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Capo scoperto nelle strutture pubbliche: non c'è discriminazione (CA Milano, 4330/19)

28 ottobre 2019, Corte di Appello di Milano

Non ha carattere discriminatorio il provvedimento che - vietando l'accesso a strutture pubbliche a persone con il capo coperto se risulta difficoltoso il riconoscimento della persona - limita l'uso di copricapo espressione di tradizioni e i costumi religiosi.

 

Corte d’Appello di Milano

sez. Persone, Minori e Famiglia, sentenza 24 maggio – 28 ottobre 2019, n. 4330
Presidente Baccolini – Estensore Domanico

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Con ricorso del 26.5.2017 ai sensi dell’art. 28 D.Lgs. 150/11 e 44 D.Lgs. 286/98 l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’APN – Avvocati Per Niente ONLUS, il NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri, Rom e Sinti e la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’uomo Onlus proponevano azione civile contro la discriminazione nei confronti della Regione Lombardia chiedendo al Tribunale di Milano di

“a) accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Regione Lombardia consistente nell’aver emanato la deliberazione di Giunta n. X/4553 del 10.12.2015 nonché nell'aver disposto che le competenti strutture regionali ex art. 8 RR n. 6/2002 adottassero atti dirigenziali attuativi della predetta deliberazione e in particolare nell’aver indicato forma e contenuti del cartello da apporre nelle singole strutture qui prodotto sub doc. 3; e conseguentemente:

b) ordinare alla Regione Lombardia, in persona del presidente pro tempore, di revocare immediatamente la deliberazione di cui sopra nonché di impartire disposizioni agli enti regionali che hanno affisso i cartelli di cui sopra affinché ne dispongano la immediata rimozione;

c) ordinare la pubblicazione integrale dell’emanando provvedimento sulla Home page del sito della Regione Lombardia nonché per estratto a cura e spese della Regione Lombardia su un quotidiano nazionale, in formato che ne consenta una adeguata visibilità;

d) disporre un piano di rimozione della discriminazione ex art. 28 D.Lgs. 150/2011 comma 5 che comprenda ogni provvedimento ritenuto utile ad evitare il reiterarsi della discriminazione; e) condannare la Regione Lombardia al pagamento delle spese e compensi del presente procedimento, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari, ivi compreso il contributo unificato”.


A sostegno del ricorso le predette associazioni ricorrenti deducevano in sintesi quanto segue:
- in data 10.12.2015 la Giunta Regionale Lombarda aveva approvato la deliberazione n. X/4553 avente ad oggetto il “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale”;
- nella deliberazione, richiamati in premessa i gravi episodi di terrorismo verificatisi a Parigi il 13.11.2015 e la conseguente esigenza di rafforzare le misure di sicurezza, ha evidenziato che “le tradizioni e i costumi religiosi …non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione ai sensi dell’art. 5 della legge 152/1975 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionali”;
- a tal fine la Giunta ha adottato misure idonee al “rafforzamento del sistema di controllo, di identificazione e della sicurezza” vietando “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l.r. 30/2006, tra i quali anche le Aziende Ospedaliere, le ASST ed enti pubblici quali l’Aler;
- la delibera aveva demandato alle competenti strutture regionali l’adozione degli atti dirigenziali necessari a dare attuazione a quanto previsto;
- nel gennaio 2016 all’ingresso di numerosi uffici pubblici ed ospedali della regione Lombardia erano stati affissi dei cartelli riportanti la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnato da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuno all’interno di un cerchio rosso sbarrato, messaggio tradotto anche in inglese, francese e arabo;
- l’azione proposta non riguarda l’atto amministrativo ma il diritto di gruppi sociali qualificati per l’appartenenza a determinate etnie o religioni a non essere trattati in modo meno favorevole e, quindi discriminati. In particolare si evidenzia quanto segue:

a) la regione Lombardia aveva posto a fondamento della deliberazione solo esigenze di pubblica sicurezza, peraltro riservate alle competenza esclusiva dello Stato; la delibera è pertanto illegittima non avendo la Regione competenza in materia;
b) il richiamato art. 85 del R.D. 773/1931 prevede che “è vietato comparire mascherato in luogo pubblico” e pertanto questa norma non può essere posta a fondamento del divieto di indossare caschi protettivi e men che meno copricapo religiosi;
c) l’art. 5 della l. 152/1975 (c.d. legge Reale) vieta l’uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, prevedendo espressamente la clausola generale dell’esistenza di un giustificato motivo;
d) la delibera regionale, contrariamente a quanto stabilito dal legislatore del 1975, aveva escluso che le tradizioni e i costumi religiosi potessero costituire giustificati motivi;
e) il provvedimento adottato dalla regione non rispetta il principio di proporzionalità;
f) sebbene non espressamente evocato, la delibera è principalmente rivolta a vietare l’uso di copricapi dottato da motivi religiosi, come il burqa e il niqab;
g) la misura adottata non rispetta i limiti di cui all’art. 9 della CEDU;
h) la delibera regionale realizzava anche una discriminazione diretta per ragioni etniche, atteso che la religione era una parte integrante dell’etnia e che il burqa e il niqab sono diffusi prevalentemente in aree geografiche ove vivevano popolazioni appartenenti ad etnie diverse da quelle Europee.

