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Agenti provocatori e detenzione ai fini di spaccio (Cass. pen., 20238/14)

15 maggio 2014, Cassazione penale

In tema di repressione di traffico degli stupefacenti, l'intervento degli agenti provocatori, quando sia determinante per la commissione del reato, se utilizzato nel processo penale, può falsare irrimediabilmente il carattere equo del processo.

Ciò, invece, deve escludersi quando risulti che l'indagato è pronto a commettere la violazione anche in mancanza dell'intervento degli agenti di polizia, i quali si limitano a disvelare un'intenzione criminale esistente, ma allo stato latente, fornendo al ricorrente l'occasione di concretizzarla. In altri termini, mentre non lede il diritto all'equo processo l'intervento della polizia giudiziaria (suscettibile di utilizzazione probatoria in ambito processuale) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 febbraio ? 15 maggio 2014, n. 20238
Presidente Gentile ? Relatore Di Nicola

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Potenza, con sentenza emessa in data 5 aprile 2013, in riforma della sentenza del Tribunale di Melfi in data 16 luglio 2012, riconosciute a B.G. le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni due mesi otto di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa, confermando nel resto l'impugnata sentenza e dunque anche la statuizione di condanna per da B.N. alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 17.333,34 di multa.
Agli imputati si rimproverava il reato p. e p. dagli artt. 110 cod. pen. e 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere, in concorso tra loro, detenuto illegalmente, occultata sotto le tegole di una tettoia della propria abitazione, grammi 30 di eroina e bilancino di precisione, utilizzato per lo spaccio della detta sostanza, il fatto commettendo in (omissis) ed al solo B.N. il reato p. e p. dagli artt. 56 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990, per avere detenuto ai fini di spaccio grammi 5 circa di sostanza stupefacente del tipo eroina che tentava di spacciare, dopo che era stato contattato da un agente provocatore, non riuscendo nel suo intento perché, insospettitosi, gettava la sostanza mentre sopraggiungevano i militari che procedevano al suo arresto ed il fatto commettendo in (omissis) .
La Corte territoriale è pervenuta a tale conclusione condividendo la ratio decidendi della decisione impugnata, precisando come i Carabinieri della stazione di Lavello - a seguito di una notizia confidenziale, con la quale veniva segnalato che i consumatori di eroina del posto si rifornivano di tale sostanza da uno spacciatore di nazionalità moldava abitante a (?) - fissarono un appuntamento con il presunto spacciatore presso un'area di servizio.
Quest'ultimo, identificato in B.N. , si presentò sul luogo concordato e - mentre si apprestava a consegnare al simulato acquirente un involucro contenente una sostanza solida, successivamente risultata essere eroina pura del peso di circa grammi 4,63 - intervennero gli altri agenti, i quali trassero in arresto il predetto che, nella circostanza, tentò di disfarsi dell'involucro.
Subito dopo i Carabinieri eseguirono una perquisizione domiciliare nell'abitazione di B.G. , fratello di N. , con il quale coabitava, e nel sottotetto rinvennero, oltre ad un bilancino di precisione, occultato dietro un vaso sistemato vicino ad un muro, un involucro avvolto da un nastro adesivo, posto al di sotto di una tegola del tetto di copertura, contenente sostanza stupefacente del tipo eroina del peso di gr. 27,60.
2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza (i cui motivi di gravame saranno enunciati ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente necessari per la redazione della motivazione) ricorrono per cassazione a mezzo dei rispettivi difensori B.N. e G. .
2.1. B.N. affida il gravame ad un unico motivo con il quale lamenta erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 62 bis cod. pen. e vizio di motivazione sul rilievo che la Corte territoriale abbia omesso di pronunziare, ovvero abbia reso una motivazione solo apparente, sul motivo di appello col quale il ricorrente censurava la motivazione del Tribunale circa la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Si assume come la Corte di appello si sia limitata - eludendo l'obbligo della motivazione, particolarmente stringente nella specie in considerazione della espressa doglianza mossa con i motivi di gravame - a ripetere la previsione legislativa, secondo la quale la sola incensuratezza non consente l'applicazione dell'attenuante, senza spiegare le ragioni del diniego e senza prendere espressamente posizione sulle censure sollevate con i motivi di impugnazione.
2.2. Nell'interesse di B.G. sono stati presentati due ricorsi.
2.2.1. Il primo, per avv. Vito Barbuzzi, è affidato ad un unico motivo di gravame con il quale si deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.).
Si assume che la sentenza impugnata risulta viziata con riferimento agli elementi indispensabili per la configurabilità del concorso del ricorrente nel reato contestato di detenzione della sostanza stupefacente ed affetta da error in iudicando in ordine all'applicazione dei criteri di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen., otre ad essere affetta da illogicità e contraddittorietà della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.).
2.2.2. Il secondo ricorso, per avv. Giorgio Cassotta, è affidato a quattro motivi con i quali si deduce la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) sul rilievo della mancanza dei presupposti legislativi per la sussistenza dell'ipotesi dell'agente infiltrato (come disciplinato dall'art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990) e della diversa ipotesi dell'agente provocatore con conseguente inutilizzabilità dell'attività compiuta dalla polizia giudiziaria in violazione dell'art. 191 cod. proc. pen. (primo motivo); si lamenta poi la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) per difetto dei presupposti per la configurabilità, nel caso di specie, della fattispecie del concorso di persone nel reato (secondo motivo); si prospetta il vizio di motivazione e nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) in ordine alla sussistenza ed al mancato riconoscimento dell'ipotesi attenuata di cui all'art. 73, comma 5, legge stup. (terzo e quarto motivo).

