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Articolo senza nome e diritto di cronaca (Cass. 52743/17)

31 ottobre 2017, Cassazione penale e Nicola Canestrini

La pubblicazione di un articolo senza nome, e quindi senza l’indicazione della persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie e delle valutazioni in esso contenute, comporta l’attribuzione dell’articolo al direttore responsabile, per la sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto diffamatorio.

La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte. Specificamente in tema di cronaca giudiziaria è stata affermata la liceità della diffusione della notizia di un provvedimento giudiziario, ma non l’utilizzazione delle informazioni da esso desumibili per effettuare ricostruzioni o ipotesi giornalistiche autonomamente offensive, giacché, in tal caso, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e non può certo esibire il provvedimento giudiziario quale unica fonte di informazione e di legittimazione dei fatti riferiti.

 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 settembre – 20 novembre 2017, n. 52743

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 18/5/2016 il Tribunale di Palermo ha dichiarato A.G. responsabile del reato di cui agli artt.110 e 595, comma 3, cod.pen. in danno di C.G. e, concessegli le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata recidiva, lo ha condannato alla pena di Euro 800,00 di multa, oltre alle spese processuali, ordinando la sospensione della pena per anni cinque, subordinata alla prestazione di attività non retribuita presso l’Opera (omissis) per giorni 60, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, liquidati in Euro 15.000,00 e alla refusione delle spese di costituzione.
A.G. era accusato di aver pubblicato, in concorso con l’autore rimasto ignoto, sul giornale diffuso on line "(omissis) ", di cui era direttore, un articolo offensivo e denigratorio della reputazione di C.G. , consigliere della Corte dei Conti di Palermo, dal titolo "Banca Dati Regione, 5 mln Euro in fumo", riferendosi alla sentenza n.2881/11 della quale il Consigliere C. era stato relatore ed estensore, stigmatizzando condotte negligenti, omissive e parziali, mediante affermazioni allusive e asserzioni non riscontrate negli atti.
2. Ha proposto ricorso ex art.569 e 606 cod.proc.pen. nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia, avv. Stefano Giordano del Foro di Palermo, avverso la sentenza del 18/5/2016, nonché avverso la precedente ordinanza del 17/12/2014 con cui era stata respinta la proposta eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio ex art. 552, comma 1, lett. c), cod.proc.pen., svolgendo sei motivi.
2.1. Con il primo motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett.b), cod.proc.pen., il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento agli artt.110 e 595 cod.pen., nonché all’art.27, comma 1, Cost. in relazione all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Mancava qualsiasi elemento per ritenere che l’A. , direttore della pubblicazione on line, avesse dato il proprio consenso o la propria meditata adesione al contenuto dello scritto, tanto più che l’articolo era stato pubblicato proprio il primo giorno di uscita della rivista; inoltre non era stato illustrato il tema dell’animus attribuito a titolo di concorso all’A. , neppur specificando la sua natura morale o materiale.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile al direttore di periodico on line la responsabilità colposa per omesso controllo ex art.57 cod.pen., era andato oltre il portato di tale norma, finendo con l’attribuire all’A. una vera e propria responsabilità oggettiva in relazione al reato contestato.
2.2. Con il secondo motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. c), cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione dell’art.192 cod.proc.pen. in relazione all’affermazione della penale responsabilità, essendosi il Tribunale basato solo su petizioni di principio totalmente avulse da qualsiasi fondamento probatorio.
2.3. Con il terzo motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento agli artt. 51 e 59 cod.pen. in relazione all’esercizio, perlomeno putativo, del diritto di cronaca.
A fronte del richiamo effettuato dall’articolista a precise fonti informative (documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza e puntuale relazione del P.M.), il direttore era esonerato dal controllare, ulteriormente e personalmente, le fonti richiamate, rinnovando la fatica dell’articolista.
