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Cannabis light, commercio è reato ma .. (Cass. SSUU 30475/19)

10 luglio 2019, Cassazione penale

Anche dopo la regolamentazione sulla promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa resta penalmente rilevante la commercializzazione dei derivati della canapa, anche se – è necessario verificare se il prodotto illecitamente venduto abbia o meno efficacia drogante.

La L. n. 242 del 2016 è volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.), coltivazione che beneficia dei contributi dell’Unione Europea, ove il coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse; si tratta di coltivazione consentita senza necessità di autorizzazione ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, (esemplificando: dalla coltivazione della canapa di cui si tratta possono ricavarsi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana); la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016.

La cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti - diversi da quelli espressamente consentiti dalla L. n. 242 del 2016 - derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis tight, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stup..

La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della L. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.

Corte di Cassazione

sez. Unite Penali, sentenza 30 maggio – 10 luglio 2019, n. 30475
Presidente Carcano – Relatore Montagni

Ritenuto in fatto

1.Il Tribunale del riesame di Ancona, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha revocato il sequestro preventivo disposto dal G.i.p. del Tribunale di Ancona il 19/10/2018, avente ad oggetto 13 chili di foglie ed inflorescenze di cannabis, nell’ambito del procedimento penale a carico di C.L. , per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1, 2 e 4 e art. 80, comma 2, limitatamente ai reperti contenenti una percentuale di principio attivo non superiore allo 0,6%. Le foglie e le inflorescenze di cui si tratta sono state sequestrate presso il punto vendita Indoorova, sito in (…), atteso che dagli esperiti accertamenti tossicologici era emersa la presenza di principio attivo “tetraidrocannabinolo” superiore allo 0,6%.

La decisione assunta dal Tribunale, di revocare il sequestro dei reperti rinvenuti nel richiamato punto vendita, aventi percentuale di principio attivo non superiore allo 0,6%, muove dall’interpretazione della L. 2 dicembre 2016, n. 242, recante Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. Osserva il Tribunale che ai sensi della L. n. 242 del 2016, art. 2, è consentita la coltivazione delle varietà di canapa indicate dall’art. 1 del medesimo testo normativo; e sottolinea che secondo l’art. 4, comma 7, della legge citata, solo a seguito del superamento del limite dello 0,6 per cento di principio attivo è possibile procedere al sequestro ed alla distruzione della coltivazione e dunque anche del prodotto derivato. Il Tribunale ha in particolare considerato che, pure a fronte di evidenti carenze legislative, le inflorescenze devono ritenersi rientranti nelle coltivazioni destinate al fiorovivaismo di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, lett. g); e che la successiva vendita di foglie e inflorescenze, purché il prodotto non superi il limite dello 0,6 per cento di principio attivo, deve qualificarsi come penalmente non rilevante.