2. La Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore Roberto Maroni, rappresentata dall’Avvocatura regionale, si costituiva in giudizio e preliminarmente eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo nonché la carenza di legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti.

Nel merito deduceva:
a) che nella delibera regionale non erano state poste in essere restrizioni ulteriori rispetto a quelle previste dalla legislazione nazionale, mentre erano stati esplicitati e resi operativi i divieti, già imposti a livello nazionale, nelle singole strutture di interesse;
b) che per rafforzare le misure di sicurezza e garantire l’incolumità dei cittadini era stato previsto che in determinati luoghi fosse necessario sottoporsi alla identificazione e non presentarsi a volto coperto;
c) che lo stesso art. 9 CEDU richiamato da controparte prevede restrizioni della libertà religiosa in ragione della necessità di garantire la sicurezza pubblica;
d) che non vi era alcuna discriminazione per motivi religiosi, atteso che tutte le persone che accedevano agli uffici e alle strutture indicate nella delibera dovevano essere identificate;
e) che nessun atto applicativo delle strutture regionali aveva previsto l’adozione dei cartelli contestati.

3. Il Tribunale di Milano, prima sezione civile, con provvedimento del 20.4.2017, rigettava il ricorso e condannava l’ASGI , l’ANP, La Fondazione Guido Piccini e il NAGA al pagamento delle spese di lite in favore della Regione Lombardia liquidate in complessivi Euro 2430,00 oltre 15% spese generali, IVA e CPA.
Respinte le eccezioni di carenza di giurisdizione del giudice ordinario nonché di carenza di legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti ed evidenziato che le associazioni ricorrenti deducevano la sussistenza di una discriminazione diretta nella delibera della Regione Lombardia n. X/4553, approvata il 10.12.2015, e nei cartelli apposti dal gennaio 2016 in numerosi uffici e ospedali della regione, il Tribunale esponeva i seguenti motivi a fondamento del rigetto della domanda:
a) sulla base delle esigenze di ordine pubblico specificate in premessa, la Giunta, in attuazione dell’art. 85 del R.D. 773/1931 e dell’art. 5 della L. 152/1975 e del regolamento regionale 8.8.2002 n. 6, ha disposto “l’adozione di misure idonee al rafforzamento del sistema di controllo, di identificazione e di sicurezza” che vieta “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l. r. 30/2006;
b) occorre pertanto valutare se, dalla disposizione che vieta l’uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona - quindi un divieto che riguarda tutti coloro che entrano in luoghi pubblici rendendo difficoltoso il proprio riconoscimento - emerga un trattamento meno favorevole di un gruppo sociale qualificato per l’appartenenza a un determinato credo religioso;
c) la scelta di indossare il velo (nelle diverse forme dello stesso) rientra nell’ambito della manifestazione del credo religioso e costituisce, altresì, un comportamento che attiene alla vita privata della persona e, quindi meritevole di tutela ex art. 8 CEDU;
d) la delibera in esame della Giunta regionale ha previsto esclusivamente l’adozione di misure idonee a rafforzare i sistemi di controllo, identificazione e sicurezza in determinati luoghi pubblici cosicché, mentre è inconferente il richiamo all’art. 85 del R.D. 77371931, pertinente è il richiamo all’art. 5 legge 153/75;
e) la delibera tratta in modo identico tutti coloro che accedono a determinati uffici pubblici imponendo loro, in modo generale e indiscriminato, di accedere in detti luoghi con il capo scoperto, allo scopo di tutelare esigenze di pubblica sicurezza. Occorre poi verificare se il predetto obbligo, apparentemente neutro, comporti di fatto un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione. Una volta verificato tale elemento, occorre poi verificare se tale svantaggio sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima e se i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.
f) Si ritiene che il divieto di accesso a viso coperto presso uffici ed enti pubblici comporta, di fatto, uno svantaggio per le donne che, per ragioni di tradizione e per professare il proprio credo religioso, indossano il velo, prevalentemente nelle forme del burqa (velo che copre interamente il volto della donna, con una griglia all’altezza degli occhi) e del niqab (velo che copre tutto il volto, lasciano scoperti solo gli occhi). Peraltro tale svantaggio appare oggettivamente giustificato da una finalità legittima, costituita dalla necessità di garantire l’identificazione ed il controllo al fine di pubblica sicurezza. Il divieto di ingresso a volto coperto posto nella delibera appare giustificato e ragionevole alla luce della esigenza di identificare coloro che accedono nelle strutture indicate, poiché si tratta di luoghi pubblici, con elevato numero di persone che quotidianamente vi accedono per richiedere di usufruire di servizi; pertanto è del tutto ragionevole e giustificato consentire la possibilità di identificare i predetti fruitori di servizi.
g) Le misure indicate dalla regione sono oltretutto generiche, con un rinvio alle competenti strutture regionali per l’adozione degli atti dirigenziali necessari;
h) Il divieto di indossare qualsiasi mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento della persona, e quindi non solo il velo, interessa solo coloro che accedono e permangono all’interno di determinati luoghi pubblici e per il tempo strettamente necessario alla permanenza in detti luoghi; la delibera fa infatti divieto di indossare caschi o “qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”, e ciò a tutela della sicurezza pubblica. La pubblica sicurezza, inoltre, è uno dei limiti che l’art. 9 c. 2 CEDU prevede per l’esercizio dei diritti enunciati negli artt. 8 e 9.