2.4. Con il quarto motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. c), cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge processuale in ragione dell’erroneo rigetto della proposta eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, disposto con ordinanza del 17/12/2014.
L’art. 552, comma 1, cod.proc.pen., come del resto l’art.6, comma 3, CEDU, esige una informazione dettagliata e precisa della natura e dei motivi dell’accusa formulata, mentre il capo di imputazione, riportando il contenuto dell’intero articolo, non specificava le affermazioni concretamente lesive dell’onore e della reputazione della persona offesa; ne conseguivano genericità e indeterminazione, lesive del diritto di difesa.
2.5. Con il quinto motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale e in particolare degli artt.135 e 165, comma 1, cod.pen. in relazione alla subordinazione della sospensione condizionale della pena. La sospensione poteva infatti essere condizionata alla prestazione di attività non retribuita, ma solo per un tempo non superiore all’entità della pena sospesa, mentre la pena pecuniaria di Euro 800, se debitamente ragguagliata, equivaleva a poco più di tre giorni di pena detentiva.
Il ricorrente opina quindi che il Tribunale sia incorso in clamoroso abbaglio commisurando la durata della prestazione non retribuita alla conversione dell’entità della somma liquidata a titolo risarcitorio.
2.6. Con il sesto motivo, proposto ex art.606, comma 1, lett. b) e c), cod.proc.pen. il ricorrente denuncia violazione della legge penale sostanziale e processuale con riferimento agli artt. 2697, 2056, 1226 cod.civ. e 192 cod.proc.pen. in relazione alla liquidazione del danno alla parte civile.
Il danno non poteva essere accertato e liquidato in re ipsa, ma presupponeva l’assolvimento da parte del richiedente degli oneri di deduzione e prova in riferimento al pregiudizio patito; la parte civile nulla aveva allegato e provato e la liquidazione equitativa presupponeva a priori la prova dell’esistenza ontologica di un danno, rimasto invece indimostrato nell’an.
3. La parte civile, dott. C.G. , a mezzo del difensore e procuratore speciale avv. Massimo Tricorni, ha depositato il 7/6/2017 una memoria difensiva, chiedendo il rigetto del ricorso, analiticamente contestato in tutti i suoi sei motivi, con rifusione delle spese come da notula allegata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è proposto per saltum ai sensi degli artt. 569 e 606 cod.proc.pen.: non sono quindi consentite censure inerenti a vizi motivazionali, in forza del comma 3 dell’art.569 cod.proc.pen. e del resto il ricorrente deduce con i propri motivi solamente violazioni della legge penale sostanziale o processuale.
2. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento agli artt.110 e 595 cod.pen., nonché all’art.27, comma 1, Cost., in relazione all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Secondo il ricorrente mancava qualsiasi elemento per ritenere che A.G. , direttore della pubblicazione on line, avesse dato il proprio consenso o la propria meditata adesione al contenuto dello scritto, tanto più che l’articolo era stato pubblicato proprio il primo giorno di uscita della rivista; inoltre non era stato illustrato adeguatamente il tema dell’animus attribuito a titolo di concorso all’A. , poiché il Tribunale non aveva neppur specificato la sua natura morale o materiale.
Il Tribunale, pur ritenendo inapplicabile al direttore di periodico on line la responsabilità colposa per omesso controllo ex art. 57 cod.pen., sarebbe andato addirittura oltre la severa responsabilità sancita da tale norma, finendo con l’attribuire all’A. una vera e propria responsabilità oggettiva in relazione al reato contestato.
2.1. Il motivo non coglie il segno, poiché non si confronta con la struttura portante dell’apparato logico motivazionale della pronuncia impugnata, il cui fulcro, non sfiorato dalla critica proposta, è costituito dalla natura anonima dello scritto diffamatorio, pubblicato con attribuzione allo pseudonimo (omissis) , mai disvelato.