2.Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Il ricorrente osserva che l’esclusione della punibilità prevista dalla L. n. 242 del 2016 è prevista unicamente nei confronti del coltivatore e non può essere estesa in favore del commerciante che detenga e ponga in vendita foglie e inflorescenze ottenute dalla pianta di cannabis sativa L.; e, soffermandosi sul divieto di sequestro e distruzione di cui all’art. 4, comma 7, L. n. 242, considera che il legislatore fa espresso riferimento alle coltivazioni già sottoposte ad analisi con esito favorevole e non ai prodotti derivati e poi commercializzati.
Il ricorrente censura la restituzione di quanto sequestrato al C. , posto che N.A. , addetto alla vendita presso il negozio del C. , arrestato in flagranza di reato, si era assunto la proprietà della marijuana.
Sotto altro aspetto, il ricorrente evidenzia che il Tribunale ha affermato la liceità della condotta di vendita delle inflorescenze, alla luce della L. n. 242 del 2016, nonostante le risultanze delle indagini tossicologiche escludessero l’applicabilità della novella, essendo stato riscontrato un contenuto di principio attivo superiore al 6 per cento.
3.C.L. , a mezzo del difensore, in data 2 febbraio 2019, ha depositato memoria, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso.
In punto di diritto, l’esponente rileva che la L. n. 242 del 2016 disciplina una tipologia strutturale di coltivazione affatto diversa da quella oggetto del D.P.R. n. 309 del 1990, originata da semi inseriti nelle tabelle previste dell’art. 17, della direttiva UE n. 52/2002. Il deducente richiama i limiti di soglia di THC previsti dalla novella del 2016, osservando che la legge introduce una scriminante che non opera per il solo coltivatore, ma che estende la propria efficacia anche a favore di commercianti e distributori. Sul piano dogmatico, nella memoria si evidenzia che un prodotto considerato legale nella sua fase produttiva - e per la cui coltivazione non è necessaria autorizzazione - non può essere successivamente ritenuto illegale, nella fase di commercializzazione.
La parte osserva che la L. n. 242 del 2016 deve essere qualificata come lex specialis, rispetto al vigente testo unico in materia di sostanze stupefacenti; ed osserva che il ricorso del pubblico ministero si basa su assunti palesemente errati in diritto.
4.Con ordinanza in data 8 febbraio 2019 la Quarta Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
La Sezione rimettente osserva che sulla questione relativa all’ambito di operatività della L. 2 dicembre 2016, n. 242 si registra un contrasto giurisprudenziale.
Secondo un indirizzo, la predetta legge non consente la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della canapa (hashish e marijuana), sul presupposto che la novella disciplini esclusivamente la coltivazione della canapa per i fini commerciali elencati dalla L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle inflorescenze e dalla resina. In tale ambito ricostruttivo, i valori di tolleranza di THC consentiti dall’art. 4, comma 5, legge citata, si riferiscono solo alla percentuale di principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio. La cannabis sativa L. presenta intrinseca natura di sostanza stupefacente ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, posto che l’allegata Tabella II include la cannabis in tutte le sue varianti e forme di presentazione. Secondo tale orientamento, la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione di cannabis sativa L, sempre che presentino un effetto drogante, integra tuttora gli estremi del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.
Nell’ordinanza si osserva che, secondo un diverso orientamento ermeneutico, nella filiera agroalimentare della canapa che la novella del 2016 intende promuovere, rientra la commercializzazione dei relativi derivati. Dalla liceità della coltivazione discende, pertanto, la liceità dei prodotti che contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6 per cento. Deve quindi escludersi, ove le inflorescenze provengano da coltivazioni lecite ex lege n. 242 del 2016, la responsabilità penale sia dell’agricoltore che del commerciante.
La Sezione rimettente, dopo aver rilevato che entrambe le tesi sono supportate da argomenti di indubbio spessore, si sofferma sulle disposizioni della L. n. 242 del 2016 che menzionano, tra le finalità del sostegno offerto alla coltura della canapa, anche la produzione di alimenti contenenti residui di THC. Considera che appare contraddittorio consentire il consumo umano dei prodotti che derivano dalle coltivazioni previste dalla L. n. 242 del 2016, art. 1, contenenti residui di THC e ritenere vietata la vendita dei derivati della cannabis provenienti dalle medesime coltivazioni contemplate della legge del 2016.
5.Il Primo Presidente Aggiunto, con decreto in data 21 marzo 2019, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione in camera di consiglio l’udienza del 30 maggio 2019.
6.Il Procuratore Generale in data 28 maggio 2019 ha depositato note di udienza, osservando che a seguito della novella del 2016 emergono plurimi profili di illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, comma 1, lett. b), e chiede che venga sollevato incidente di costituzionalità. In subordine, chiede l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, stante la persistente rilevanza penale delle condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà ammesse.
7.La difesa del C. , in pari data, ha depositato note esplicative. La parte ribadisce la portata derogatoria della L. n. 242 del 2016, rispetto al T.U. stup. e rileva che appare illogico affermare che i limiti fissati per la coltivazione non possano essere estesi anche alla successiva fase del commercio.

Considerato in diritto

1.Il quesito sottoposto all’esame delle Sezioni Unite è il seguente: "Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. l, comma 2, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa.".

2.La soluzione del quesito che occupa discende dall’analisi dei vigenti testi normativi di riferimento che, in apparente rapporto di reciproca contraddizione, da un lato vietano la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti e, dall’altro, promuovono la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa. L’ermeneusi dei richiamati testi normativi ha dato luogo alle asimmetrie interpretative evidenziate dall’ordinanza di rimessione.

