioni puntualmente esposte dalla sentenza impugnata per le quali sono state disattese.

Secondo il consolidato e condivisibile orientamento di questa Corte la mancanza di specificità del motivo nel ricorso per cassazione, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, la quale non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, cade nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità perché diretta a sollecitare una rivalutazione del merito, preclusa in sede di legittimità. (Sez. 4, n.256 del 18.9.1997 - 13.1.1998, Rv. 210157; Sez. 5, n.1193 del 27.1.2005 25.3.2005, Rv. 231708; Sez. 6, n. 34521 del 27 giugno - 8 agosto 2013, Rv. 256133).

Ciò premesso, mentre la ricostruzione dell’accaduto patrocinata dalla difesa in ordine alle connotazioni violente e minacciose della condotta dell’agente è platealmente smentita dalla dinamica ricostruita dalla Corte veneziana, secondo la quale le percosse inflitte alla donna, legata per i polsi e con la minaccia di un coltello nel soggiorno della di lei abitazione risultano essere state precedute da analoghe condotte minacciose, anch’esse poste in essere con un coltello, sia pure più piccolo, e di sopraffazione fisica con cui l’imputato in camera da letto ha costretto la vittima piangente a spogliarsi e a subire un rapporto sessuale, i contaddittori comportamenti tenuti dalla p.o. nel post factum per avere costei dapprima denunciato il compagno, poi ritirato la denuncia ed infine inviatogli una lettera nel tentativo di fargli comprendere le aberranti connotazioni della sua condotta non solo sul piano strettamente fisico, ma altresì su quello affettivo in quanto disvelatrice di un malcelato desiderio di possesso e di dominio incondizionato, sono stati, invece, puntualmente esaminati dai giudici di appello che evidenzia come l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla donna, comunque infatuata dall’imputato e consapevole dei legami derivanti dalla nascita della bambina, abbia determinato il susseguirsi di un turbinio di emozioni, per un verso protese a cercar giustizia nell’obiettivo di affrancarsi da un rapporto umiliante e violento, e dall’altro chine sul passato, nel tentativo di recuperare un rapporto con quello che era il suo compagno e comunque il padre di sua figlia e nel contestuale timore delle sue reazioni stanti le pressioni in tal senso ricevute dall’imputato.

Il vaglio di attendibilità della vittima, condotto con attenta ed approfondita analisi dai giudici di merito, non risulta scalfito dall’ambiguità dei sentimenti provati da costei, riconducibili a quella che risponde ad una dipendenza affettiva quanto mai comune nei rapporti sentimentali, che invece viene ricondotta, nel caso di specie, alla genuinità delle sue dichiarazioni, avvalorata, quanto all’assenza di intenti ritorsivi, dal rifiuto del risarcimento in denaro offertole dall’uomo e dalla scelta processuale di non costituirsi parte civile. Del resto è stato già affermato da questa Corte che in tema di valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015 - dep. 17/07/2015, S, Rv. 264334).

1.2. Con riferimento al reato di maltrattamenti la questione posta all’attenzione di questa Corte impone di valutare se il requisito della stabile coabitazione funga o meno da presupposto necessario alla configurabilità della fattispecie criminosa in presenza di una relazione sentimentale, seppur duratura, tra due persone non legate da vincolo matrimoniale.

Se è vero che la coabitazione è l’elemento di norma rivelatore, secondo l’id quod plerumque accidit, il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, è altrettanto pacifico che non può essere la condivisione della stessa abitazione il parametro che consente di individuare la convivenza more uxorio al cui ambito è stata estesa la tutela già apprestata dal legislatore penale alla famiglia fondata sul matrimonio (emblematico in tal senso è il mutamento della rubrica del reato di cui all’art. 572 c.p. da "maltrattamenti in famiglia" in "maltrattamenti contro familiari e conviventi" apportato dalla novella n.172 del 2012 conseguente alla ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007), risiedendo per contro il nucleo caratterizzante il rapporto familiare di fatto nella natura e nell’intensità del vincolo, che - secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità - ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale (Sez. 6, n. 22915 del 7/5/2013, 1, Rv, 255628; Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013 - dep. 13/12/2013, L., Rv. 258644; Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017 - dep. 22/05/2017, S, Rv. 270673).