Non viene quindi in rilievo la responsabilità del direttore per il reato di omesso controllo, ex art. 57 cod. pen., sistematicamente esclusa dalla giurisprudenza di questa Corte, orientata in tal senso per la non riconducibilità dell’attività on-line nel concetto di stampa periodica ex art.1 legge 8/2/1948 n. 47, nonché, eventualmente, anche per l’impossibilità per il direttore della testata on-line di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori "postati" direttamente dall’utenza (Sez. 5, n. 10594 del 05/11/2013 - dep. 2014, Montanari e altri, Rv. 259888; Sez. 5, n. 44126 del 28/10/2011, Hamaui ed altro, Rv. 251132; Sez. 5, n. 35511 del 16/07/2010, Brambilla, Rv. 248507).
Il Tribunale ha invece fondato la responsabilità del direttore A. sulla circostanza della pubblicazione dell’articolo in forma anonima, poiché l’autore dell’articolo ritenuto diffamatorio (con valutazione in questa sede neppur contestata sotto il profilo oggettivo) si era celato sotto lo pseudonimo "(omissis) " (protagonista de "(omissis) " di G.M.G. ) ed ha al proposito affermato che l’articolo non firmato, in assenza di diverse allegazioni, deve considerarsi di produzione redazionale ed è quindi riferibile al direttore della redazione, nella specie coincidente con il direttore responsabile del mensile.
2.2. Il direttore del periodico è stato chiamato quindi a rispondere dello scritto diffamatorio, pur predisposto da altri, sulla base del diverso titolo di responsabilità concursuale.
Tale responsabilità appare configurabile allorché, sulla base di un complesso di circostanze esteriori, consti il consenso e la meditata adesione del direttore al contenuto dello scritto che egli è tenuto a controllare, tanto più allorché la pubblicazione avvenga in forma anonima o con il ricorso a pseudonimi, e quindi con artifici oggettivamente idonei a permettere all’autore di sottrarsi alle conseguenze della propria condotta di carattere diffamatorio.
2.3. L’art.9 del codice civile tutela lo pseudonimo come segno identificativo della personalità dell’individuo, al pari del nome della persona, a patto che ne abbia acquisito la medesima importanza.
La disciplina civilistica, contenuta soprattutto nella legge sul diritto d’autore (legge 22/4/1941 n.633 e successive modifiche e integrazioni), considera la possibilità che l’opera sia pubblicata in forma anonima o con l’utilizzo di pseudonimi, distinguendo l’ipotesi dello pseudonimo o nome d’arte notoriamente conosciuto come equivalente al nome vero (art.8, comma 2) da quella dello pseudonimo incognito, equivalente all’anonimo (art.9 e 21, 27, 28), e comunque riconoscendo all’autore effettivo la titolarità del diritto e la facoltà imprescrittibile di rivelarsi.
La disciplina civilistica non considera il profilo della responsabilità connessa alla pubblicazione, che va quindi ricostruita secondo le regole generali, e tuttavia reca una suggestiva traccia interpretativa, allorché nell’art. 9 predetto, quanto agli pseudonimi anonimizzanti, attribuisce a colui che abbia rappresentato, eseguito o comunque pubblicato un’opera anonima o pseudonima, la legittimazione a far valere i diritti dell’autore, finché questi non si sia rivelato, quale mandatario ex lege, e così ascrivendo un ruolo pregnante al soggetto conosciuto, resosi autore della pubblicazione.
2.4. È su tali presupposti che questa Corte, chiamata a valutare l’uso dello pseudonimo sotto il diverso profilo della responsabilità conseguente alla pubblicazione dell’opera, ha affermato che la sostituzione nominativa attuata con il ricorso allo pseudonimo (priva, di regola, di diretta rilevanza penale) la può acquisire, nella diffamazione a mezzo stampa, nei confronti della posizione del direttore responsabile, del direttore editoriale e dell’editore, ove l’alias sia utilizzato dall’autore per sottrarsi alla negative conseguenze della ideazione e diffusione di fatti non veri e delle correlate valutazioni, ingiustificatamente offensive.