i) L’esigenza di garantire la pubblica sicurezza - come ragione che giustifica, per il tempo necessario e nei luoghi specificamente individuati, il divieto di presentarsi con indosso mezzi che rendono difficoltoso il riconoscimento, e dunque anche con il velo che copre interamente il volto, lasciando scoperti solo gli occhi, è prevista dal legislatore nazionale (art. 5 l. 152/1975) ed attuata, con disposizioni di dettaglio, dalla delibera regionale, nel rispetto quindi della riserva di legge; la delibera inoltre non pone un divieto generalizzato, ma si limita a prevedere che in luoghi pubblici individuati e per il limitato tempo di permanenza in detti luoghi, vengono indossati capi che impediscano l’identificazione delle persone che in detti luoghi hanno accesso.
j) L’individuazione di specifici luoghi pubblici e la previsione di un divieto di accedere con mezzi che impediscano l’identificazione solo per il tempo legato alla permanenza nei detti spazi, costituiscono elementi che consentono di ritenere che il divieto - e dunque il sacrificio dei diritti di cui agli artt. 8 e 9 della Cedu - sia ragionevole e proporzionato rispetto al valore invocato dal legislatore, ovvero la pubblica sicurezza, che risulta concretamente minacciata dalla impossibilità di identificare le numerose persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati.
k) In relazione ai cartelli apposti, con la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con il volto coperto”, con le tre immagini di teste con casco, passamontagna e burqa, ciascuno barrato da una linea, si osserva che sono senza dubbio riconducibili alla delibera oggetto di causa e ne costituiscono attuazione. Detti cartelli non determinano alcuna discriminazione diretta o indiretta. Si tratta infatti della previsione di divieto di ingresso in strutture sanitarie con il volto coperto, con raffigurazione di tre ipotesi. Le esigenze di pubblica sicurezza sopra indicate fanno ritenere necessario e proporzionato quanto indicato nel cartello.
4. Le associazioni ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’APN – Avvocati Per Niente ONLUS, il NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri, Rom e Sinti e la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’uomo Onlus hanno proposto appello chiedendo di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Regione Lombardia consistente: nell’aver adottato la deliberazione di Giunta n. X/4553 del 10.12.2015: a) nella parte in cui esclude che i costumi religiosi possano rappresentare giustificato motivo di eccezione ai sensi dell’art. 5 L. 152/75 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionali; b) nella parte in cui impone alle competenti strutture regionali o autorizza le stesse a disporre un divieto generalizzato di ingresso negli edifici del Servizio Sanitario Regionale (ASST, ambulatori, Ospedali) alle persone con velo integrale (burqa o niqab) indipendentemente dalla disponibilità di dette persone a consentire la propria identificazione mediante rimozione temporanea della velazione; nell’aver predisposto e fatto affiggere o nell’aver consentito la affissione dei cartelli di cui al doc. 3 allegato al ricorso nella parte in cui dispongono un divieto generalizzato e assoluto di ingresso nell’edificio alle persone con velo integrale (niqab o burqa). Conseguentemente hanno chiesto di ordinare alla Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, di modificare la deliberazione di cui sopra nella parte sopra indicata, nonché di impartire disposizioni agli enti regionali che hanno affisso i cartelli di cui sopra affinché ne dispongano la immediata rimozione; ordinare la pubblicazione integrale dell’emanando provvedimento sulla home page del sito della Regione Lombardia nonché per estratto a cura e spese della Regione Lombardia su un quotidiano nazionale, in formato che ne consenta una adeguata visibilità; adottare un piano di rimozione della discriminazione ex art. 28 D.Lgs. 150/2011 comma 5 che comprenda ogni provvedimento ritenuto utile a evitare il reiterarsi della discriminazione.
A sostegno del gravame gli appellanti hanno proposto i seguenti motivi:
a) il Tribunale ha condivisibilmente affermato che il divieto di accesso presso uffici ed enti pubblici a viso coperto comporta, di fatto, uno svantaggio per le donne che, per ragioni di tradizione o per professare il proprio credo religioso, indossano il velo nelle forme del burqa e del niqab: dunque un divieto di accesso in determinati luoghi per tutti quanti abbiano il volto coperto costituisce discriminazione indiretta per ragioni di religione, dovendosi pertanto verificare se il divieto sia giustificato da una finalità legittima perseguita con mezzi proporzionati e necessari; sotto tale ultimo profilo la motivazione del tribunale non è convincente.
b) L’ordinanza è erronea nella parte in cui ha considerato congiuntamente delibera regionale (DGR) e cartelli, omettendo di considerare l’assenza di un procedimento o atto amministrativo che abbia condotto alla adozione di questi ultimi nonché la possibilità di plurime e proporzionate soluzioni a tutela della sicurezza.
c) E’ vero che la DGR ha contenuto generico, con un rinvio per l’adozione agli atti dirigenziali necessari alle competenti strutture regionali; finché tali atti non siano adottati, la delibera è priva di effetti nei confronti dei privati; inoltre nella delibera “vietare l’uso e la connessione con il riconoscimento rendono in effetti la disposizione compatibile sia con misure volte al riconoscimento che non prevedano un divieto assoluto di accesso in determinate aree sia con misure che invece lo prevedano”;
d) Solo con la costituzione della Regione le associazioni ricorrenti avevano appreso che l’unico atto amministrativo adottato al fine di dare applicazione della DGR è il decreto della presidenza n. 11921 del 29.12.2015 (doc. 3 di controparte). Tale atto non viene considerato nella ordinanza impugnata ma “assume particolare rilievo perché conferma la compatibilità della DGR con entrambe le soluzioni applicative sopra indicate”. Il decreto riguarda esclusivamente gli immobili di cui agli allegati (ovvero Palazzo Lombardia, Palazzo Pirelli, Palazzo di via Taramelli, via Pola, Rossellini, Abbadesse, sedi di Roma, Bruxelles, Seveso, Legnano). Sono immobili che contengono uffici regionali, ma sono anche aperti al pubblico per fornire servizi. La soluzione applicativa individuata è centrata sull’obbligo di identificazione. In particolare “…qualora il visitatore si presenti con la velazione integrale o altro mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento della persona dovrà, per motivi di sicurezza, sottoporsi all’identificazione dei propri connotati fisici, previa rimozione della suddetta velazione e degli altri mezzi di travisamento del volto”. Una volta identificata, alla persona viene rilasciato un pass. Dunque non è previsto un divieto di acceso generalizzato, ma solo un obbligo di identificazione a volto scoperto, misura che appare ragionevole.
