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Cittadino extracomunitario e MAE esecutivo, attenzione allo ius superveneins (Corte Cost., 60/21)

1 aprile 2021, Corte costituzionale

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“Questioni di legittimità costituzionale sulla disciplina del MAE e jus superveniens: gli atti vanno restituite alla Cassazione remittente.” –

Corte Costituzionale

ordinanza del 1 aprile 2021 – n. 60
 

Sulle sollevate questioni di legittimità costituzionale — dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69  (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno» — incidono le modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021 alle disposizioni della legge n. 69 del 2005 così profondamente da rendere necessaria la restituzione degli atti al giudice a quo perché possa procedere alla rivalutazione della non manifesta infondatezza delle questioni prospettate, tenendo conto delle intervenute novelle normative.

 ORDINANZA

 nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), promosso dalla Corte di cassazione, sezione sesta penale, nel procedimento penale a carico di N. B., con ordinanza del 19 marzo 2020, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 marzo 2021.

 Ritenuto che con ordinanza del 4 febbraio 2020, depositata il 19 marzo 2020 e pervenuta alla cancelleria di questa Corte il 10 luglio 2020, la Corte di cassazione, sezione sesta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno»;

che, secondo il giudice a quo, la disposizione censurata sarebbe di dubbia compatibilità con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’art. 4, paragrafo 6, della Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, nonché con gli artt. 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), all’art. 17, paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (PIDCP), e all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE);

che la Sezione rimettente si trova a giudicare del ricorso promosso dal Procuratore generale della Repubblica di Genova contro una sentenza della locale Corte d’appello, che – decidendo in sede di rinvio dopo un precedente annullamento da parte della Corte di cassazione – aveva rifiutato la consegna di un cittadino albanese richiesta mediante mandato di arresto europeo dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Salonicco (Grecia), sulla base di una sentenza definitiva di condanna all’ergastolo e a una multa di 50.000 euro emessa a carico del medesimo per avere illegalmente detenuto e trasportato, in concorso con altre persone, circa quattro chili di eroina;

che il rifiuto della consegna era stato motivato dalla Corte d’appello territoriale sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, in forza della quale il giudice italiano potrebbe rifiutarsi di eseguire un mandato di arresto emesso a fini di esecuzione di una sentenza definitiva di condanna non soltanto allorché la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ma anche nei confronti di un cittadino di uno Stato terzo che si trovi nelle medesime condizioni, sempre che la corte d’appello disponga che la pena sia eseguita in Italia conformemente al diritto italiano;

che con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Genova aveva disposto l’esecuzione in Italia della pena inflitta dalla Corte d’appello greca nei confronti dell’interessato, rideterminandola in ventitré anni e otto mesi di reclusione e 40.000 euro di multa, previa applicazione dell’indulto per la porzione di tre anni di reclusione e 10.000 euro di multa, unitamente alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante la pena;

che la Sezione rimettente ritiene, tuttavia, non praticabile l’interpretazione costituzionalmente conforme svolta dalla corte territoriale, stante il tenore letterale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, che prevede la possibilità di rifiuto della consegna per i soli cittadini italiani e per i cittadini dell’Unione europea che si trovino nelle condizioni descritte dalla norma, implicitamente escludendo dal rifiuto facoltativo di consegna i cittadini di Stati terzi;

che, pertanto, sulla base dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 il ricorso del Procuratore generale della Repubblica di Genova dovrebbe essere accolto, anche alla luce della costante giurisprudenza della Corte di cassazione che ha sinora sempre escluso la possibilità di rifiutare la consegna di cittadini di Stati terzi pur legittimamente e stabilmente residenti o dimoranti in Italia, e che ha altresì ritenuto manifestamente infondata la relativa eccezione di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost., in ragione della disparità di trattamento tra cittadini dell’Unione europea e cittadini di Stati terzi;

che, tuttavia, la Sezione rimettente dubita della compatibilità dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), con i molteplici parametri costituzionali e sovranazionali sopra menzionati;

che le questioni sarebbero rilevanti, dal momento che il cittadino albanese della cui consegna si controverte sarebbe – secondo l’apprezzamento, congruamente motivato, dei giudici di merito – «residente anagraficamente in Genova dal 4 giugno 2018 per immigrazione registratavi il 14 novembre 2016», e risulterebbe aver ivi stabilito «il centro dei propri interessi lavorativi e familiari, esprimendosi correttamente in lingua italiana e svolgendovi sino al momento del suo arresto una regolare attività lavorativa alle dipendenze di un’impresa»: ciò che consentirebbe di desumere l’esistenza di un suo «radicamento reale e non estemporaneo» sul territorio nazionale;

che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo osserva anzitutto che l’art. 4, paragrafo 6 della decisione quadro 2002/584/GAI, trasposto dalla disposizione censurata, prevede che lo Stato possa, ai fini dell’esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nello Stato di emissione del mandato di arresto, rifiutare la consegna di persona che sia cittadino, ovvero «dimori» o «risieda» nello Stato richiesto, senza distinguere dunque tra l’ipotesi in cui lo straniero dimorante o residente sia cittadino di altro Stato membro o di uno Stato terzo;

che ad avviso del rimettente le nozioni di “residenza” o “dimora” alluderebbero piuttosto – secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia – rispettivamente alla «situazione in cui la persona ricercata abbia stabilito la propria residenza effettiva nello Stato membro di esecuzione e a quella in cui tale persona abbia acquisito, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata in questo medesimo Stato, legami con quest’ultimo di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza»: situazione che potrebbe presentarsi, per l’appunto, tanto nei confronti del cittadino di altro Stato membro, quanto nei confronti del cittadino di Stato terzo;

che pertanto, ad avviso della Sezione rimettente, una volta introdotto il motivo di rifiuto in parola nell’ordinamento interno, lo Stato membro non potrebbe irrazionalmente limitarne «l’applicazione ai soli cittadini e residenti “comunitari”, escludendola tout court per i residenti o dimoranti “non comunitari”, se non a condizione di trasporre solo una porzione del contenuto, generale ed onnicomprensivo della norma euro-unitaria, così eludendo l’obbligo di rispettarne fedelmente i vincoli di adeguamento ai sensi degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.»;

che, sotto un diverso profilo, non sarebbe ravvisabile alcuna ragionevole giustificazione della diversità di trattamento tra il cittadino di Stato terzo del quale sia richiesta la consegna a fini di esecuzione della pena e lo straniero residente nel territorio italiano del quale sia invece richiesta la consegna ai fini di un’azione penale, rispetto al quale l’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 prevede – senza distinguere a seconda che si tratti di cittadino di altro Stato dell’Unione europea o di Stato terzo – che al relativo mandato di arresto possa essere data esecuzione soltanto subordinatamente alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata in Italia per scontarvi la pena o la misura di sicurezza eventualmente pronunciata nei suoi confronti dallo Stato di emissione;

che – rileva il giudice a quo – la giurisprudenza della Corte di cassazione richiede soltanto, ai fini dell’operatività del citato art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, la prova di un soggiorno stabile e di una certa durata dello straniero, idoneo a consentire l’acquisizione di legami con lo Stato pari a quelli che vi si instaurano in caso di residenza;

che la disparità di trattamento tra la situazione del cittadino di Stato terzo rispetto all’esecuzione di mandati di arresto a fini rispettivamente della esecuzione della pena (art. 18-bis, comma 1, lettera c, della legge n. 69 del 2005) e di un’azione penale (art. 19, comma 1, lettera c, della medesima legge) determinerebbe una violazione dell’art. 3 Cost. «per quel che attiene al rispetto dei canoni di ragionevolezza e coerenza sistematica» delle scelte del legislatore;

che la mancata previsione di una causa di rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di Stato terzo da parte dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 pregiudicherebbe altresì la finalità di reinserimento sociale della persona condannata, in violazione – oltre che della ratio dello stesso art. 4, paragrafo 6, della decisione quadro 2002/584/GAI – dell’art. 27, terzo comma, Cost.;

che, infatti, «l’esclusione a priori della possibilità che il residente (o dimorante) cittadino di uno Stato terzo sconti la pena in Italia» non consentirebbe «di perseguirne la “risocializzazione” attraverso la conservazione, per quanto è possibile, dei legami familiari e sociali durante la fase di esecuzione della pena»: finalità, quest’ultima, di cui il diritto dell’Unione si fa carico anche mediante la decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea, che istituisce un sistema per il trasferimento di detenuti condannati nello Stato membro con il quale il condannato mantiene legami, familiari, linguistici, culturali, sociali o economici o di altro tipo, al fine ultimo di agevolarne il reinserimento sociale al termine dell’esecuzione della pena;

che analoghe considerazioni supporterebbero, ad avviso del giudice a quo, il dubbio di compatibilità tra la disposizione censurata e il diritto fondamentale alla vita privata e familiare del condannato, dal momento che la sua consegna allo Stato richiedente rischierebbe di recidere tutti i legami affettivi, sentimentali, di reciproca assistenza e solidarietà scaturenti dalla vicinanza della propria famiglia: con conseguente violazione dell’art. 7 CDFUE (e dunque degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), da leggersi alla luce della giurisprudenza della Corte EDU formatasi in materia di art. 8 CEDU, nonché dell’art. 17 PIDCP, entrambi autonomamente rilevanti nell’ordinamento nazionale per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., oltre che dello stesso art. 2 Cost., che garantisce protezione ad ogni formazione sociale in cui si svolge la personalità umana;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri tramite l’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate;

che le questioni sarebbero, anzitutto, inammissibili per difetto di rilevanza, dal momento che la Corte d’appello di Genova non avrebbe dovuto applicare al condannato l’indulto in mancanza di consenso dello Stato di emissione, che non risulta essere stato richiesto, di talché essa avrebbe dovuto, alternativamente, autorizzare la consegna ovvero disporre l’integrale esecuzione della pena, salvo quanto stabilito dall’art. 10, comma 5, del decreto legislativo 7 settembre 2010, n. 161 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea), non risultando peraltro nel caso di specie neppure la verifica del consenso del Ministro della giustizia italiano all’esecuzione della sentenza in Italia, necessario ai sensi dell’art. 10, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 161 del 2010;

che le questioni sarebbero comunque infondate nel merito, dal momento che i motivi di rifiuto di consegna stabiliti dalla decisione quadro 2002/584/GAI e trasposti nell’ordinamento degli Stati membri dovrebbero essere considerati come altrettante eccezioni all’operatività del principio del mutuo riconoscimento, ed essere perciò oggetto di una interpretazione restrittiva, risultando in particolare precluso agli Stati membri estendere le ipotesi di legittimo rifiuto all’esecuzione del mandato di arresto europeo rispetto a quelle previste dalla menzionata decisione quadro, che ad avviso dell’Avvocatura generale imporrebbe esclusivamente – alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia – l’equiparazione della posizione del cittadino dello Stato richiesto a quella dei cittadini di altri Stati membri che abbiano effettivamente e legittimamente residenza o dimora nello Stato richiesto;

che neppure sussisterebbe il denunciato vulnus all’art. 27, terzo comma, Cost., dal momento che il principio di rieducazione e risocializzazione della pena sarebbe attuato in qualunque ordinamento dell’Unione europea, non essendovi peraltro alcuna garanzia che lo straniero, una volta scontata la pena, possa effettivamente permanere in Italia;

che nemmeno sussisterebbe alcuna irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata dall’art. 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, «dal momento che gli effetti cui mira il mandato di arresto europeo esecutivo e quelli ai quali è finalizzato il mandato di arresto processuale sono diversi, essendo quest’ultimo volto a ridurre, negli Stati membri, la celebrazione di procedimenti in absentia, rispetto ai quali, nel caso di condanna, per l’esecuzione della pena irrogata era già prevista, sin dal sistema delle estradizioni, il rifiuto della richiesta di consegna della persona»;