La pubblicazione di un articolo senza nome, e quindi senza l’indicazione della persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie e delle valutazioni in esso contenute, comporta l’attribuzione dell’articolo al direttore responsabile, per la sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto diffamatorio.
È stato pertanto condivisibilmente osservato che la configurazione del reato ex artt. 110 e 595 c.p., e non del reato ex art. 57 c.p., corrisponde alla razionale esigenza di non creare - in sede interpretativa - una sorta di zona franca e l’abrogazione di fatto dell’art. 595 c.p., nella fattispecie della diffamazione commessa con nom de piume.
Tale orientamento interpretativo è pienamente conforme non solo ai principi costituzionali e alla normativa penalistica, ma anche alla specifica disciplina legislativa e contrattuale secondo cui il direttore responsabile - trait d’union fra redazione ed editore - ha il diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia rispetto all’editore, e ha la facoltà di operare tagli, modifiche, integrazioni sul testo scritto del giornalista, salvo il diritto di quest’ultimo di non firmare l’articolo se non condivide le modifiche apportate.
Di conseguenza, il direttore di un periodico risponde del reato di diffamazione - e non di quello meno grave di omesso controllo previsto dall’art. 57 c.p. - per la pubblicazione di un articolo lesivo dell’onore e della reputazione altrui, l’identità del cui autore è rimasta celata dietro lo pseudonimo utilizzato per firmarlo, qualora da un complesso di circostanze esteriorizzate nella pubblicazione del testo (come la forma, l’evidenza, la collocazione tipografica, i titoli, le illustrazioni e la correlazione dello scritto con il contesto culturale che impegna e caratterizza l’edizione su cui compare l’articolo) possa dedursi il suo meditato consenso alla pubblicazione dell’articolo medesimo nella consapevole adesione al suo contenuto, tanto da far ritenere per l’appunto che la suddetta pubblicazione rappresenti il frutto di una scelta redazionale (Sez. 5, n. 41249 del 26/09/2012, S. e altro, Rv. 253752).
Analogamente è stato affermato che "In tema di diffamazione a mezzo stampa, è legittima la decisione con cui il giudice di merito dichiari responsabile di diffamazione il direttore di un mensile a tiratura limitata ed esclusivamente locale, in ordine alla pubblicazione di un articolo non firmato, in quanto, in assenza di diversa allegazione, esso deve considerarsi di produzione redazionale, riferibile al direttore redazionale, nella specie, investito anche della funzione di direttore responsabile del mensile". (Sez. 5, n. 43084 del 10/10/2008, Rv. 242598, Monaco e altro; nella citata pronuncia, significativamente, si attribuisce in tale prospettiva rilievo dirimente al possesso da parte dell’imputato della qualità di direttore redazionale e non solo di direttore responsabile della pubblicazione, così motivando la diversa soluzione accolta rispetto alla precedente sentenza della Sez. 5, n. 29410 del 09/05/2007, Rinaldi Tufi, che, riferendosi invece al direttore di un settimanale nazionale a larghissima tiratura, non consentiva l’operare di analoga presunzione).
Non sussiste alcuna incertezza sul titolo della responsabilità concorsuale, inequivocabilmente fondata sul concorso materiale nella pubblicazione dell’articolo, avvenuta in forma sostanzialmente anonima, per una precisa scelta redazionale avallata consapevolmente dal direttore.
Non può essere accolta infine la richiesta della Procura generale, che, senza contestare in linea di diritto i principi giuridici sopra ricordati e applicati dal Tribunale palermitano, ravvisa inadeguatezza della motivazione in punto adesione del direttore al contenuto dell’articolo, da valutarsi in concreto in relazione al contesto operativo e allo "spessore" della comunicazione censurata: da un lato, e in via di per sé assorbente, l’impugnazione è stata proposta per saltum per denunciare violazione di legge e non vizio motivazionale, dall’altro dall’esame complessivo della motivazione della sentenza impugnata emergono significativi elementi che colorano e qualificano la condotta del direttore A. (si trattava della prima uscita della pubblicazione; l’autore dell’articolo si proteggeva dietro ad uno pseudonimo; lo scritto attaccava pesantemente, accusandolo di faziosa partigianeria e di grave scorrettezza professionale, un magistrato della Corte dei Conti nell’esercizio delle sue funzioni; le fonti, citate nell’articolo, da cui era stata erroneamente la notizia diffamatoria erano agevolmente controllabili).
3. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia violazione della legge processuale penale e in particolare dell’art. 192 cod.proc.pen. in relazione all’affermazione della penale responsabilità, rimproverando al Tribunale di essersi basato solo su petizioni di principio totalmente avulse da qualsiasi fondamento probatorio.
La doglianza è assolutamente generica e, sotto il sembiante di una censura attinente ad un preteso error in procedendo, si risolve in una recriminazione, comunque del tutto aspecifica, diretta contro l’apparato motivazionale della sentenza impugnata, non consentita in caso di ricorso immediato in Cassazione.
È infatti inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. se è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto. (Sez. 6, n. 13442 del 08/03/2016, De Angelis e altro, Rv. 266924; Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, P.C., Basile e altri, Rv. 258153).
La specificità dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen., dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l’ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che tale norma possa essere dilatata per effetto delle regole processuali concernenti la motivazione, attraverso l’utilizzazione del vizio di violazione di legge di cui alla lettera c)- dello stesso articolo. E ciò, sia perché la deducibilità per cassazione è ammessa solo per la violazione di norme processuali stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, sia perché la puntuale indicazione di cui al punto e) ricollega ai limiti in questo indicati ogni vizio motivazionale; sicché il concetto di mancanza di motivazione non può essere utilizzato sino a ricomprendere ogni omissione od errore che concernano l’analisi di determinati, specifici elementi probatori. (Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998 - dep. 1999, Condello e altri, Rv. 212248).
4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale con riferimento agli artt. 51 e 59 cod.pen. in relazione all’esercizio, perlomeno putativo del diritto di cronaca.
4.1. In linea pregiudiziale occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di diffamazione a mezzo stampa, le esimenti del diritto di critica e del diritto di cronaca, non possono essere invocate dall’autore di uno scritto anonimo (o sotto pseudonimo, se resti non identificabile l’effettivo autore), in quanto l’anonimato non consente di verificare la necessaria correlazione tra l’esercizio d’un diritto ed il soggetto che di quel diritto è titolare. (Cassazione civile, sez. VI, 10/10/2013, n. 23042).
4.2. Il ricorrente sostiene che a fronte del richiamo effettuato dall’articolista a precise fonti informative (documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza e puntuale relazione del P.M.) il direttore sarebbe stato esonerato dal controllare, ulteriormente e personalmente, le fonti richiamate, rinnovando la fatica dell’articolista.
In ogni caso, anche a prescinder da quanto rilevato sub § 4.1., l’esclusione della scriminante del diritto di cronaca è stata ampiamente motivata nella sentenza impugnata sulla base del fatto che le circostanze esposte nell’articolo, oltretutto in modo allusivo e denigratorio, erano risultate totalmente prive di fondamento, poiché il dott.C. aveva redatto la sentenza in questione sulla base degli elementi contenuti nel fascicolo processuale a sua disposizione.
L’esimente a titolo putativo non può essere riconosciuta sia per il tono dell’articolo, ritenuto dal Giudice del merito di per sé allusivo e insinuante, sia soprattutto per il fatto che l’A. riconosce di non aver esercitato alcun controllo sul contenuto di un articolo recante pesanti insinuazioni sul comportamento professionale di un magistrato contabile, pubblicato sotto pseudonimo, accettando il rischio di lederne la reputazione, non potendosi trincerare sull’esistenza, solo genericamente indicata di fonti informative, rivelatesi del tutto inconsistenti in rapporto alla notizia pubblicata e ai suoi commenti.