e) L’obbligo di riconoscimento, e non il divieto di accesso, può e deve essere il punto di equilibrio tra esigenze di sicurezza e tutela della identità religiosa. Non già, quindi, i cartelli che prevedono un divieto di accesso senza prevedere una procedura di identificazione che possa consentire l’accesso. La previsione di una procedura per la identificazione rende immediatamente evidente il carattere non necessario del divieto di accesso.
f) Non si condivide pertanto l’ordinanza impugnata laddove ritiene il divieto di accesso nei luoghi ove è stato apposto il cartello (tra cui gli ospedali) giustificato e ragionevole alla luce della esigenza di identificare coloro che accedono a detti enti.
g) Per quanto riguarda le strutture del Servizio sanitario regionale, la Regione non si è mai assunta la paternità dei cartelli (ad essa pacificamente riferibili, come anche riconosciuto nella ordinanza), ma neppure ha indicato un procedimento amministrativo che abbia condotto alla adozione di questi ultimi. Pertanto non è possibile stabilire se i cartelli costituiscano una precisa attuazione della DGR ovvero se siano una iniziativa autonoma di qualche organo regionale o eventualmente delle singole ASL o spedali; quale ufficio abbia individuato il testo e a grafica; quale ufficio o assessorato abbia commissionato la produzione e la diffusione dei cartelli; se il cartello debba trovare applicazione anche in casi di emergenza o urgenza; chi sia deputato a garantire il rispetto del divieto di ingresso; quali siano le sanzioni in caso di violazione e chi debba dare applicazione alle stesse.
h) Il primo giudice ha omesso di effettuare le predette valutazioni ma, dopo aver affermato che i cartelli sono senza dubbio riferibili alla delibera oggetto di causa (mentre il collegamento con la delibera non risulta da alcun atto amministrativo) ha concluso semplicemente affermando che le medesime considerazioni svolte con riferimento alla delibera consentono di affermare che i cartelli non determinano alcuna discriminazione diretta o indiretta in quanto si tratta della previsione di un divieto di ingresso in strutture sanitarie con il volto coperto e della raffigurazione di tre ipotesi di volto coperto; le esigenze di pubblica sicurezza sono anche in questo caso necessarie e proporzionate.
i) E’ errata la equiparazione della DGR e dei cartelli. La delibera aveva un contenuto ampio e generico e quindi il compito di equilibrare esigenze di sicurezza e tutela della identità religiosa era rimesso alle autorità deputate alla attuazione e agli atti amministrativi di attuazione. In assenza di questi è impossibile valutare come siano state considerate la necessità e la proporzionalità, che non possono essere tratte, per quanto riguarda i cartelli, dalla DGR.
j) Il valore della sicurezza si atteggia in modo diverso a seconda degli immobili in considerazione, in quanto una cosa è fare ingresso nel palazzo della Regione per partecipare a iniziative o incontrare funzionari e altra cosa è l’esigenza personalissima di provvedere alla tutela di beni di rilevanza costituzionale, come la cura della propria salute o dei propri figli minori o l’assistenza a familiari; diversa è quindi la valutazione della proporzionalità;
k) La DGR non ha in sé effettiva capacità lesiva, in assenza di atto applicativo, che manca nel caso dei cartelli affissi nei SSR; peraltro la stessa DGR non consente di comprendere quale sia la struttura regionale competente a dare attuazione al divieto e non consente al privato di verificare se il divieto promana da detta autorità;
l) Il Tribunale ha omesso di considerare la portata effettiva del divieto e delle possibili soluzioni alternative; qualificato l’evento come discriminazione indiretta, ha proceduto nell’esame della sussistenza di una causa di giustificazione della stessa. La nozione di “accomodamento ragionevole” consente peraltro una più pregnante considerazione delle esigenze di giustizia sostanziale. Divieto di accesso e obbligo di identificazione non sono sovrapponibili.
m) Il Tribunale non ha adeguatamente comparato i diritti in gioco (diritto alla libertà di manifestazione religiosa e diritto alla salute e alla unità familiare) anche in relazione al modestissimo onere che soluzioni alternative avrebbero posto a carico della Amministrazione;
n) La DGR è suscettibile anche di applicazioni in concreto conformi a diritto, come avvenuto con i decreti attuativi con riferimento agli uffici regionali, peraltro si censura il passaggio della motivazione della DGR ove si afferma che “le tradizioni e i costumi religiosi…non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione ai sensi dell’art. 5 L. 152/75 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno di strutture regionali”; si conserva pertanto la domanda anche con riferimento alla DGR, in quanto va effettuato caso per caso un esame della motivazione addotta, mentre una esclusione generale del fattore religioso, che non potrebbe mai costituire un giustificato motivo, sarebbe lesivo del relativo diritto.
5. Instaurato il contraddittorio, si è costituita in giudizio la Regione Lombardia che ha chiesto il rigetto dell’appello e la conferma dell’ordinanza impugnata.
L’appellata ha dedotto quanto segue:
