Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Condannato per omessa custodia il proprietario dell'arma usata per un suicidio (Cass. 29849/19)

8 luglio 2019, Cassazione penale

Tag

Il reato di omessa custodia di armi è di mera condotta e di pericolo e si perfeziona per il solo fatto che l’agente non abbia adottato le cautele necessarie, sulla base di circostanze da lui conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, indipendentemente dal fatto che una delle persone indicate dalla norma incriminatrice - minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - sia giunta a impossessarsi dell’arma o delle munizioni"

 

Corte di Cassazione

sez. I Penale, sentenza 7 maggio – 8 luglio 2019, n. 29849

Presidente Tardio – Relatore Fiordalisi

Ritenuto in fatto

1. G.D. ricorre avverso la sentenza del Tribunale di Perugia del 18 giugno 2018 che lo ha condannato alla pena di Euro 300,00 di ammenda, in ordine al reato di omessa custodia di armi, ai sensi della L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 20, perché il (omissis) non aveva assicurato con ogni dovuta diligenza, nell’interesse della sicurezza pubblica, la custodia del fucile semiautomatico, marca Breda, cal. 12, di sua proprietà. In particolare, aveva lasciato l’arma all’interno di una cassapanca priva di alcuna chiusura, insieme a due scatole contenenti munizionamento, posizionata nelle immediate vicinanze della porta d’ingresso della propria abitazione, in (omissis) , in tal modo consentendo a A.L. , compagno della figlia, G.S. , che viveva all’interno della stessa abitazione da circa tre o quattro anni, di entrarne in possesso con estrema facilità e, dopo aver caricato l’arma con le munizioni collocate nella stessa cassapanca, togliersi la vita mediante l’esplosione alla testa di un colpo caricato nell’arma.
1.1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 20, perché il Tribunale avrebbe omesso di considerare che le cautele imposte dalla normativa di riferimento siano poste a tutela e nell’interesse della sicurezza pubblica e non a tutela e nell’interesse dei familiari o dei conviventi con il detentore dell’arma i quali, peraltro, nella loro qualità, potrebbero impossessarsi in ogni istante dell’arma, anche se quest’ultima fosse chiusa a chiave o con lucchetto, forzandone le relative serrature.
Il ricorrente, infatti, evidenzia che A.L. - come evidenziato dallo stesso Tribunale - viveva nello stesso immobile dell’imputato da almeno tre anni e, quindi, era di fatto un familiare dell’imputato e non poteva considerarsi soggetto che frequentava l’abitazione o terzo estraneo. L’imputato aveva posto in essere tutte le cautele del caso: dalla istruttoria dibattimentale era emerso che l’abitazione dell’imputato era costituita da una casa completamente recintata con cancello chiuso; che la cassapanca in cui si trovava l’arma era posta all’interno dell’abitazione; che il portone di casa era chiuso. Non sussisteva, pertanto, il pericolo che terzi soggetti si potessero appropriare dell’arma custodita in casa.
Il reato in oggetto non si perfeziona se l’abitazione nella quale è custodita l’arma è dotata di regolare chiusura delle porte con serrature, non sussistendo per il privato cittadino alcun obbligo, discendente dalla norma appena menzionata, di adottare particolari sistemi ed efficienti misure di difesa contro furti in abitazione.
1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché il Tribunale avrebbe ignorato la testimonianza di G.S. , ritenuta scarsamente verosimile senza fornire alcuna valida giustificazione o convincente argomentazione, e offrendo una propria ricostruzione del fatto non fondata su acquisizioni dibattimentali, ma su mere illazioni e convinzioni personali.
Dalla lettura della deposizione di G.S. , invece, appare provata la circostanza che A.L. , dopo un litigio avvenuto la sera prima dei fatti per cui è causa, si era allontanato dalla casa, e che il fatto era conosciuto dall’imputato, il quale, posto che la mattina successiva sarebbe andato a caccia, aveva posizionato il fucile nella cassapanca, senza sapere che sua figlia aveva ricontattato A.L. nella notte, facendolo rientrare in casa.
2.3. Con il terzo motivo, lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 131 bis c.p., perché dalla lettura della sentenza impugnata non è possibile capire se il Tribunale abbia valutato, anche solo implicitamente, l’eventuale sussistenza dei presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. A tal fine, il ricorrente evidenzia come l’irrogazione della sola pena pecuniaria con concessione delle attenuanti generiche faccia intendere che il medesimo Tribunale aveva considerato in concreto i fatti accertati come particolarmente tenui. Nel caso di specie, pertanto, sussistevano tutti presupposti oggettivi e soggettivi per la dichiarazione di cui all’art. 131 bis c.p..