L’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria può essere invocata in caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative, non solo se egli abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti (Sez. 5, n. 27106 del 09/04/2010, Ciolina, Rv. 248032). Infatti, l’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria non può essere affermata in ragione del presunto elevato livello di attendibilità della fonte se il giornalista non ha provveduto a sottoporre al dovuto controllo la notizia (Sez. 5, n. 23695 del 05/03/2010, Brancato, Rv. 247524).
La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte. Specificamente in tema di cronaca giudiziaria è stata affermata la liceità della diffusione della notizia di un provvedimento giudiziario, ma non l’utilizzazione delle informazioni da esso desumibili per effettuare ricostruzioni o ipotesi giornalistiche autonomamente offensive, giacché, in tal caso, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e non può certo esibire il provvedimento giudiziario quale unica fonte di informazione e di legittimazione dei fatti riferiti (Sez. 11/03/2005, Scalfari ed altro, Rv. 232134).
4.3. Nella specie la notizia posta a fondamento dell’articolo era obiettivamente falsa; il direttore che ha pubblicato la notizia, consentendo all’autore di celarsi dietro lo pseudonimo, non ha dimostrato, né allegato di aver effettuato alcuna verifica o controllo; non è dimostrato neppure che i controllo li abbia eseguiti l’ignoto articolista, che mostra di basarsi su tutti i documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza, comunque indicati in modo sommamente generico, e sulla "puntuale relazione " del P.M. Gianluca Albo, atti che invece, stando a quanto accertato dal giudice del merito e neppur contestato specificamente dal ricorrente, non contenevano affatto quel nominativo del figlio del Presidente Brancato, che, secondo l’ignoto articolista, il Consigliere C. avrebbe maliziosamente omesso.
I controlli e le verifiche labilmente assunti, quindi, non sono stati eseguiti né dal direttore A. , né dall’ignoto "(omissis) ".
5. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione della legge processuale in ragione dell’erroneo rigetto della proposta eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio, disposto con ordinanza del 17/12/2014.
Secondo il ricorrente, l’art. 552, comma 1, cod.proc.pen. e l’art. 6, comma 3, CEDU esigono una informazione dettagliata e precisa della natura e dei motivi dell’accusa formulata, mentre il capo di imputazione, riportando il contenuto dell’intero articolo, non specificava le affermazioni concretamente lesive dell’onore e della reputazione della persona offesa; di qui genericità e indeterminazione dell’imputazione, lesive del diritto di difesa.
La doglianza è manifestamente infondata: il capo di imputazione trascrive buona parte dell’articolo ritenuto diffamatorio, riportando anche una serie di affermazioni e notizie preliminari, utili a calare il lettore nel contesto dell’accusa, non troppo velata, di partigiano favoritismo mossa al Consigliere C. per aver volutamente "censurato" il nominativo del figlio di un presidente di sezione della stessa Corte dei Conti dall’elenco dei soggetti formati e poi coinvolti nella attività della banca dati interessata dalla vicenda.
La completezza (e semmai la parziale ridondanza, comunque del tutto relativa) della contestazione non può risolversi in indeterminazione e genericità dell’addebito, per di più pregiudizievole del diritto di difesa, non essendo per nulla disagevole cogliere nel complesso dell’articolo trascritto i passaggi relativi alla persona del consigliere C.G. , espressamente indicati come lesivi della sua reputazione.
6. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale e in particolare degli artt.135 e 165, comma 1, cod.pen. in relazione al provvedimento di subordinazione della sospensione condizionale della pena.
A suo dire, infatti, la sospensione avrebbe potuto essere condizionata alla prestazione di attività non retribuita da parte dell’imputato, ma solo per un tempo non superiore all’entità della pena sospesa, mentre la pena pecuniaria di Euro 800,00, debitamente ragguagliata ex art. 135 cod.pen., equivaleva a poco più di tre giorni di pena detentiva.