Ad un indirizzo maggioritario, in base al quale deve escludersi che la L. n. 242 del 2016 consenta la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. (Sez. 3, n. 17387 del 10/01/2019, Conti; Sez. 4, n. 57703 del 19/09/2018, Durali, Rv. 274770; Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, Rv. 27426201; Sez. 4, Sentenza n. 34332 del 13/06/2018, Durante, Rv. 274763), si è contrapposto l’orientamento decisamente minoritario che dalla liceità della coltivazione di cannabis sativa L., ai sensi della L. n. 242 del 2016, fa discendere la liceità anche della commercializzazione dei derivati quali foglie e inflorescenze, purché contengano una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6 per cento (Sez. 6, n. 4920 del 29/11/2018, dep. 2019, C. , Rv. 274616). Nella sentenza si evidenzia che il consumo della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite non costituisce neppure l’illecito amministrativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75.

Si registra pure un terzo orientamento che prospetta una soluzione intermedia, tra quelle ora richiamate: si è, infatti, sostenuta la sostanziale liceità dei prodotti derivati dalla coltivazione di canapa consentita dalla novella del 2016, purché gli stessi presentino una percentuale di THC non superiore allo 0,2 per cento (Sez. 3, n. 10809 del 7/12/2018, dep. 2019, Totaro, ove si precisa che deve escludersi la rilevanza penale della commercializzazione delle inflorescenze, benché non contemplate in alcuna previsione della L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, ove il principio attivo risulti inferiore allo 0,2 per cento).

3.Osservano le Sezioni Unite che la disciplina introdotta dalla L. n. 242 del 2016 pone effettivamente il problema di coordinare le nuove disposizioni con quelle contenute nel Testo Unico in materia di sostanza stupefacenti, atteso che la novella promuove la coltivazione di piante oleaginose e da fibra, le quali rientrano, prima facie, tra quelle di cui, in Italia, è vietata la coltivazione.
Si tratta di un nodo interpretativo che risulta risolvibile con l’impiego degli ordinari strumenti euristici di cui l’interprete dispone e che non richiede di sollevare alcun incidente di costituzionalità, una volta chiarito il reale ambito applicativo delle diverse discipline oggetto di esame.
Resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia - nell’esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa - così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L, nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali.

4. Al solo fine di introdurre la successiva analisi degli evidenziati punti di frizione sistemica determinati dalla novella del 2016, occorre in via di estrema sintesi richiamare le norme contenute nel T.U. stup. che regolano la coltivazione della cannabis.

In attuazione della delega di cui alla L. 26 giugno 1990, n. 162, art. 37, Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della L. 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, è stato emanato il Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Il T.U. stup. ha riunito e coordinato tra loro, oltre alle norme della citata legge delega, le disposizioni di cui alla L. 22 dicembre 1975, n. 685, del D.L. 22 aprile 1985, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 1985, n. 297, del D.L. 1 aprile 1988, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla L. 1 giugno 1988, n. 176 e del codice di procedura penale.

Il Testo Unico in esame è strutturato secondo il sistema tabellare, che assegna valenza legale alla nozione di sostanza stupefacente: sono soggette alla normativa che vieta la produzione e la circolazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope solo quelle che risultano indicate nelle Tabelle allegate al T.U. stup. (cfr. Sez. 4, n. 27771 del 14 aprile 2011, Cardoni, Rv. 25069301). Sul punto, le Sezioni Unite hanno chiarito che nell’attuale ordinamento penale vige una nozione legale di stupefacente, per cui sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti, i quali, adottati con atti di natura amministrativa in attuazione delle direttive espresse dalla disciplina legale, integrano il precetto penale di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, costruito con struttura di norma parzialmente in bianco. Le Sezioni Unite hanno evidenziato la piena aderenza al principio di legalità di tale struttura normativa, poiché è la legge che indica, con idonea specificazione, i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità amministrativa (Sez. U, n. 29316 del 26/02/2015, De Costanzo, Rv. 264263).

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4-bis e 4-vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, disposizioni in virtù delle quali le sostanze stupefacenti erano state classificate in due sole tabelle. A seguito di ciò, il legislatore è intervenuto con il D.L. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, che, tra l’altro, ha reintrodotto quattro tabelle, comprendenti le sostanze che, sulla base della L. n. 49 del 2006, erano state raggruppate nelle due tabelle sopra citate, modificando conseguentemente i criteri di inclusione delle sostanze all’interno delle tabelle medesime ed interpolando le disposizioni sulle coltivazioni vietate (art. 26, comma 1, T.U. stup.).