Considerato in diritto

1. Ritiene la Corte che il ricorso appare manifestamente infondato e, come tale, va dichiarato inammissibile.
2. La L. n. 110 del 1975, art. 20, tutela la sicurezza pubblica, ma costituisce una fattispecie incriminatrice prevista non solo per ostacolare i possibili furti nel luogo ove l’arma è custodita, ma anche per evitare il pericolo che persone che frequentano o si trovano nel luogo di custodia entrino con facilità in possesso dell’arma al di fuori del controllo del suo legittimo detentore.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il generico dovere di diligenza nella custodia delle armi, posto dalla L. n. 110 del 1975, art. 20, comma 1, parte prima, a carico di chiunque detenga legittimamente armi, consiste nel complesso di cautele adottate, nelle specifiche situazioni di fatto, da una persona di normale prudenza, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit. Tale dovere non deve essere confuso con quello, specifico, che impone di adottare efficienti difese antifurto, sancito dalla seconda parte dello stesso comma 1 dell’art. 20, soltanto a particolari categorie di soggetti (rivenditori e collezionisti di armi), né con quello previsto dall’art. 20 bis, diretto ad impedire che armi, munizioni ed esplosivi vengano in possesso di minori, di incapaci, di tossicodipendenti o di persone imperite nel maneggio degli stessi (Sez. 1, n. 1868 del 21/01/2000; Sez. 1, n. 46265 del 06/10/2004; Sez. 1, n. 16609 del 11/02/2013; Sez. 1, 4 novembre 1999, Digrandi; Sez. 1, 19 dicembre 1994, Rossi).

La valutazione relativa all’idoneità delle misure adottate e alla diligenza esplicata è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale è tenuto a dare logica ed adeguata motivazione sul punto (Sez. 1, 1 luglio 1994, Cammariere; Sez. 6, 1 settembre 1992, Argentieri).

Alla luce di tali principi di diritto la dichiarazione di colpevolezza dell’imputato rappresenta il risultato di una corretta interpretazione della norma incriminatrice di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 20, comma 1, nello specifico caso sottoposto al vaglio del giudice, avuto riguardo alle circostanze di fatto evidenziate nella sentenza impugnata (Sez. 1, n. 24271 del 13/05/2004, Cedro, Rv. 228904y; nella specie è stata ritenuta non rilevante la custodia temporanea dell’arma all’interno di un borsone lasciato all’interno dell’auto, parcheggiata temporaneamente, chiusa a chiave, sulla pubblica via).

La L. n. 110 del 1975, art. 20, prevede un reato di pericolo e non ha rilievo, pertanto, la circostanza evidenziata dal ricorrente per la quale il compagno della figlia non sarebbe dovuto rientrare in casa e non avrebbe quindi potuto impossessarsi del fucile con il quale poi si è suicidato, atteso che la norma incriminatrice impone il dovere di adottare particolari cautele nella custodia delle armi, ma non limita l’accesso o la frequentazione della casa da parte di chi vi abita stabilmente o vi accede saltuariamente.

Essa impone di adottare, oggettivamente, ogni tipo di misura idonea ad evitare che qualunque persona, diversa da colui che ha dichiarato la detenzione delle armi o delle munizioni, possa entrarne in possesso indipendentemente dalla sua volontà.

Sul punto, non si può non richiamare la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: "Il reato di omessa custodia di armi (L. n. 110 del 1975, art. 20 bis) è di mera condotta e di pericolo e si perfeziona per il solo fatto che l’agente non abbia adottato le cautele necessarie, sulla base di circostanze da lui conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, indipendentemente dal fatto che una delle persone indicate dalla norma incriminatrice - minori, soggetti incapaci, inesperti o tossicodipendenti - sia giunta a impossessarsi dell’arma o delle munizioni" (Sez. 1, n. 18931 del 10/04/2013, Porcaro, Rv. 256018; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 5, n. 45964 del 30/10/2007, Misuraca, Rv. 238497).

3. Quanto sopra chiarito risulta assorbente anche del secondo motivo di ricorso, atteso che la circostanza relativa al rientro non previsto dall’imputato del compagno della figlia, risulta irrilevante.

4. In ordine al terzo motivo, infine, va precisato che né nel corso delle udienze del 7.5.2018, del 28.5.2018 e del 18.6.2018 - come risulta dai verbali in atti - né con la memoria depositata il 7/05/2018, il difensore dell’imputato aveva sollevato la questione della sussistenza nel caso di specie della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., che pertanto è questione prospettata per la prima volta nel giudizio di legittimità; inoltre, la sua non configurabilità risulta implicitamente apprezzata dal giudice di merito nell’operata descrizione della dinamica della condotta e del tragico evento ad essa collegato, correlato all’importanza del mancato rispetto delle precauzioni dettate dalla norma sulla custodia delle armi al fine di garantire la sicurezza pubblica.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro 3000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende.