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Cittadinanza, serve la riabilitazione (Tar Brescia, 1731/10)

14 maggio 2010, Tar Brescia

La estinzione di "ogni effetto penale" ex. art. 445/2 c.p.p. non equivale alla riabilitazione e quindi non rimuove la causa ostativa alla concessione della cittadinanza.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 14/05/2010, n. 1731

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 665 del 2007, proposto da:

M.R.,

rappresentata e difesa dagli avv. Federica Turano, Francesca Borsadoli,

con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Francesca Borsadoli in Brescia, via Volturno, 68;

contro

MINISTERO DELL'INTERNO,

rappresentato e difeso dall'Avvocatura,

domiciliata per legge in Brescia, via S. Caterina, 6 (Fax=030/41267);

per l'annullamento

previa sospensione dell'efficacia,

del decreto del ministero dell'Interno in data 18/12/2006, di rigetto dell'istanza presentata dalla ricorrente per il riconoscimento della cittadinanza italiana.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 aprile 2010 il dott. Carmine Russo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo

L'odierna ricorrente impugna il provvedimento del 18. 12. 2006 con cui il Ministero degli Interni ha respinto la sua richiesta di diventare cittadina italiana.

L'amministrazione aveva motivato la decisione impugnata rilevando che la richiedente era gravata da una condanna risalente al 1997 per furto aggravato, reato punito con pena superiore nel massimo a 3 anni di reclusione, che costituisce causa preclusiva all'ottenimento della cittadinanza ex art. 6, co. 1, lett. b) l. 91/92

Il ricorso è sostenuto da un unico motivo: il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dell'art. 460, co. 2 c.p.p. , che prevede l'estinzione del reato per effetto del decorso di 5 anni dalla pronuncia del decreto penale se il condannato non commette altri reati, istituto che - a giudizio della ricorrente - deve essere assimilato alla riabilitazione (la l. 91/92 stabilisce, infatti, che la riabilitazione fa cessare la causa preclusiva all'acquisto della cittadinanza costituita dalla previa condanna penale).

Si costituiva in giudizio l'Avvocatura dello Stato, che deduceva l'infondatezza dei motivi di ricorso ed allegava nota di deposito documenti.

Nel ricorso era formulata altresì istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato.

Con ordinanza del 30. 8. 2007, n. 98 il Tribunale rilevava che l'estinzione ex 460 c.p.p. non produce gli stessi effetti della riabilitazione e non accoglieva l'istanza ma disponeva il deposito di relazione a cura dell'amministrazione degli Interni.

Con memoria 10. 3. 2010 la ricorrente depositava provvedimento di riabilitazione del 16. 2. 2010.

Il ricorso veniva discusso nella pubblica udienza del 28. 4. 2010, all'esito della quale veniva trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

I. Il punto di partenza deve essere la norma attributiva del potere esercitato dall'amministrazione nel caso concreto, norma che è costituita dal combinato disposto degli artt. 5 e 6 L. 91/92.

La ricorrente R.M. ha, infatti, chiesto la cittadinanza italiana ex art. 5 L. 91/92, norma che dispone che "il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando risiede legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili e se non sussiste separazione legale".

L' art. 6 L. 91/92 aggiunge che "precludono l'acquisto della cittadinanza ai sensi dell'articolo 5: a) la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale; b) la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione, ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia; c) la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica".

Secondo l'amministrazione la ricorrente si trova, in particolare, nel caso di cui alla lett. b) perché condannata per furto aggravato con decreto penale di condanna del 19. 11. 1997 del Tribunale di Brescia.

Il co. 3 della stessa norma prevede che "la riabilitazione fa cessare gli effetti preclusivi della condanna".

L'oggetto di questo processo attiene tutto intorno all'interpretazione della previsione di questo terzo comma dell' art. 6 L. 91/92 che attribuisce alla riabilitazione la possibilità di far cessare gli effetti preclusivi della condanna.

La ricorrente non era in possesso del provvedimento di riabilitazione quando ha fatto domanda nell'anno 2005, ma vorrebbe interpretare estensivamente la norma del co. 3 appena citato e considerare equivalente alla riabilitazione anche la estintiva automatica del reato ex art. 460 c.p.p. per i fatti giudicati attraverso decreto penale decorso un quinquennio dallo stesso.

Nell'ordinanza cautelare con cui rigettava l'istanza di sospensiva del provvedimento impugnato il Tribunale ha già affermato che, ad una prima prospettazione, l'estinzione ex art. 460 c.p.p. non è equiparabile alla riabilitazione.

Questo orientamento deve essere confermato in sentenza.

Nell'ordinamento vigente il sistema dell'estinzione del reato e della pena post patratum crimen si è arricchito con il passare degli anni di istituti casuali, sempre più scollegati dall'impianto originario del codice penale del 1930, che era fondato su istituti che cancellavano la pena principale e le pene accessorie (amnistia), altri che estinguevano la sola pena principale (indulto e grazia) ed un unico istituto che aveva l'effetto di più radicale di estinguere sia le pene accessorie che ogni effetto penale (la riabilitazione, per l'appunto).

Già con l'approvazione dell'ordinamento penitenziario, l. 354/75 , venne introdotta un peculiare modo di scontare la pena detentiva attraverso l'affidamento in prova al servizio sociale (in definitiva, si sconta la pena detentiva restando liberi con l'obbligo di colloqui periodici con assistenti sociali che, se danno esito favorevole, equivalgono a tutti gli effetti a pena scontata), il cui esito positivo comporta estinzione non solo della pena, ma di ogni effetto penale, ma non delle pene accessorie e delle obbligazioni civili derivanti da reato.

Con l'entrata in vigore del nuovo c.p.p. il legislatore ha aggiunto, poi, per finalità incentivanti della scelta di un rito alternativo, una causa di estinzione del reato, decorsi cinque anni dal momento dell'emissione della sentenza di condanna per coloro che hanno accettato di essere giudicati attraverso patteggiamento. Con la L. 479/99 , sempre a fini incentivanti, ha esteso lo stesso istituto anche al decreto penale di condanna.

In questo modo il legislatore ha progressivamente alterato il disegno sistematico del codificatore del 1930 introducendo delle cause di estinzione del reato o della pena, e dei relativi effetti penali, che trovano posto con difficoltà nel sistema, e su cui la giurisprudenza è più volte tornata per cercare di definirne il rapporto con il disegno organico del codice delle cause di estinzione della pena e degli effetti penali.

Alle limitate finalità di questo giudizio, tutto ciò che occorre decidere è se la causa speciale di estinzione ex art. 460 c.p.p. sia assimilabile alla riabilitazione, che è l'unico provvedimento menzionato dalla L. 91/92 come circostanza che consente di attribuire la cittadinanza anche allo straniero che abbia riportato condanne penali.

In realtà, esaminando i presupposti di ciascuno di questi due provvedimenti (estinzione automatica ex art. 460 c.p.p. e riabilitazione), la decorrenza degli stessi, la competenza ad emettere i relativi provvedimenti e la natura di tali provvedimenti, si deve concludere nel senso che l'estinzione collegata alla scelta di un rito premiale e la riabilitazione non sono in alcun modo assimilabili.

Sono diversi, infatti, anzitutto i presupposti necessari per emettere un provvedimento di estinzione ex art. 460 c.p.p. ed un provvedimento di riabilitazione ex art. 178 c.p. : per il primo è sufficiente che il condannato nei cinque anni successivi alla condanna non commetta altri reati della stessa indole; per la riabilitazione occorre che la pena principale sia stata scontata o si sia estinta, che il condannato abbia dato prove "effettive e costanti" di buona condotta, che siano stati adempite le obbligazioni civili derivanti dal reato (ad es., in un furto, la restituzione della res o il risarcimento del danno).

E' diverso anche il termine a partire dal quale possono essere rispettivamente emessi un provvedimento di estinzione ex art. 460 c.p.p. ed un provvedimento di riabilitazione ex art. 178 c.p. : nel primo caso è sufficiente che siano passati cinque anni dal momento della pronuncia di condanna, nel secondo occorre che siano decorsi tre anni dal momento in cui il condannato ha terminato di scontare la pena.

Tutto depone nel senso che la concessione della riabilitazione preveda un accertamento molto più incisivo della effettiva rieducazione e del reinserimento sociale del condannato, che nell'estinzione ex art. 460 c.p.p. manca del tutto. Non è d'altronde un caso se la competenza ad emettere il provvedimento di riabilitazione appartiene al Tribunale di sorveglianza, che ha la finalità precipua di seguire il condannato lungo tutto il percorso della esecuzione della pena e che è integrato anche nella sua composizione da assistenti sociali o altri esperti della materia, laddove l'estinzione ex art. 460 c.p.p. è pronunciata dal giudice dell'esecuzione, che è lo stesso giudice che ha emesso la sentenza di condanna. Né è un caso che il provvedimento di riabilitazione abbia natura costitutiva (proprio perché contiene delle valutazioni discrezionali in ordine all'effettivo reinserimento sociale del condannato), laddove quello ex art. 460 c.p.p. ha natura eminentemente dichiarativa.