Per quanto in rilievo nella presente sede, si richiamano specificamente:

- il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, comma 1, lett. b), come sostituito dal D.L. n. 36 del 2014, art. 1, comma 3, cit., il quale detta i criteri per la formazione delle tabelle che includono le sostanze stupefacenti sottoposte a vigilanza e stabilisce che nella tabella II sia indicata “la cannabis e i prodotti da essa ottenuti”, senza effettuare alcuna distinzione rispetto alle diverse varietà;
-la tabella II, inserita dal D.L. n. 36 del 2014, art. 1, comma 30, cit., che include, tra le sostanze vietate, “Cannabis (foglie e inflorescenze), Cannabis (olio), Cannabis (resina)”, nonché le preparazioni contenenti le predette sostanze in conformità alle modalità di cui alla tabella dei medicinali, senza effettuare alcun riferimento alla percentuale di THC;
- il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, comma 1, rubricato Coltivazioni e produzioni vietate, nel testo sostituito dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 4, cit., il quale stabilisce che è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’art. 14, del medesimo testo unico, “ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea”.
- il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, nel testo in vigore a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, che incrimina, tra le diverse condotte ivi elencate, la coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella II dell’art. 14, citato.

Nella ricostruzione del quadro normativo di riferimento va poi evidenziato che, in sede di conversione del D.L. n. 36 del 2014, la parola “indica”, che nel testo del decreto-legge qualificava la cannabis, è stata soppressa; in tali termini il legislatore si è discostato dalla scelta che era stata operata con il richiamato D.L. n. 272 del 2005, che includeva tra le sostanze stupefacenti unicamente la “cannabis indica”, non dissimilmente da quanto stabilito nell’originario testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14. E deve rilevarsi che anche il contenuto della tabella II ha subito modifiche, in sede di conversione del D.L. n. 36, cit.: il legislatore, infatti, ha stabilito la soppressione della parola “indica” ovunque presente nella Tabella II.

La piana lettura delle disposizioni indicate evidenzia la precisa volontà del legislatore del 2014 di qualificare la cannabis quale sostanza stupefacente, in ogni sua varietà. Ciò si evince inequivocabilmente dalla L. n. 79 del 2014 che, nel convertire il D.L. n. 36 del 2014, ha operato una modifica di ordine sostanziale alla tabella II, indicando la cannabis - ed i suoi derivati - senza effettuare alcun riferimento alla specie indica.

Per completezza, si osserva che l’art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., sostituito dal D.L. n. 36 del 2014, art. 1, comma 3, richiama anche le sostanze ottenute in via di sintesi, riconducibili per effetto farmaco-tossicologico al tetraidrocannabinolo; e che la tabella I comprende, conseguentemente, anche il Delta-8-tetraidrocannabinolo ed il Delta-9- tetraidrocannabinolo. Il legislatore ha inserito tra le sostanze stupefacenti i predetti preparati, se pure non direttamente provenienti dalla produzione di canapa, i quali contengono un principio attivo che per struttura ed effetti psicotropi risultano assimilabili al THC. Si tratta di una indicazione che si affianca a quella di cui alla tabella II, che comprende ogni varietà di cannabis e i preparati che la contengono.
Le svolte considerazioni conducono a rilevare che la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, rientrano nell’ambito dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup.-. Detta fattispecie, infatti, incrimina, oltre alla coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’estrazione, la raffinazione, la vendita, l’offerta o la messa in vendita, la cessione o la ricezione, a qualsiasi titolo, la distribuzione, il commercio, l’acquisto, l’esportazione, l’importazione, il trasporto, il fatto di procurare ad altri, l’invio, il passaggio o la spedizione in transito e la consegna per qualunque scopo o comunque l’illecita detenzione al di fuori dell’ipotesi dell’uso personale, delle sostanze stupefacenti di cui alla tabella II, dell’art. 14, T.U. stup.. E preme evidenziare che, rispetto al descritto piano repressivo delle attività illecite, il legislatore nell’anno 2014 ha espressamente previsto una sola “eccezione”, riguardante la “canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’art. 27, consentiti dalla normativa dell’Unione Europea” (art. 26, comma 2, T.U. stup.); proprio in tale ambito sostanziale si inscrive la seguente novella del 2016, volta a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa, come subito si vedrà.

5. Sul quadro normativo fino ad ora illustrato è intervenuta la L. 2 dicembre 2016, n. 242, recante Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa.