Malgrado possa ritenersi rispondente ad un indirizzo consolidato che la mancanza di convivenza, laddove vengano in considerazione condotte di maltrattamento astrattamente sussumibili nel paradigma normativo dell’art. 572 cod. pen. adottate all’interno di un contesto familiare, diventi un dato recessivo al fine di escludere la configurabilità della fattispecie criminosa, va tuttavia rilevato che la predetta affermazione si fonda, stando all’esame degli arresti citati, sulla mancanza di attualità della convivenza presupponendosi che la stessa sia cessata o per il mutato status conseguente al vincolo matrimoniale, ritenendosi che nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi, nonostante la cessazione della convivenza, persistano gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio, o derivante dalla volontaria cessazione della convivenza more uxorio in presenza di prole.

Certamente può condividersi il principio secondo cui, nonostante la mancanza di un dovere di reciproca solidarietà ed assistenza tra gli ex conviventi, l’esistenza di prole all’interno della famiglia di fatto determini, attesa anche l’equiparazione della filiazione naturale a quella legittima suggellata in campo civilistico dalla riforma L. 10 dicembre 2012, n. 219, la permanenza in capo a costoro del complesso degli obblighi di mantenimento, educazione, istruzione ed in generale di assistenza morale verso i figli per il cui adempimento la coppia genitoriale, seppur non più convivente, è chiamata a relazionarsi e a cooperare, discendendo proprio da tale rapporto la permanenza del dovere di reciproco rispetto (in tal senso cfr. Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014 - dep. 31/07/2014, C., Rv. 262078 secondo cui è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione).

Ma se il dato comune che ha portato ad estendere la tutela penale anche ai coniugi separati o ai genitori di prole nata fuori dal matrimonio è comunque costituito dalla preesistenza di un rapporto nascente dal matrimonio o da una convivenza more uxorio, la peculiarità della fattispecie in esame è insita, invece, nella mancanza ab origine di un rapporto di stabile convivenza.

La stessa Corte distrettuale da atto, nel delineare i rapporti tra l’imputato e la vittima, del fatto che ognuno dei due, malgrado la relazione sentimentale tra loro intercorrente da lunga data, vivesse per proprio conto definendo la frequentazione della casa della p.o. da parte dell’uomo, sia pure "costante", ma "saltuaria".

Nella frettolosa risposta resa in tali termini alle censure svolte dalla difesa con i motivi di appello, completata con il richiamo al precedente di questa Corte n. 25498/2017, sopra citata, che invece riguarda il diverso caso di una cessata convivenza more uxorio tra due genitori di un figlio naturale, si annida il vulnus della sentenza impugnata.

Non soltanto nessuna indagine risulta essere stata compiuta in relazione ai rapporti del padre con la bambina nata nel 2015 (ovverosia appena quattro mesi prima del perfezionamento dei reati di violenza sessuale e lesioni di cui al presente procedimento) al fine di verificare se la sua nascita fosse una conseguenza non voluta della relazione piuttosto che l’effetto di un progetto responsabile mirato a generare, allevare ed educare la prole, finalità su cui la condizione di tossicodipendenza dei genitori così come l’essere la minore oggetto di attenzione da parte dei Servizi Sociali solleva il dubbio, ma neppure nessuna disamina viene ivi effettuata in ordine alla natura della relazione intercorrente tra l’imputato e la vittima, volta cioè a verificare se si trattasse di un’unione, ancorché non accompagnata dalla convivenza, comunque caratterizzata dall’affidamento e solidarietà reciproci, o al contrario configurasse un rapporto che, seppur consuetudinario in ragione della durata nel tempo - unico elemento che risulta essere stato accertato -, fosse improntato a precarietà ed estemporaneità.