In definitiva, il provvedimento di riabilitazione ex art. 178 c.p. contiene un quid pluris (ed anzi, un quid particolarmente consistente) rispetto al provvedimento di estinzione emesso ex art. 460 c.p.p. , che ad esso non può essere assimilato, ed, infatti, proprio per questo, la Suprema Corte di Cassazione ritiene che sia "configurabile l'interesse ad ottenere la riabilitazione in relazione a pena oggetto di patteggiamento, anche se applicata per reato del quale sia stata dichiarata l'estinzione a norma dell'art. 445, comma secondo, cod. proc. pen.. (Cass. pen., I, 28. 7. 2009, n. 31089; la fattispecie è relativa ad una caso di estinzione ex art. 445 c.p.p. per patteggiamento, ma il caso è del tutto analogo a quello dell'estinzione ex art. 460 c.p.p. in tema di decreto penale).

II. Pur non essendo dedotto in giudizio, va affrontato d'ufficio a questo punto un'ulteriore questione. Con memoria 10. 3. 2010 la ricorrente depositava, infatti, provvedimento di riabilitazione ottenuto poco meno di un mese prima dell'udienza di merito, e segnatamente il 16. 2. 2010.

L'avvenuto rilascio del provvedimento di riabilitazione nelle more del giudizio non consente, però, di accogliere il ricorso.

La ricorrente ha, infatti, esperito un'azione costitutiva di annullamento del provvedimento impugnato, cioè un giudizio sull'atto, di cui contestava la legittimità in base ad argomenti che, come si è spiegato sopra, non sono stati condivisi da questo Tribunale.

L'avvenuto rilascio successivo del provvedimento di riabilitazione non è sufficiente - in mancanza di motivi aggiunti in cui sia modificato il petitum - per trasformare il ricorso presentato dalla ricorrente in un giudizio sul rapporto, cioè in un giudizio sull'esistenza dei presupposti soggettivi per poter essere ammessi alla cittadinanza (e ciò, tralasciando per un attimo i dubbi che pure potrebbero sorgere sull'ammissibilità di un giudizio sul rapporto in sede di giurisdizione generale di legittimità, che infatti la ricorrente si è guardata bene dal presentare).

In ogni caso, quand'anche si trasformasse il processo incardinato dalla ricorrente in un giudizio sull'esistenza dei presupposti sostanziali per poter ottenere la concessione della cittadinanza, questo giudizio non potrebbe che essere ancorato all'esame dell'esistenza di tali presupposti nel momento in cui è stata presentata la domanda giudiziale, in quanto le eventuali sopravvenienze potrebbero essere introdotte giudizialmente solo con una nuova domanda presentata con motivi aggiunti. I presupposti sostanziali dell'azione devono essere, infatti, posseduti dal ricorrente prima di presentare il ricorso, non possono essere acquisiti in corso d'opera neanche in una logica di giudizio sul rapporto, che è un giudizio che prescinde dalla coerenza logico formale dell'atto per agganciarsi direttamente alla situazione sostanziale sottostante il provvedimento impugnato, ma non prescinde affatto dal possesso dei presupposti dell'azione da parte del ricorrente.

Se così d'altronde non fosse (se cioè si consentisse di poter acquisire in corso d'opera presupposti sostanziali dell'azione di cui si era sforniti al momento di presentare il ricorso) il giudice finirebbe con il dover dare ragione ad un soggetto che - nel momento in cui ha presentato il ricorso - aveva pacificamente torto, così snaturando la funzione giurisdizionale che non è quella di acquisire nel corso dell'istruttoria processuale gli elementi mancanti e giudicare a quel punto sulla situazione venutasi a creare al momento della decisione (come tendenzialmente fa l'amministrazione), ma di decidere in diritto se la domanda presentata dal ricorrente un certo giorno era corretta (domanda che sarà costitutiva in un giudizio sull'atto, e sarà di accertamento in un giudizio sul rapporto, unica reale differenza tra i due tipi di giudizi).

In definitiva, si deve concludere nel senso che nel momento in cui si tenta di dare un significato processuale al provvedimento di riabilitazione ottenuto dall'interessata un mese prima dell'udienza di merito, non si può attribuire ad esso alcuna rilevanza in questo giudizio.

L'interessata, che aveva presentato la domanda di cittadinanza con quasi 5 anni di anticipo rispetto al momento in cui ha ottenuto la riabilitazione, ha adesso rimosso la causa ostativa e dovrà ripresentare domanda per diventare cittadina italiana, che potrebbe a questo punto anche esserle concessa, naturalmente se non non sono nel frattempo intervenute altre circostanze ostative.

III. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sez. staccata di Brescia, I sezione interna, così definitivamente pronunciando:

Respinge il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore dell'amministrazioen resistente delle spese di lite, che determina in euro 1.000, oltre i.v.a. e c.p.a..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 28 aprile 2010 con l'intervento dei Magistrati:

Giuseppe Petruzzelli, Presidente

Sergio Conti, Consigliere

Carmine Russo, Referendario, Estensore