Le finalità specificamente perseguite dalla novella sono indicate dall’art. 1, comma 1, ove si afferma che la legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione. Il comma 2, dell’art. 1 cit., stabilisce poi che la nuova legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

La ratio e l’ambito applicativo dell’intervento normativo del 2016 sono ulteriormente delineati (e chiaramente definiti) dalle fonti sovranazionali richiamate dal legislatore nazionale. Il riferimento è:

A) alla Direttiva U.E. 2002/53/CE, del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, che riguarda l’ammissione delle varietà di barbabietole, di piante foraggere, di cereali, di patate, di piante oleaginose e da fibra in un catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole le cui sementi o i cui materiali di moltiplicazione possono essere commercializzati secondo le disposizioni delle direttive relative rispettivamente alla commercializzazione delle sementi di barbabietole (2002/54/CE), delle sementi di piante foraggere (66/401/CEE), delle sementi di cereali (66/402/CEE), dei tuberi-seme di patate (2002/56/CE) e delle sementi di piante oleaginose e da fibra (2002/57/CE). L’art. 17, della citata Direttiva, stabilisce che conformemente alle informazioni fornite dagli Stati membri e via via che esse le pervengono, la Commissione provvede a pubblicare nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee, serie C, sotto la designazione "Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole", tutte le varietà le cui sementi e materiali di moltiplicazione, ai sensi dell’art. 16, non sono soggetti ad alcuna restrizione di commercializzazione per quanto concerne la varietà;

B)al Regolamento U.E. 1307/2013 del 17 dicembre 2013, recante Norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, all’art. 32, paragrafo 6, stabilisce che le superfici utilizzate per la produzione di canapa sono ettari ammissibili (per i pagamenti agli agricoltori nell’ambito del regime di sostegno agli agricoltori) solo se il tenore di tetraidrocannabinolo delle varietà coltivate non supera lo 0,2%;

C)all’art. 9 del Regolamento U.E. 639/2014, il quale integrando il Regolamento U.E. 1307/2013, riguardante la produzione di canapa, stabilisce che, ai fini dell’art. 32, paragrafo 6, del Regolamento U.E. 1307/2013, l’ammissibilità delle superfici investite a canapa è subordinata all’utilizzo di sementi delle varietà elencate nel “catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole” al 15 marzo dell’anno per il quale è concesso il pagamento, pubblicate a norma dell’art. 17 della Direttiva U.E. 2002/53.

È evidente che la Direttiva U.E. 2002/53 riguarda le sementi e stabilisce quali possano essere ammesse alla coltivazione, secondo il richiamato catalogo, comprendente le sementi di Canapa Sativa L. utilizzabili nell’Unione Europea. È proprio il descritto ambito agroindustriale della Direttiva che, per un verso, chiarisce e delimita la portata delle disposizioni che promuovono la coltivazione della cannabis sativa L., nell’Unione Europea; e, per altro verso, ne garantisce la coerenza con un altro strumento sovranazionale, vale a dire la dec. quadro U.E. 2004/757, recante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti. Detta Decisione Quadro, infatti, nel delineare le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione Europea sono chiamati a configurare come reati, richiama espressamente la coltura della “pianta della cannabis” (art. 2, comma 1, lett. b); ed il testo normativo precisa che sono escluse dal campo di applicazione della medesima decisione quadro le condotte tenute dai loro autori esclusivamente ai fini del loro consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Deve, pertanto, rilevarsi che la coltura agroindustriale della cannabis, connessa e funzionale alla produzione di sostanze stupefacenti, rientra certamente tra le condotte che gli Stati membri sono chiamati a reprimere sulla base della Decisione Quadro.

5.1. La L. n. 242 del 2016, collocandosi dichiaratamente nell’alveo del settore merceologico, regola e promuove la coltivazione industriale di determinate varietà di canapa, quale coltura in grado di soddisfare le esigenze del settore agro industriale, che involgono la riduzione del consumo dei suoli ed il contrasto alla desertificazione.

Le ricordate indicazioni sulle finalità perseguite dalla L. n. 242 del 2016, contenute nell’art. 1, consentono di effettuare il corretto inquadramento sistematico della materia regolata dalla novella e di definire i suoi rapporti con la vigente disciplina di settore, raccolta nel Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).