L’ossimoro utilizzato dalla Corte territoriale che definisce la frequentazione dei due "saltuaria ma costante" non spiega, stante l’intrinseca contraddittorietà tra i due epiteti, se la frequentazione implicasse una ripetitività metodica ed un’assidua cadenza tale da lasciar presumere che l’uno dei due partner contasse sull’assistenza morale e materiale dell’altro malgrado la distanza, o si trattasse invece di incontri saltuari ed intermittenti finalizzati alla condivisione del solo tempo trascorso insieme.

Né a tale laconica motivazione sul punto supplisce la pronuncia di primo grado, da cui si evince soltanto che trattavasi di un rapporto affettivo tra due soggetti dediti entrambi al consumo di sostanze stupefacenti, iniziato 2011, la cui convivenza non era continua vivendo l’A. a Trento e soggiornando nella casa della compagna per periodi variabili, "da qualche giorno a qualche settimana", senza neppure indicare con quale ripetitività, lasciando perciò aperti gli interrogativi oggetto della doglianza svolta con l’atto di appello.

La conclusione raggiunta dai giudici veneziani non resiste alle censure articolate dal ricorrente, ignorando con motivazione apodittica i rilievi formulati su tale capo dalla difesa. Non è infatti sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce in ultima analisi il presupposto applicativo del reato di cui all’art. 572 c.p. in assenza di convivenza.


La sentenza impugnata deve conseguentemente essere annullata su tale punto.

2. Il secondo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.

Mentre l’eccepito consenso della vittima per aver costei assecondato il rapporto sessuale, consenso che peraltro ove sussistente avrebbe escluso alla radice la configurabilità del delitto ex art. 609 bis cod. pen., non risulta supportato, neanche secondo la ricostruzione della difesa, da alcuna evidenza istruttoria, la sentenza impugnata sottolinea, a fondamento del diniego dell’attenuante di minore gravità, la violenza efferata con cui l’imputato, brandendo un coltello e sormontando la donna con la sua forza fisica, l’ha costretta a subire il rapporto sessuale unitamente al grado di coartazione della vittima e all’intensità del dolo che ha caratterizzato la condotta nella sua interezza in cui, noncurante del pianto della compagna, ha perseverato nella manifestazione della sua brama di possesso continuando anche dopo l’amplesso a prenderla a calci, dopo averla legata per i polsi.

Siffatta motivazione, improntata a lineare coerenza ed aderente al compendio istruttorio, si allinea pienamente, con conseguente esclusione dell’eccepito vizio di violazione di legge, all’univoca interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, ai fini della configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità, prevista dall’art. 609-bis c.p., comma 3, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, commisurata ai parametri di cui all’art. 133 c.p., comma 1 tale da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n.23913 del 14/05/2014, Rv. 259196; Sez. 3, n.39445 del 01/07/2014 Rv. 260501; Sez. 3, n.33479 del 5/07/2006, Rv. 234788).

3. Quanto alla procedibilità d’ufficio del reato di lesioni personali nonostante l’avvenuta remissione della querela, le censure articolate dal ricorrente si appuntano esclusivamente sul giudizio valutativo, venendo da costui fornita una diversa lettura dei fatti inammissibile in questa sede, senza che vengano, neppure con riferimento a tale profilo, evidenziate illogicità argomentative che inficino la ricostruzione effettuata dalla Corte di Appello: la sentenza impugnata illustra compiutamente come le condotte violente, ingiuriose, minacciose e lesive dell’incolumità fisica della donna, rispetto alle quali il delitto ex art. 609 bis c.p. ha costituito solo l’epigono dell’incontenibile manifestazione collerica dell’imputato, si sono succedute senza soluzione di continuità, così evidenziando la contestualità sul piano cronologico tra i due reati.

4. Si impone, in conclusione l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla configurabilità del reato di cui al capo a) dell’imputazione con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia che dovrà, attenendosi all’interpretazione dell’art. 572 c.p. sopra specificata, riesaminare il fatto per accertare se la relazione intercorsa tra l’imputato e la p.o., per il carattere di precarietà o stabilità e per le finalità che inducevano i due a frequentarsi, fosse tale da realizzare una famiglia di fatto, dichiarandosi inammissibile il ricorso nel resto

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 527 c.p. e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.