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Condanna legittima dicitura documento non valido per l'espatrio (CdS, 3532/15)

14 luglio 2015, Consiglio di Stato

Il principio della libertà di circolazione può essere sacrificato a giudizio discrezionale di un'autorità amministrativa allo scopo di tutelare preventivamente la pubblica sicurezza:  a maggior ragione la deroga si deve ritenere consentita se si presenta come una implicazione naturale - ovvero imposta ope legis - dell'esecuzione di una condanna penale, passata in giudicato, a una pena limitativa della libertà personale.

l diritto della U.E. non impedisce agli Stati membri di porre limitazioni alla libertà di circolazione dei rispettivi cittadini per adeguate ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, e in questa luce si debbono ritenere consentite anche le limitazioni intese a garantire che le condanne penali siano effettivamente eseguite.

Consiglio di Stato
Sezione III
Sentenza 14 luglio 2015, n. 3532
Presidente: Lignani - Estensore: Lignani

FATTO E DIRITTO

1. L'appellante, già ricorrente in primo grado, ha subìto una condanna penale ad un anno di reclusione, con sentenza del Tribunale di Milano in data 26 ottobre 2012, confermata dalla Corte d'Appello l'8 maggio 2013 e ulteriormente confermata e resa definitiva dalla Corte di Cassazione il 1° agosto 2013.

Il 2 agosto 2013 il P.M. competente ha emesso l'ordine di esecuzione della pena e contestualmente ne ha disposta la sospensione ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p., per dar modo all'interessato di presentare una istanza per la concessione di una delle misure alternative alla detenzione.

Lo stesso giorno 2 agosto 2013 la Questura di Roma, luogo di residenza dell'interessato, ha provveduto al ritiro del suo passaporto ed all'apposizione sulla sua carta d'identità della dicitura «documento non valido per l'espatrio». Ciò è stato fatto con l'intento di applicare il disposto della legge n. 1185/1967, art. 3, lettera (d) a norma del quale «non possono ottenere il passaporto (...) coloro che debbano espiare una pena restrittiva della libertà personale o soddisfare una multa o ammenda (...)».

2. Il 28 febbraio 2014, mentre l'esecuzione della pena era ancora sospesa in attesa delle decisioni del Tribunale di Sorveglianza circa la concessione delle misure alternative alla detenzione, l'interessato ha fatto istanza alla Questura di Roma chiedendo che sulla sua carta d'identità l'annotazione «documento non valido per l'espatrio» venisse integrata con la specificazione che tale restrizione della validità del documento opera solo per i Paesi extra-Schengen, ovvero non membri dell'Unione Europea.

La richiesta era argomentata in punto di diritto - e corroborata da allegati pareri legali - con la tesi che nel vigente diritto dell'Unione Europea, in forza dei princìpi di "libertà di circolazione" e di "cittadinanza europea", gli Stati membri non possono porre limiti alla circolazione dei propri cittadini all'interno dell'Unione.

Con atto del 5 marzo 2014, prot. 524918, la Questura di Roma ha comunicato la sua argomentata risposta negativa.

3. L'interessato ha impugnato l'atto della Questura davanti al T.A.R. del Lazio (R.G. 3354/2014) ampiamente sviluppando le tesi giuridiche già esposte nella sua istanza.

Con sentenza n. 8015/2014, pubblicata il 23 luglio 2014, il T.A.R. ha rigettato il ricorso. In sintesi, ha affermato che il diritto della U.E. non impedisce agli Stati membri di porre limitazioni alla libertà di circolazione dei rispettivi cittadini per adeguate ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, e in questa luce si debbono ritenere consentite anche le limitazioni intese a garantire che le condanne penali siano effettivamente eseguite.

4. L'interessato ha proposto appello a questo Consiglio, ulteriormente sviluppando le proprie tesi. Resiste l'Amministrazione dell'Interno con memorie dell'Avvocatura dello Stato.

L'appello (insieme al quale non era stata proposta domanda cautelare) è stato discusso alla udienza odierna; in tale occasione il difensore dell'appellante ha chiarito che sussiste ancora l'interesse alla decisione, benché nel frattempo il divieto di espatrio sia cessato.

L'appello viene pertanto in decisione.

5. La controversia si concentra essenzialmente intorno all'interpretazione della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/38 CE sulla libertà di circolazione dei cittadini dell'Unione.

Vengono in rilievo le seguenti disposizioni:

  • (a) l'art. 4 il quale fra l'altro dispone: «ogni cittadino dell'Unione munito di una carta d'identità o di un passaporto in corso di validità... [ha] il diritto di lasciare il territorio di uno Stato membro per recarsi in un altro Stato membro»;
  • (b) l'art. 5 il quale fra l'altro dispone «gli Stati membri ammettono nel loro territorio il cittadino dell'Unione munito di una carta d'identità o di un passaporto in corso di validità»;
  • (c) l'art. 27 il quale fra l'altro dispone: «1. ... gli Stati membri possono limitare la libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dell'Unione ... per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tali motivi non possono essere invocati per fini economici. - 2. I provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale essi sono applicati. La sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l'adozione di tali provvedimenti. - Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società. Giustificazioni estranee al caso individuale o attinenti a ragioni di prevenzione generale non sono prese in considerazione».

6. Nel caso in esame, la Questura di Roma ha apposto sulla carta d'identità dell'interessato la dicitura «documento non valido per l'espatrio» con la manifesta intenzione di renderla non utilizzabile ai sensi degli artt. 4 e 5 della direttiva n. 38 e così impedire, di fatto, all'interessato di recarsi in qualsiasi altro Paese dell'Unione Europea sino a che durasse l'impedimento.