Il ricorrente congettura inoltre che il Tribunale sia incorso in clamoroso abbaglio commisurando la durata della prestazione non retribuita alla conversione dell’entità della somma liquidata a titolo risarcitorio.
La censura è infondata: il parametro di conversione di cui all’art. 135 cod.pen. fra pene detentive e pene pecuniarie non viene in considerazione ai fini dell’art. 165 cod.pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), della legge 11/6/2004 n. 145.
Vale infatti in proposito il disposto dell’art. 18 bis del r.d. 28/5/1931 n.601 (recante Disposizioni di coordinamento e transitorie per il Codice penale), inserito nel corpo del decreto dall’art. 5 della stessa legge 145/2004, che impone l’applicazione, ove compatibili, delle disposizioni di cui agli art. 44, 54, commi 2, 3, 4, 6, e 59 del d.lgs. 28/8/2000 n. 274.
La regola di cui al novellato art. 165 cod.pen., secondo cui la prestazione non retribuita non può aver durata superiore alla pena sospesa, vale solo per le pene detentive e non già per le pene pecuniarie, per cui operano i parametri quantitativi fissati dall’art. 54 d.lgs. 274/2000.
È quindi superfluo osservare che l’accoglimento dell’infondata tesi del ricorrente porterebbe semplicemente a rendere inapplicabile la sospensione condizionale in tutti i casi in cui la pena pecuniaria è inferiore ai 2.500 Euro (pari alla conversione in 10 giorni di pena detentiva), visto il disposto del comma 2 del citato art.54 d.lgs.274/2000 (per il quale il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a 10 giorni, né superiore a 6 mesi), e comunque a renderla inapplicabile nel caso di specie, con il conseguente difetto di interesse ad impugnare sul punto del ricorrente.
7. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione della legge penale sostanziale e processuale con riferimento agli artt.2697,2056, 1226 cod. civ. e 192 cod.proc.pen. in relazione alla liquidazione del danno alla parte civile.
Il ricorrente puntualizza che il danno non avrebbe potuto essere accertato e liquidato in re ipsa e presupponeva l’assolvimento da parte del richiedente degli oneri di deduzione e prova in riferimento al pregiudizio patito; la parte civile nulla aveva allegato e provato e la liquidazione equitativa presupponeva a priori la prova dell’esistenza ontologica di un danno, rimasto invece indimostrato nell’an.
Il motivo è infondato.
Come ricorda la parte civile nella sua memoria difensiva, il dott.C. non si era sottratto all’onere di allegazione del pregiudizio che gli incombeva, prospettando sia l’immediata diffusione della notizia nel suo ambiente lavorativo e professionale, sia l’impossibilità di ottenere una tempestiva rettifica in difetto di indicazioni di qualsiasi genere sul sito ove era stato pubblicato l’articolo incriminato.
Inoltre lo scritto diffamatorio era stato diffuso presso una serie indeterminata di soggetti, stante la sua divulgazione via Internet.
La parte civile aveva infine allegato sia lo screditamento della persona offesa, con l’accusa di parzialità e negligenza, sia la lesione della sua immagine sociale e professionale.
A fronte di questi elementi, puntualmente dedotti dalla parte civile e comunque desumibili dagli atti, la quantificazione del pregiudizio in termini economici è stata effettuata legittimamente dal giudice, avvalendosi del potere di liquidazione equitativa prevista dalla legge, per sua natura discrezionale, insindacabile in sede di legittimità, per giunta con ricorso immediato per violazione di legge.
8. Il ricorso va quindi respinto; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. al pagamento delle spese del procedimento, oltre al rimborso delle spese in favore della parte civile C.G. , liquidate in complessivi Euro 1.800,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 1.800,00, oltre accessori come per legge.