La L. n. 242 del 2016, infatti, intende promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della Canapa sativa L. e, a tal fine, ha dettato disposizioni volte a incentivare la coltivazione delle varietà di canapa ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, che si collocano esattamente nell’ambito delle coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o per altri usi industriali. In realtà, dette coltivazioni sono già previste dall’art. 26, comma 2, T.U. stup., il quale già contiene la richiamata eccezione al divieto di coltivazione della canapa nel territorio nazionale. Come si è visto, la norma seleziona le piante la cui coltivazione è vietata, rinviando all’art. 14, comma 1, lett. b), T.U. stup., che, nel dettare i criteri per la formazione delle tabelle, prevede un’eccezione per la “canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali”.

La coltivazione industriale di cannabis sativa L., promossa dalla L. 242 del 2016, rientra, cioè, tra le coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o di altri usi industriali, diversi da quelli farmaceutici, per le quali non opera il divieto di coltivazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26.

Osservano le Sezioni Unite, sulla scorta dei rilievi sin qui svolti, che il sintagma contenuto nella L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2, ove è stabilito che le coltivazioni di cui si tratta “non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, delinea l’ambito dell’intervento normativo, che riguarda un settore dell’attività agroalimentare ontologicamente estraneo dall’ambito dei divieti stabiliti dal T.U. stup. in tema di coltivazioni.

Ciò consente di comprendere appieno, sul piano sistematico, la ragione per la quale la novella non ha effettuato alcuna modifica al dettato del T.U. stup., neppure nell’ambito delle disposizioni che inseriscono la cannabis e i prodotti da essa ottenuti nel delineato sistema tabellare.

Infatti, la novella del 2016 non aveva necessità di effettuare alcuna modifica al disposto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, (che, come sopra rilevato, pure comprende indistintamente la categoria della cannabis) poiché il legislatore del 2016 ha disciplinato lo specifico settore dell’attività della coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell’Unione Europea, attività che non è attinta dal generale divieto di coltivazione, come sancito dal T.U. stup., pure a seguito delle recenti modifiche introdotte all’art. 26, comma 2, T.U. stup., dal ricordato D.L. n. 36 del 2014. Rafforza il convincimento rilevare che l’originaria versione dell’art. 1 limitava l’applicazione della legge alle coltivazioni con percentuale di tetraidrocannabinolo inferiore allo 0,3 per cento e che l’art. 5 prevedeva l’introduzione di una modifica espressa del richiamato art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. stup., con l’indicazione di un limite soglia di principio attivo, superiore allo 0,5 per cento: ma si tratta di previsioni che non si rinvengono nel testo della L. n. 242 del 2016, definitivamente approvato.

Dette considerazioni inducono di riflesso ad attribuire natura tassativa alle sette categorie di prodotti elencate dall’art. 2, comma 2, L. n. 242 del 2016, che possono essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L.: tanto si afferma, atteso che si tratta di prodotti che derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato.

Rafforza il convincimento considerare che la stessa disposizione derogatoria, di cui all’art. 26, comma 2, cit., nel delimitare l’ambito applicativo della ricordata eccezione in cui si colloca l’intervento normativo del 2016, fa espresso riferimento alla finalità della coltivazione, che deve essere funzionale “esclusivamente” alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, “diversi” da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti. Tanto chiarito, si richiama l’elenco dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione delle varietà di canapa di cui si tratta (cannabis sativa L.):

a)alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b)semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c)materiale destinato alla pratica del sovescio;
d)materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e)materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f)coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g)coltivazioni destinate al florovivaismo.

Rilevano le Sezioni Unite che merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che la L. 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.). Invero, la coltivazione di cannabis sativa L. ad uso agroalimentare, promossa dalla L. n. 242 del 2016, è stata utilmente definita sia mediante l’indicazione della varietà di canapa di cui si tratta, sia in considerazione dello specifico ambito funzionale dell’attività medesima, che non contempla l’estrazione e la commercializzazione di alcun derivato con funzione stupefacente o psicotropa. Pertanto, dalla coltivazione di cannabis sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli elencati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, e, in particolare, foglie, inflorescenze, olio e resina. Conclusivamente sul punto, è appena il caso di sottolineare che non si rinviene alcun dato testuale, nè alcuna indicazione di ordine sistematico, come chiarito, che possa giustificare la tesi - che pure è stata espressa - volta far rientrare le inflorescenze della canapa nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.