Che quell'annotazione sulla carta d'identità produca tale effetto non dovrebbe essere controverso, se è vero che l'interessato ha chiesto che venisse rettificata, e, avuto un diniego, si è rivolto alla giustizia amministrativa. Proprio questa impugnativa sottintende che in questo contesto la parola "espatrio" indichi l'uscita dal territorio nazionale italiano verso uno Stato estero, appartenente o meno alla UE (e non l'uscita dalla UE verso uno Stato non membro). Gli ulteriori scritti della difesa dell'appellante sembrano sostenere il contrario, ma queste prospettazioni sono in contraddizione logica con l'impostazione iniziale della controversia.

Peraltro la Corte di cassazione penale, con sentenza del 2 dicembre 2014-14 gennaio 2015, su ricorso dell'attuale appellante relativamente all'incidente di esecuzione da lui sollevato con riferimento alle stesse questioni di cui al presente contenzioso, ha confermato che la legge n. 1185/1967 comporta un divieto assoluto di espatrio intendendosi per tale ogni uscita dallo Stato italiano, anche se in direzione di altro Stato membro della UE.

Forse si potrebbe discutere se e fino a che punto la dicitura «documento non valido per l'espatrio» sia vincolante nei confronti dello Stato estero cui l'interessato si rivolga per accedervi (ed invero, per principio generale ciascuno Stato, ove lo ritenga, è libero di ammettere nel proprio territorio uno straniero anche contro la volontà dello Stato di provenienza), ma si tratta di questione estranea alla materia del contendere nel presente giudizio e comunque non rilevante. Per quanto qui interessa è sufficiente prendere atto che l'annotazione «documento non valido per l'espatrio» è lesiva se non altro perché fa venire meno per gli altri Stati della UE l'obbligo di ammissione derivante dall'art. 5 della direttiva.

7. Ugualmente non pare controverso che l'interessato, in quanto condannato con sentenza definitiva alla pena della reclusione, fosse soggetto al divieto di espatrio previsto dalla legge n. 1185/1967, art. 3, lettera (d), ancorché l'esecuzione della pena fosse temporaneamente sospesa in applicazione dell'art. 656, comma 5, c.p.p. Sull'applicazione del divieto di espatrio in una simile situazione di fatto questa Sezione si è pronunciata con sentenza n. 3348/2012 e lo stesso appellante se ne mostra persuaso, avendo cura di sottolineare che la tesi da lui ora sostenuta è diversa: e cioè che la direttiva n. 38, a suo dire, fa prevalere sul divieto la libertà di circolazione all'interno della UE.

8. Ciò premesso, si passa ora al merito della questione se il principio della libertà di circolazione dei cittadini della UE all'interno della stessa Unione prevalga sul divieto di espatrio di cui alla legge n. 1185/1987 [recte: 1185/1967 - n.d.r.].

Si è visto sopra che l'art. 27 della direttiva n. 38 consente alcune deroghe, prevedendo che uno Stato membro possa limitare la libertà di circolazione di un cittadino della UE «per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica».

Ci si chiede se questa disposizione sia astrattamente riferibile al caso in esame, e, in caso affermativo, se nella fattispecie sussistessero in concreto le condizioni ivi stabilite.

9. Ad avviso del Collegio, l'art. 27 non è pertinente alla fattispecie (anche se non del tutto irrilevante, come si vedrà appresso).

Esso infatti si riferisce alla potestà discrezionale della P.A. di uno Stato membro, di disporre limiti alla libertà di circolazione tra un Paese e l'altro della U.E. con un provvedimento amministrativo ad hoc e ad personam, in funzione preventiva, per ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Quindi nell'art. 27 le prescrizioni limitative della discrezionalità sono chiaramente riferite a questo genere di provvedimenti: è questo il caso delle disposizioni per cui «la sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l'adozione di tali provvedimenti» e «il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società».

Né l'art. 27, né altre disposizioni della direttiva, menzionano le restrizioni alla libertà personale inerenti o preordinate all'esecuzione di una condanna penale passata in giudicato. Ma il fatto che non siano menzionate non può essere interpretato come espressione della volontà di renderle recessive rispetto al principio della libertà di circolazione nella UE.

Vale in proposito il criterio logico dell'"argumentum a fortiori". Se il principio della libertà di circolazione può essere sacrificato a giudizio discrezionale di un'autorità amministrativa allo scopo di tutelare preventivamente la pubblica sicurezza, a maggior ragione la deroga si deve ritenere consentita se si presenta come una implicazione naturale - ovvero imposta ope legis - dell'esecuzione di una condanna penale, passata in giudicato, a una pena limitativa della libertà personale.

Mentre l'art. 27 conferma che il principio della libertà di circolazione non ha un valore assoluto, ed è invece suscettibile di deroghe per giustificate ragioni, le considerazioni ora svolte dimostrano che l'elencazione delle ipotesi di deroga non è esaustiva né tassativa, ma solo esemplificativa.

10. Nel sistema della legge n. 1185/1967, art. 3, lettera (d), il divieto di espatrio - imposto ope legis e non a discrezione dell'autorità amministrativa - è manifestamente preordinato alla esecuzione della condanna penale e specificamente ha lo scopo di garantire che il condannato non sfugga all'esecuzione della pena recandosi in luoghi sottratti alla sovranità dello Stato italiano. L'esigenza di assicurare l'effettività dell'esecuzione della pena riveste per lo Stato un interesse di grado certamente non minore di quello alla generica prevenzione di illeciti con misure rimesse alla discrezionalità di organi amministrativi.

Su questo punto si può richiamare una decisione della Corte Europea dei Diritti Umani, n. 41199/06 del 26 aprile-26 luglio 2011 (M. contro Svizzera).

11. In conclusione, l'appello deve essere respinto.

La singolarità del caso giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) rigetta l'appello. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità degli altri dati identificativi dell'appellante manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.