Considerato in diritto

1. Tutti i motivi di gravame sono infondati e da ciò consegue il rigetto dei ricorsi.
2. Quanto all'unico motivo di impugnazione presentato nell'interesse di B.N. , con il quale il ricorrente si duole del difetto di motivazione circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, osserva il Collegio come la Corte lucana avesse motivato il diniego condividendo l'approdo cui era giunto in parte qua il Tribunale, non potendo essere assegnato rilievo decisivo allo stato di incensuratezza del ricorrente.
A sua volta, pur avendo sottolineato come l'incensuratezza fosse inidonea di per sé sola a giustificare il riconoscimento dell'attenuante, il primo giudice aveva ritenuto di negare il beneficio sul rilevo della indubbia gravità del fatto.
Va allora ricordato che la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice di merito, sottratto al controllo di legittimità, e può ben essere motivato implicitamente attraverso l'esame esplicito di tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 6, del 04/07/2003 n. 36382, Dell'Anna e altri, Rv. 227142) o con il ricorso alla motivazione implicita o per relationem o a formule sintetiche (Sez. 4, 23/04/2013 n. 23679, Viale e altri, Rv. 256201) con la conseguenza che il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell'imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia correttamente esercitato il potere discrezionale conferitogli.
Ne consegue l'infondatezza del motivo di gravame.
3. Quanto ai motivi di gravame sollevati nell'interesse di B.G. , essi sono parimenti infondati.
3.1. Va per prima esaminata la censura - relativa all'inutilizzabilità dei risultati conseguiti attraverso l'attività di polizia giudiziaria - fondata sul rilievo della mancanza dei presupposti legislativi per la sussistenza dell'ipotesi dell'agente infiltrato (come disciplinato dall'art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990) e, attesa la diversa ipotesi dell'agente provocatore, tendente ad eccepire l'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dell'art. 191 cod. proc. pen. (primo motivo di gravame per avv. Cassotta).
La doglianza è infondata non solo perché - essendo irrilevante ai fini dell'imputazione della quale è chiamato a rispondere il ricorrente (imputazione che attiene alla detenzione della droga rinvenuta nell'abitazione (capo b) e non dello stupefacente che il coimputato (capo a) intendeva cedere a terzi) - è, all'evidenza, inammissibile, con riferimento allo specifico rapporto processuale investito dal gravame, ma anche perché - qualora, come sembra desumibile dal motivo di impugnazione, si volesse ritenere che entrambi gli interventi di polizia, essendo stati realizzati in assenza dei presupposti richiesti dall'art. 97 legge stup., determinerebbero l'inutilizzabilità di tutte le prove acquisite - deve essere ribadito il principio secondo il quale, nella specie, non si verte in tema di inutilizzabilità della prova allorquando l'intervento degli agenti si limiti a disvelare un'intenzione criminosa già esistente, anche se allo stato latente, senza averla determinata nell'imputato in modo essenziale.
La ragione di ciò va ricercata nel fatto che non sono lecite le operazioni sotto copertura consistenti nell'incitamento o nell'induzione alla commissione di un reato da parte di soggetto indagato, in quanto all'agente infiltrato non è consentito commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e di quelle strettamente e strumentalmente connesse (Sez. 3, 09/05/2013 n. 37805 Jendoubi e altro, Rv. 257675), tanto sul rilievo che una simile condotta, oltre a determinare la responsabilità penale dell'infiltrato, rende l'intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Sez. 2, 28/05/2008, n. 38488, Cuzzucoli ed altri, Rv. 241442) e produce, quale ulteriore conseguenza, l'inutilizzabilità della prova acquisita.