- I presupposti e la motivazione della DGR si fondavano sulla necessità di essere più chiare ed esplicite sul tema della identificazione rispetto alle norme del 2013, ove nulla si diceva in relazione alla necessità di identificare visitatori e dipendenti negli uffici regionali; oggetto del provvedimento non è il divieto del velo integrale quanto piuttosto l’aggiornamento dell’intera disciplina dell’accesso alle sedi regionali, in considerazione anche dei gravi fatti di cronaca richiamati. L’espresso riferimento al velo è da leggere nel contesto del provvedimento che costituisce mera attuazione dell’art. 5 L. 152/75;
- la DGR era rivolta ad una pluralità di enti e soggetti che pur facendo parte del sistema regionale, costituivano enti con autonoma soggettività; non potevano pertanto essere prodotti in giudizio dalla Regione atti che si riferivano alle ASL e Ospedali, ma solo atti attuativi della DGR adottati dalla Regione Lombardia, visto che lo scopo era comprovare la corretta interpretazione da darsi alla DGR;
- non è ammissibile una domanda che si limita ai cartelli ovvero alla parte in cui la DGR si applica a strutture differenti da quelle della sede regionale, poiché le domande vengono rivolte alla Regione Lombardia, unica controparte nel processo;
- le contestazioni e le relative domande relative ai cartelli si sarebbero dovute avanzare nei confronti degli enti del SSR e non nei confronti della Regione Lombardia, che ha carenza di legittimazione passiva, tanto più che le doglianze non paiono più attenere alla DGR;
- le conclusioni presentate in grado di appello si differenziano da quelle presentate in primo grado; ne deriva quindi la improcedibilità dell’appello;
- la DGR costituisce mera attuazione della legislazione nazionale, senza dare luogo a nuove misure di restrizione della libertà personale; inoltre non viene imposto alcun divieto generalizzato, al contrario, il divieto derivante da una norma nazionale che impone la identificazione e il riconoscimento in caso di ingresso e permanenza in luoghi pubblici risulta contestualizzato all’interno di circoscritti edifici lombardi. Quanto al decreto, il riferimento alla velazione integrale non è contenuto nel testo dell’atto ma negli allegati, in quanto oggetto del provvedimento non era il divieto del velo integrale quanto l’aggiornamento della disciplina dell’accesso alle sedi regionali.
- Identificazione all’ingresso e permanenza identificata sono due concetti che non possono essere separati.
- I recenti episodi di matrice terroristica costituiscono “una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze”, come evidenziato nella DGR; anche le strutture pubbliche regionali necessitano di elevati standard di sicurezza interni per garantire l’incolumità dei dipendenti, operatori ed utenti esterni.
- Per quanto riguarda i cartelli, gli stessi non sono altro che la trasposizione pratica del contenuto della delibera, ovvero ne costituiscono la attuazione, come anche rilevato dal Tribunale. Il divieto di ingresso a volto coperto promana quindi da un atto ben determinato, ovvero la DGR, che demanda per la attuazione alle competenti strutture regionali; in ogni caso i cartelli non sono oggetto di procedure di approvazione.
- quanto alle possibili soluzioni alternative, sotto il profilo del c.d. “accomodamento ragionevole”, è la stessa CEDU, art. 9, che ammette restrizioni alla libertà di religione, qualora ciò si renda necessario ai fini della sicurezza pubblica; tale divieto p proporzionato e compatibile con gli artt. 8 e 9 CEDU qualora vi sia una generale e comprovata minaccia alla pubblica sicurezza.
- Nella delibera il divieto non riguarda il velo ma qualsiasi mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento e quindi, come riconosciuto dal Tribunale, il velo non è interpretato come segno di una appartenenza confessionale, ma nella sua oggettività;
- l’identificazione non può ritenersi limitata al solo momento dell’accesso negli enti e società del sistema regionale ma occorre che anche la permanenza sia identificata.
6. All’udienza del 20.12.2017 preliminarmente la Corte ha invitato parte appellata Regione Lombardia a prendere posizione sulla provenienza del cartello in questione e il difensore ha precisato che “se il cartello oggetto di giudizio riporta il logo della regione, verosimilmente è attribuibile all’Ente territoriale e che analogo cartello è stato esposto all’ingresso del “Pirellone”.
Parte appellata ha poi eccepito che le conclusioni assunte dalle parti appellanti sono diverse dalle domande fatte valere in primo grado. Il difensore delle associazioni appellanti ha replicato che le domande relative al cartello in contestazione erano già presenti nel ricorso al Tribunale.
Dopo discussione, la Corte, preso atto della disponibilità di parte appellante a rinunciare a parte delle domande, ha invitato la regione Lombardia a verificare la disponibilità a rendere più intellegibile il contenuto dei cartelli esposti, evidenziando la finalità di invito a tutti gli utenti del servizio sanitario che abbiano il capo coperto a farsi identificare per consentire l’ingresso nel luogo pubblico, altrimenti vietato. Il difensore di parti appellanti ha proposto che il contenuto della comunicazione aggiuntiva sul cartello potrebbe consistere in un invito ai soggetti che, per motivi religiosi, abbiano il capo coperto, a scoprirsi al fine di farsi identificare.
La Corte ha quindi rinviato, anche per favorire la possibilità di un accordo, all’udienza del 25.5.2018 per precisazione delle conclusioni.
7. All’udienza del 25.5.2018 la difesa della Regione Lombardia ha dichiarato che l’Ente non aveva ritenuto di accogliere l’invito ad una conciliazione della causa alle condizioni prospettate. Le parti hanno quindi precisato le conclusioni come sopra trascritte e la Corte ha trattenuto la causa in decisione con termini di giorni sessanta per comparse conclusionali e giorni venti per repliche.
Le parti hanno depositato comparse conclusionali e il 17.9.2018 la sola parte appellata ha depositato memoria di replica.
La Corte ha assunto la decisione nella Camera di Consiglio del 24.5.2019.
8. La Corte ritiene che l’ordinanza impugnata debba essere confermata.
Con riferimento alle domande proposte dagli appellanti e alla eccezione di parte appellata secondo cui sarebbero state proposte domande nuove, pertanto non ammissibili, in questo grado di giudizio, la Corte osserva che, sebbene le conclusioni siano diversamente formulate nella loro dizione letterale, il contenuto appare sostanzialmente il medesimo, come può agevolmente rilevarsi dalla lettura delle conclusioni contenute nel ricorso, sopra riportate, confrontate con le conclusioni trascritte in epigrafe.
In particolare, anche nelle conclusioni assunte in primo grado si faceva menzione del cartello apposto nei luoghi pubblici, dapprima - nel punto sub a) - chiedendo di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla regione Lombardia, consistente nell’aver emanato la deliberazione della Giunta in discussione nonché nell’aver disposto che le competenti strutture regionali…adottassero atti dirigenziali attuativi della predetta deliberazione e in particolare nell’aver indicato forme e contenuti del cartello; successivamente - nel punto sub b) - laddove se ne richiedeva la immediata rimozione.
Vero è che nel giudizio di secondo grado l’attenzione degli appellanti si è spostata soprattutto sulla grafica e sulla frase scritta nel cartello, al punto di manifestare, nel corso della udienza, la propria disponibilità a limitare la domanda ad una modificazione del contenuto dei cartelli, onde consentire l’ingresso nelle strutture sanitarie delle persone con velo integrale, una volta identificate. Tra le domande viene infatti introdotta, dopo la richiesta della rimozione del divieto di ingresso, la dicitura “indipendentemente dalla disponibilità di dette persone a consentire la propria identificazione mediante rimozione temporanea della velazione”. Si tratta peraltro di una importante specificazione; in definitiva, le parti appellanti - fermo il divieto di ingresso nei luoghi pubblici, e in particolare negli ospedali, per coloro che non avessero consentito o avessero reso difficoltosa una loro identificazione - si sono dichiarate disponibili a richiedere solo una modificazione della comunicazione contenuta nei cartelli, tale da consentire una identificazione temporanea e limitata, in definitiva come avviene negli aeroporti, ove le donne velate mostrano il volto solo al momento della identificazione, per poi tornare a coprirsi il volto. Sempre con riferimento alle domande proposte, si osserva che in primo grado nel ricorso si chiedeva anche, genericamente, di “disporre un piano di rimozione della discriminazione ex art. 28 D.Lgs. 150/2011 comma 5 che comprenda ogni provvedimento ritenuto utile ad evitare il reiterarsi della discriminazione”. Va inoltre detto che il difensore di parte appellante ha evidenziato che anche nel giudizio di primo grado, all’udienza del 18.10.2016, era stata manifestata la disponibilità ad una soluzione transattiva che prevedesse l’esclusione degli enti del Servizio Sanitario Regionale dall’ambito della delibera regionale e la sostituzione del divieto di ingresso con l’obbligo di identificazione; quindi, sempre in una prospettiva transattiva, era stata proposta una domanda subordinata sovrapponibile a quella proposta in appello.
Alla successiva udienza del 28.3.2017 la Regione Lombardia aveva peraltro contestato la riferibilità dei cartelli alla Regione. Parte ricorrente prendeva inoltre atto che “per quanto riguarda i palazzi regionali, la DGR aveva avuto una attuazione condivisibile, giacché gli atti applicativi si erano limitati a stabilire l’obbligo di farsi riconoscere; conseguentemente la contestazione della delibera restava limitata alla sola parte in cui aveva previsto che i motivi religiosi non potessero costituire in assoluto “giustificato motivo di eccezione ai sensi dell’art. 5 L. 152/75 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionale…”. Si insisteva quindi nelle domande relative ai cartelli.
Ritiene in conclusione la Corte che nessuna domanda nuova sia stata formulata nel giudizio di appello. Una volta non andata a buon fine una soluzione conciliativa della causa, sia in primo grado che in questo grado di giudizio, sono state riproposte tutte le domande dirette ad accertare il comportamento discriminatorio della Regione Lombardia.
Va del pari respinta la eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata da parte appellata che osserva, con riferimento alle domande relative ai cartelli, che ASL e Ospedali - ove i cartelli sono apposti - sono enti con autonoma soggettività. Come già osservato dal Tribunale, è pacifica la attribuzione alla Regione Lombardia dei cartelli in questione, dal momento che vi è il logo e la indicazione Regione Lombardia e l’indicazione del relativo sito web. Del resto, a domanda espressa della Corte, la difesa di parte appellata ha riconosciuto che i cartelli sono di provenienza della regione Lombardia.
Nel merito, occorre accertare anzitutto se la delibera della Giunta regionale del 10.12.2015 abbia un carattere discriminatorio o meno e quindi se la attuazione di detta delibera, mediante la affissione dei cartelli come descritti, violi a sua volta le norme antidiscriminatorie.
Per quanto riguarda la delibera regionale, la Corte condivide integralmente la motivazione del giudice di primo grado.
Non può certamente essere attribuito alla delibera in questione un carattere discriminatorio, anzitutto per la sua genericità e per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza (che i gravissimi attentati in luoghi pubblici avevano reso ancor più evidenti, destando vivo allarme sociale), senza che vi sia stata alcuna violazione di riserva di legge, avendo la delibera richiamato espressamente la legge 152/75 (c.d. legge Reale). Si richiamano sul punto le argomentazioni della ordinanza impugnata.
Di ciò, del resto, ne danno atto gli stessi appellanti, laddove non si dolgono della applicazione che della stessa delibera è stata data negli uffici della Regione (ove viene eseguita una identificazione prima dell’accesso), mentre rimarcano il carattere discriminatorio dei soli cartelli che vietano l’accesso, negli ospedali e in enti del SSR, a persone con il volto non riconoscibile perché coperto da casco, passamontagna o velo integrale.
Ritiene quindi la Corte che la delibera regionale non abbia, in sé, alcun carattere discriminatorio con la conseguenza che vanno respinte le relative domande.

Per quanto riguarda i cartelli, alcune delle argomentazioni spese dagli appellanti sono condivisibili. Pur essendo evidente che le tre rappresentazioni grafiche (casco, passamontagna e, presumibilmente, burqa o niqab) sono esemplificative, dal momento che la scritta chiarisce che per tutti “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con il volto coperto”, si tratta in ogni caso di una modalità comunicativa piuttosto grezza e, soprattutto, dalle incerte conseguenze dal momento che, a differenza degli uffici regionali, il cui accesso è oltretutto regolato dal decreto della presidenza n. 11921 del 29.12.2015, negli ospedali non vi sono tornelli né personale addetto alla identificazione e non è noto se vi siano o meno provvedimenti amministrativi che disciplinano l’ingresso nelle strutture sanitarie.

Ai fini della identificazione di chi entra nelle predette strutture, si osserva che nei grandi ospedali vi sono postazioni delle Forze dell’Ordine, ma non in tutte le strutture sanitarie; inoltre il direttore sanitario è sì responsabile anche della organizzazione della struttura, ma non anche dell’ordine pubblico nella struttura. E’ probabile quindi che la proposta conciliativa della revisione dei cartelli non sia andata a buon fine proprio per la obiettiva difficoltà di prevedere, in tempi ristretti, una revisione del contenuto dei cartelli medesimi, in assenza della predisposizione di una organizzazione idonea a consentire la identificazione delle persone con volto coperto, organizzazione inoltre necessariamente diversificata a seconda delle sedi; si dovrebbero quindi adottare provvedimenti o atti amministrativi analitici (quali quelli previsti per gli uffici regionali) o indicazioni scritte più articolate, necessariamente differenziate a seconda delle plurime e diverse strutture del SSR. Provvedimenti evidentemente non di competenza della Regione ma degli enti dotati di personalità giuridica propria. I cartelli indicano solo che vi è un consenso, se non altro di fatto, da parte dei responsabili delle strutture alla relativa affissione. Certo dovranno affrontare e regolamentare tutta la diversa casistica che si presenterà nel caso il divieto non venga osservato. La Corte rileva che, anche con riferimento ai cartelli, può valere quanto evidenziato nell’allegato A al decreto n. 11921 del 29.12.2015, relativo ai criteri di accesso a Palazzo Lombardia, ove nella premessa si afferma che “un buon livello di sicurezza non può tuttavia prescindere dal “fattore umano” garantita dalla partecipazione attiva di tutti, chiamati a mettere in atto comportamenti efficaci per la tutela personale e collettiva”.