Per completezza argomentativa ci si sofferma sulle disposizioni contenute nella novella del 2016 che fanno riferimento agli alimenti. Come ora si è chiarito, la legge non consente la produzione di foglie o inflorescenze; di talché risulta escluso che il legislatore, richiamando la produzione di alimenti, abbia fatto riferimento alla assunzione umana di tali derivati. Di converso, l’indicazione, tra i prodotti ottenibili dalla canapa sativa L., di quelli qualificati come alimenti, peraltro da realizzare esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori (L. n. 242 del 2016, art. 2, lett. a), induce a rilevare che il legislatore ha posto a carico del produttore l’obbligo di osservare la rigorosa disciplina che regola il settore alimentare, qualora intenda produrre alimenti derivati dalla canapa, quali semi o farine. Tanto è vero che la novella stabilisce che, con successivo decreto del Ministro della salute, siano definiti i livelli massimi dei meri “residui” di THC ammessi negli alimenti ottenuti dalla canapa (art. 5, L. n. 242, cit.). In tale ambito ricostruttivo, la novella ha coerentemente stabilito (art. 9) che il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali promuova il riconoscimento di un sistema di qualità alimentare per i prodotti derivati dalla canapa, ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1, lett. b) o c), Regolamento U.E. 1305/2013, ove nel definire il sostegno concesso agli agricoltori e alle associazioni di agricoltori, si fa riferimento ai regimi di qualità dei prodotti alimentari, riconosciuti dagli Stati membri. Come si vede, anche le previsioni relative alla produzione di alimenti, lungi dal corroborare l’ipotesi di una generalizzata liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione promossa dalla L. n. 242 del 2016, rafforza la tesi del carattere tassativo e di stretta interpretazione del catalogo dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione della cannabis sativa L.

5.2. Si richiamano ora le clausole di esclusione di responsabilità in favore dell’agricoltore, di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7.

La normativa in esame prevede che vengano effettuati controlli sulle coltivazioni di canapa, rientranti nel delineato settore agroalimentare, mediante il prelevamento di campioni provenienti da colture in pieno campo, ai fini della determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC). La L. n. 242 del 2016, art. 4, comma 5, stabilisce, al riguardo, che, qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, “nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge”; ed il successivo comma 7 prevede che, in caso di superamento del valore soglia dello 0,6 per cento di THC, possano essere disposti il sequestro e la distruzione della coltivazione, per ordine dell’autorità giudiziaria, del pari con esonero di responsabilità in capo all’agricoltore.

Si tratta di misure volte a tutelare esclusivamente l’agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell’ambito della filiera agroalimentare delineata dalla novella del 2016, coltivi canapa che, nel corso del ciclo produttivo, risulti contenere, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo. Il comma 5 stabilisce che, nel primo caso, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge; e il comma 7, nel prevedere la possibilità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6 per cento, ribadisce che, anche in tal caso, è esclusa la responsabilità dell’agricoltore. Si tratta di clausole di esclusione della responsabilità che riguardano il solo coltivatore, che realizza le colture di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 1, per il caso in cui la coltura lecitamente impiantata, in corso di maturazione, presenti percentuali di THC superiori ai valori soglia indicati del medesimo testo normativo del 2106.

Occorre al riguardo rilevare che erroneamente le richiamate percentuali di THC sono state valorizzate, al fine di affermare la liceità dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. - e la loro commercializzazione - ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento.

Sul punto, si deve considerare che ogni condotta di cessione o di commercializzazione di categorie di prodotti, ricavati dalla coltivazione agroindustriale della cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, diversi da quelli tassativamente indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, da un lato è estranea dall’ambito di operatività della predetta legge, dall’altro integra una attività illecita, secondo la generale disciplina contenuta nel T.U. stup..

Segnatamente, le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2, e la realizzazione di prodotti diversi da quelli inseriti nell’elenco di cui all’art. 2, comma 2, L. n. 242 cit., risultano penalmente rilevanti, ai sensi dell’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., che sanziona, oltre alla coltivazione - con l’eccezione di cui all’art. 26, comma 2, sopra ripetutamente evidenziata - la produzione, l’estrazione, la vendita, la cessione, la distribuzione, il commercio, la consegna, la detenzione e altre attività di messa in circolazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla Tabella II, prevista dall’art. 14.

Sul punto, deve sottolinearsi che non assume alcuna rilevanza, al fine di escludere la illiceità della condotta, il mancato superamento delle percentuali di THC di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, atteso che tali valori riguardano esclusivamente il contenuto consentito di THC presente nella coltivazione - e non nei derivati - nell’ambito della specifica attività di coltivazione agroindustriale della canapa, per gli usi consentiti, delineata dalla stessa novella, anche in riferimento alla erogazione dei contributi al coltivatore, secondo la disciplina sovranazionale già sopra ricordata.