che, con decreto presidenziale del 4 febbraio 2021, la camera di consiglio per la decisione della presente causa, originariamente fissata per il 10 febbraio 2021, è stata rinviata al 10 marzo 2021, in considerazione dell’avvenuta promulgazione, medio tempore, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 5 febbraio 2021, il cui art. 15 ha modificato la disposizione censurata, e il cui art. 17 ha altresì modificato l’art. 19 della legge n. 69 del 2005, invocato quale tertium comparationis dal giudice rimettente nella questione formulata con riferimento all’art. 3 Cost.;

che il 18 febbraio 2021 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una nota in pari data del Ministero della giustizia, contenente osservazioni sulle modifiche recate dal d.lgs. n. 10 del 2021 alla disciplina di cui è causa;

che in tali osservazioni il Ministero della giustizia rileva che le modifiche apportate da un lato confermano – all’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, come riformulato – la non opponibilità della causa di rifiuto prevista dalla disposizione censurata con riferimento al cittadino di uno Stato terzo, e dall’altro escludono – all’art. 19 della medesima legge n. 69 del 2005, come riformulato – che l’autorità giudiziaria italiana possa ora rifiutare la consegna del cittadino di uno Stato terzo ai fini di un’azione penale, essendosi così eliminata la discrasia tra le due discipline lamentata dal rimettente.

Considerato che le menzionate disposizioni del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117) hanno modificato sia la disposizione censurata, sia la disposizione invocata dal giudice a quo quale tertium comparationis nella questione formulata con riferimento all’art. 3 della Costituzione;

che il nuovo testo dell’art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri) prevede ora, al comma 2, che «[q]uando il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, la corte di appello può rifiutare la consegna della persona ricercata che sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni, sempre che disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno»;

che, pertanto, la nuova formulazione della disposizione censurata – collocata ora in un autonomo secondo comma dell’art. 18-bis – restringe l’ambito di applicazione del motivo di rifiuto da essa disciplinato alle sole ipotesi del cittadino italiano e del cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante in Italia da almeno cinque anni, confermando così implicitamente l’esclusione del cittadino di Stato terzo già desumibile dalla precedente formulazione oggetto delle censure del giudice a quo;

che il nuovo testo dell’art. 19 della legge n. 69 del 2005, come modificato dal d.lgs. n. 10 del 2021, prevede ora alla lettera b) che «se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini di un’azione penale nei confronti di cittadino italiano o di cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni, l’esecuzione del mandato è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata sottoposta al processo, sia rinviata nello Stato italiano per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente applicate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione»;

che, dunque, il novellato art. 19 prevede che la consegna ai fini di un’azione penale è subordinata alla condizione del rinvio in Italia della persona richiesta per l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza soltanto nei confronti del cittadino italiano e del cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni, e non più – come avveniva nel vigore della precedente formulazione dello stesso art. 19 – nei confronti di qualsiasi persona avente cittadinanza italiana o residente in Italia;

che – per quanto l’art. 28 del d.lgs. n. 10 del 2021 disponga la perdurante applicazione della previgente disciplina quando la corte d’appello abbia già ricevuto il mandato d’arresto europeo o la persona richiesta sia già stata arrestata – le modifiche apportate dallo stesso d.lgs. n. 10 del 2021 alle disposizioni della legge n. 69 del 2005 incidono così profondamente sull’ordito logico che sta alla base delle censure prospettate da rendere necessaria la restituzione degli atti al giudice a quo perché possa procedere alla rivalutazione della non manifesta infondatezza delle questioni prospettate, tenendo conto delle intervenute modifiche normative.

 Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 ordina la restituzione degli atti al giudice rimettente.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 marzo 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 1° aprile 2021.