Infine non è noto in quante SSR siano stati apposti i cartelli (sono state prodotte le fotografie degli ingressi, con affissi i cartelli in questione, solo degli ospedali San Gerardo di Monza, di Brescia, Lecco e Sondrio), né quali conseguenze abbiano determinato e se siano ancora esposti o meno.
Anche il Tribunale ha in realtà esaminato tale profilo relativo ai cartelli, evidenziando, quanto alle strutture sanitarie, la impossibilità di identificare le persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati e la difficoltà di procedure di identificazione che richiedono la collaborazione anche delle persone che entrano a volto scoperto. Probabilmente non si tratta, come osservato dalle associazioni appellanti, di problema in assoluto irrisolvibile. Certo però che richiede la predisposizione di organizzazioni particolari per informare le persone con il volto coperto, invitarle a farsi identificare, munirle all’ingresso di pass, o simili autorizzazioni visibili, per poi consentire a chi abbia il capo velato per motivi religiosi, di coprirsi nuovamente. Non è però questa la sede per valutare la opportunità, bontà o efficienza dei diversi sistemi che regolano l’ingresso in luoghi pubblici quali servizi sanitari, in mancanza di atti amministrativi che disciplinano le modalità di accesso alle SSR e di conoscenza delle diversificate organizzazioni. Occorre solo valutare se sussista una forma di discriminazione indiretta nei cartelli in questione e se sussistano motivi tali da giustificare lo svantaggio che, nel caso di specie, il segno di divieto apposto sui disegni stilizzati dei capi coperti, comporta per le donne che, per motivi religiosi, indossino il velo integrale.
Le associazioni appellanti ritengono che il Tribunale abbia “erroneamente considerato in modo congiunto e sovrapposto l’esigenza di identificazione e l’esigenza di mantenere il volto scoperto, come pure l’ammissibilità di un divieto “istantaneo” finalizzato alla identificazione e la ammissibilità di un divieto permanente (se pure circoscritto a un luogo)…”. Sostengono quindi che “in realtà – indipendentemente dalla previsione della delibera – quadro… - i cartelli contestati pongono proprio un divieto di ingresso assoluto e non un obbligo regolamentato di identificazione, con la conseguenza che l’onere posto al portatore della “identità religiosa” non è circoscritto all’obbligo di identificazione (come invece accade nel decreto 11921) ma si estende al divieto assoluto di fruire di un servizio fondamentale conservando il segno distintivo di detta identità”.
Come già detto, per le caratteristiche dei luoghi e la grande frequentazione di utenti è molto difficile prevedere forme di identificazione quali quelle negli aeroporti e negli uffici pubblici e, in ogni caso, non vi sono atti amministrativi che li prevedano; d’altra parte la domanda avanzata dalle parti appellanti della immediata rimozione dei cartelli non appare a sua volta soluzione proporzionata, lasciando irrisolto il problema della sicurezza pubblica che ha ispirato la DGR.
La Corte condivide pertanto l’impostazione del Tribunale che ha valutato come proporzionato e ragionevole lo “svantaggio” imposto dal cartello alle donne che indossano il velo integrale per motivi religiosi, in quanto limitato nel tempo e circoscritto nel luogo SSR e giustificato da ragioni di pubblica sicurezza.
La Corte ritiene quindi di rigettare le domande proposte dalle associazioni appellanti.
Quanto alle spese di lite, devono considerarsi il comportamento processuale della Regione Lombardia, la necessità della causa per comprendere l’iter amministrativo che aveva portato alla affissione dei cartelli, la modalità di affissione dei cartelli, apparentemente priva di provvedimenti amministrativi che ne abbiano determinato e disciplinato il contenuto, la mancata disponibilità di parte appellata ad una ipotesi transattiva proposta dagli appellanti ma anche dalla Corte che appariva del tutto ragionevole. Pertanto le spese di causa vengono compensate tra le parti.

P.Q.M.

la Corte, provvedendo sull’appello proposto da l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione, APN – Avvocati Per Niente ONLUS, NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri, Rom e Sinti e Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’uomo Onlus avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano emessa il 20.4.2017, nel contraddittorio delle parti, così provvede:
- respinge l’appello e, per l’effetto conferma l’ordinanza impugnata;
- compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.