Pertanto, la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dalla Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione - foglie, inflorescenze, olio e resina - ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina.

6. Riassumendo le considerazioni sin qui svolte, al fine di dare chiara soluzione alla questione che occupa, si svolgono i rilievi che seguono:
1)la L. n. 242 del 2016 è volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.), coltivazione che beneficia dei contributi dell’Unione Europea, ove il coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse;
2)si tratta di coltivazione consentita senza necessità di autorizzazione ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, (esemplificando: dalla coltivazione della canapa di cui si tratta possono ricavarsi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana);
3)la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016. L’art. 73, cit., incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa gli artt. 13 e 14 T.U. stup.. Pertanto, impiegando il lessico corrente, deve rilevarsi che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti - diversi da quelli espressamente consentiti dalla L. n. 242 del 2016 - derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis tight, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stup..

L’effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che pure si caratterizza per il basso contenuto di THC, vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici.

7. A questo punto della trattazione occorre allora ricordare l’insegnamento giurisprudenziale che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti, oggetto di cessione. Le Sezioni Unite hanno rilevato che, rispetto al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, non rileva il superamento della dose media giornaliera ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856). Successivamente, analizzando la specifica questione afferente alla eventuale inoffensività della cosiddetta coltivazione domestica di cannabis, le Sezioni Unite hanno affermato che è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920). Si tratta di principi recentemente ribaditi dalla Corte Costituzionale, chiamata ad occuparsi della legittimità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, anche nel caso in cui la condotta sia funzionale all’uso personale delle sostanze ricavate (Corte Cost., sent n. 109 del 2016). Il Giudice delle leggi, nel dichiarare non fondata la questione, ha ribadito la validità del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, operante anche sul piano concreto, nel momento in cui il giudice procede alla verifica della rilevanza penale di una determinata condotta.

Nel ribadire i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito delle condotte di cessione di sostanze stupefacenti, rilevanti ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, osservano le Sezioni Unite che ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante (Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, dep. 2016, Mele, Rv. 265976; si veda anche: Sez. 3, n. 47670 del 09/10/2014, Aiman, Rv. 261160, ove si è osservato che il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è configurabile anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di sostanze stupefacenti talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l’assetto neuropsichico dell’utilizzatore; e Sez. 6, n. 8393 del 22/01/2013, Cecconi, Rv. 25485701, ove si è affermato che ai fini della configurabilità del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante).

Si tratta di coordinate interpretative di certo rilievo, nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda inflorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC. Come sopra chiarito, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., infatti, integrano la fattispecie incriminatrice D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73. Ciò nondimeno, si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. Tanto si afferma, alla luce del canone ermeneutico fondato sul principio di offensività, che, come detto, opera anche sul piano concreto, di talché occorre verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione.

In chiusura di trattazione, deve rilevarsi che le asimmetrie interpretative, rispetto all’ambito applicativo della novella del 2016, che stanno alla base del presente intervento nomofilattico, possono pure sortire una ricaduta sull’elemento conoscitivo del dolo del soggetto agente, rispetto alle condotte di commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L., effettuate all’indomani dell’entrata in vigore della novella. Il giudizio sulla inevitabilità dell’errore sul divieto, cui consegue l’esclusione della colpevolezza, secondo il fondante insegnamento del Giudice delle leggi (Corte Cost. sent. n. 364 del 1988) deve essere notoriamente ancorato a criteri oggettivi, quali l’assoluta oscurità del testo legislativo, ovvero l’atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari.

8.In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto:

"La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della L. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività".

9.L’applicazione al caso di specie dei richiamati principi induce a rilevare che il provvedimento impugnato risulta vulnerato dalle dedotte aporie, giacché la valutazione sulla rilevanza penale delle condotte di detenzione finalizzata alla cessione dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., erroneamente, è stata ancorata al superamento dei valori percentuali di THC richiamati alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, laddove detti valori riguardano - esclusivamente - il contenuto consentito di THC presente nella coltivazione e non quello dei prodotti illecitamente commercializzati, come sopra chiarito.
Si impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Ancona, sezione del riesame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Ancona sezione riesame.