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Avvocati con licenza di .. pungere: nessuna diffamazione (Cass. 28558/18)

20 giugno 2018, Cassazione penale

Nel corso di un procedimento giudiziario le parti, sovente, per screditare la tesi avversaria, utilizzano frasi e parole che, in diverso contesto, difficilmente sarebbero tollerate. Ma l’ordinamento ritiene ciò perfettamente fisiologico, atteso che si è in presenza di una contesa - aperta e radicale - tra soggetti aventi interessi contrastanti e che esprimono tesi contrapposte 

Non ogni espressione che crea disappunto è per ciò solo offensiva, né offensiva è automaticamente una espressione sgradevole o pungente

La sussistenza di un reato non può essere ancorata alla sensibilità della presunta persona offesa:  ciò che rileva perché vi sia diffamazione è la obiettiva capacità offensiva, da giudicarsi in base al significato socialmente condiviso delle parole, delle espressioni utilizzate. 

La stessa divulgazione di fatti non veritieri può non determinare automaticamente una lesione, giacché i fatti attribuiti possono risultare anche indifferenti per la reputazione della persona offesa.

Dovere professionale di un avvocato difensore è quello di convincere il giudice della bontà delle proprie tesi, anche ricorrendo ad argomenti strumentali o retorici.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 marzo – 20 giugno 2018, n. 28558
Presidente Guardiano – Relatore Pistorelli

Ritenuto in fatto

1.Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Pavia ha condannato alla sola pena pecuniaria ed al risarcimento del danno C.P. per il reato di diffamazione commesso ai danni di P.C.A. . All’imputato, avvocato, è contestato l’utilizzo, all’interno di una comparsa conclusionale, della frase: "la difesa dell’odierno appellato, con affermazioni denigratorie sulle quali la scrivente difesa, in questa sede, sorvola, vuole far credere...", ritenuta offensiva della reputazione del collega, patrono della parte avversa nella causa in cui la comparsa è stata depositata.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato, a mezzo del proprio difensore, articolando tre motivi.

Con il primo deduce errata applicazione dell’art. 595 c.p., eccependo che La frase incriminata difetterebbe di portata offensiva, non ledendo la reputazione del P. e non attribuendogli alcun fatto socialmente disdicevole. Nella propria comparsa conclusionale l’imputato lamentava del resto unicamente di essere stato oggetto di una denigrazione, non riferendosi direttamente alla persona del P. , bensì esprimendo un giudizio sul contenuto degli atti difensivi di parte avversa, né il linguaggio utilizzato risulterebbe lesivo dell’onorabilità professionale del collega.

Con il secondo motivo si lamenta ancora errata applicazione di legge in relazione al mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 598 c.p.. Anche volendo ammettere che la frase incriminata abbia portata offensiva, infatti, essa riguarderebbe l’oggetto della causa e sarebbe funzionalmente collegata allo sviluppo della tesi difensiva. Del pari, i restanti presupposti dell’esimente in discorso sarebbero stati tutti positivamente integrati, non rientrando tra gli stessi quello della veridicità del fatto attribuito.

Con il terzo motivo si deduce infine analoga violazione in riferimento all’ulteriore esimente di cui all’art. 599 c.p. Il C. avrebbe reagito - con immediatezza - ad una provocazione della controparte ed in particolare all’accusa di aver unilateralmente confezionato dei documenti in accordo con il proprio assistito.
3. Con memoria depositata il 6 marzo 2018 la parte civile ha richiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.

2. Va in primo luogo correttamente qualificata l’impugnazione come ricorso per saltum ex art. 569 c.p.p. Infatti all’imputato è consentito di appellare le sentenze del giudice di pace con condanna alla pena pecuniaria quando esse contengano anche la condanna al risarcimento del danno derivante dal reato, pur se tale statuizione venga resa in forma generica o non venga, come nel caso di specie, direttamente investita dall’impugnazione, bensì solo estensivamente ex art. 574 comma 4 c.p.p. (ex multis Sez. 5, n. 42779 del 23 settembre 2016, Rossi, Rv. 267958). Ciò non toglie che lo stesso conservi anche il diritto di ricorrere direttamente per cassazione ai sensi del citato art. 569 qualora, come nel caso di specie, si limiti a prospettare unicamente violazioni di legge. Diritto che, ai sensi del terzo comma dell’art. 571 c.p.p., spetta in maniera autonoma anche al suo difensore, senza necessità che quest’ultimo venga all’uopo investito con procura speciale, talché manifestamente infondata è l’eccezione proposta con la memoria della parte civile.

3. Ciò premesso deve ritenersi fondato il primo motivo di ricorso con il quale si lamenta l’atipicità del fatto - e non tanto vizi motivazionali della sentenza impugnata, come eccepito dalla parte civile - ed il cui accoglimento determina l’assorbimento delle ulteriori doglianze del ricorrente.

3.1 Secondo l’elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 201054). In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta è l’opinione sociale del "valore" della persona offesa dal reato.

3.2 La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione. È dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. In tal senso, nel caso di specie, è innanzi tutto da escludere che la terminologia utilizzata dall’imputato abbia prodotto una concreta lesione dell’interesse tutelato dalla norma, specie alla luce dell’evoluzione dei costumi sociali nel presente contesto storico, caratterizzato dalla tolleranza di un inasprimento della dialettica processuale.

3.3 A riguardo questa Corte ha stabilito che la sussistenza di un reato non può essere ancorata alla sensibilità della presunta persona offesa, mentre ciò che rileva, oltre al dolo generico dell’agente, è la obiettiva capacità offensiva - da giudicarsi in base al significato socialmente condiviso delle parole - delle espressioni utilizzate. Non ogni espressione che crea disappunto è per ciò solo offensiva, né offensiva è automaticamente una espressione sgradevole o pungente.

E peraltro nel corso di un procedimento giudiziario le parti, sovente, per screditare la tesi avversaria, utilizzano frasi e parole che, in diverso contesto, difficilmente sarebbero tollerate. Ma l’ordinamento ritiene ciò perfettamente fisiologico, atteso che si è in presenza di una contesa - aperta e radicale - tra soggetti aventi interessi contrastanti e che esprimono tesi contrapposte (cfr in motivazione Sez. 5., n. 10188 del 16 febbraio 2011, Vitalone, non massimata, laddove l’aggettivo "ridicolo" riferito all’argomentare di controparte non è stata ritenuta espressione integrante gli estremi degli artt. 594 o 595 c.p.).Ancora, la stessa divulgazione di fatti non veritieri può non determinare automaticamente una lesione, giacché i fatti attribuiti possono risultare anche indifferenti per la reputazione della persona offesa (cfr. in motivazione Sez. 5., n. 4672/2017 del 24 novembre 2015, Fiaschetti).
3.5 Nella fattispecie la frase contestata si esaurisce in un giudizio critico, aspro ed al più scortese, in merito alle osservazioni contenute nello scritto di controparte ed espresso attraverso una forma espositiva non sovrabbondante e priva di accenti oggettivamente indicativi della volontà di aggredire la persona del patrono di controparte, sulle cui qualità morali o intellettuali non viene espresso alcun effettivo giudizio e che avrebbero potuto concretare una offesa penalmente rilevante, peraltro eventualmente scriminata dall’art. 51 c.p. o non punibile in ragione dell’art. 598 c.p.. E neppure la sua divulgazione ha assunto implicazioni lesive dell’onorabilità professionale del P. avuto riguardo al contesto processuale in cui la frase è stata spesa e si è inserita.
3.6 Lo stesso aggettivo "denigratorie" è associato nel testo alle affermazioni di controparte e non colpisce, quindi, direttamente la persona del loro autore, con neutralizzazione della sua astratta carica dispregiativa. Mentre l’intento attribuito di "voler far credere" determinati fatti attraverso il proprio scritto difensivo si risolve in una censura neutra se diretta ad un avvocato avversario.

Dovere professionale di quest’ultimo è infatti per l’appunto quello di convincere il giudice della bontà delle proprie tesi, anche ricorrendo ad argomenti strumentali o retorici, sicché non è dato sapere come possa l’attribuzione di una tale volontà integrare un’offesa alla altrui reputazione. In altri termini le espressioni impiegate non posseggono, attesa pure la nota di relatività e variabilità storica dei parametri che vengono in rilievo, quella valenza denigratoria, screditante ed inutilmente aggressiva che costituisce il necessario presupposto della tipicità del reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.