Con specifico riferimento alla figura dell'?agente provocatore?, essendo effettivamente insussistenti i presupposti richiesti dall'art. 97 legge stup., la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, quando condotta dell'agente non si inserisca con rilevanza causale nell'?iter criminis? ma intervenga in modo indiretto e marginale, è applicabile la scriminante dell'adempimento del dovere ed invece, qualora la condotta del provocatore assuma una rilevanza causale nel fatto commesso dal provocato nel quale venga suscitato un intento delittuoso prima inesistente, la scriminante non trova applicazione, dando luogo alle conseguenze sostanziali e processuali prima evocate.
In linea con l'impostazione tradizionale, dunque, affinché la condotta dell'agente provocatore non sia punibile, occorre che egli abbia assunto una posizione marginale rispetto alla realizzazione dell'illecito, nel senso di non essersi spinto al punto da cagionare, con rilevanza causale, l'evento criminoso, il quale non deve essere da lui sollecitato, dovendo il fatto di reato essere, nell'ideazione e nella realizzazione, riconducibile alla volontà del provocato.
Sul versante opposto, la giurisprudenza di questa Corte ha considerato la questione anche con riferimento alla categoria del reato impossibile (art. 49 cod. pen.), evidenziando come, nell'ipotesi della presenza di un agente provocatore, non possa invocarsi l'esclusione della punibilità del soggetto provocato, atteso che l'impossibilità del verificarsi dell'evento va considerata in funzione dell'inidoneità dell'azione, la quale deve essere assoluta in rapporto all'evento voluto, con valutazione in concreto, ma con giudizio ex ante, dell'inefficienza strutturale dell'atto, che non deve consentire neppure un'attuazione eccezionale del proposito criminoso, sicché l'attività dell'agente provocatore, essendo causa estrinseca per nulla incidente sull'attitudine della condotta del reo a raggiungere il risultato voluto, non esclude l'efficacia causale della condotta stessa (Sez. 6, 04/06/1990, n. 15335, Pappalardo, Rv. 185809; Sez. 6, 09/04/2013, n. 39216, Di Fiore ed altri, Rv. 256592).
Nella materia, come si è accennato, svolge un ruolo fondamentale la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo che rende problematica la conformità ai principi del "processo equo" di una pronuncia di affermazione della responsabilità penale fondata su elementi di prova tratti da operazioni sotto copertura o di polizia giudiziaria che abbiano assunto una rilevanza decisiva rispetto alla commissione del reato, provocandone la perpetrazione da parte di chi sarebbe rimasto altrimenti estraneo alla impresa criminosa.
La giurisprudenza di questa Corte ha iniziato a collocarsi in questa prospettiva, precisando come l'attività degli agenti infiltrati debba essere circoscritta e coperta da garanzie anche quando si tratta di reati di particolare gravità e che l'intervento degli agenti provocatori, quando sia determinante per la commissione del reato (nel senso che senza il loro intervento il reato non sarebbe stato commesso), se utilizzato nel processo penale, può falsare irrimediabilmente il carattere equo del processo. Ciò, invece, deve escludersi quando risulti che l'indagato è pronto a commettere la violazione anche in mancanza dell'intervento degli agenti di polizia, i quali si limitano a disvelare un'intenzione criminale esistente, ma allo stato latente, fornendo al ricorrente l'occasione di concretizzarla. In altri termini, mentre non lede il diritto all'equo processo l'intervento della polizia giudiziaria (suscettibile di utilizzazione probatoria in ambito processuale) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere (Sez. 3, 09/05/2013 n. 37805, cit.).
Nel caso di specie emerge come, anteriormente all'intervento della polizia giudiziaria, l'imputato avesse già consumato il reato, detenendo per fini di spaccio sostanza stupefacente, condotta già di per sé penalmente rilevante e rispetto alla quale gli agenti non apportavano alcun contributo causale per la realizzazione della condotta di "detenzione" e B.N. come avesse in fieri la piena intenzione di cederla a terzi.
3.2. L'altra censura (unico motivo del ricorso per avv. Barbuzzi e secondo motivo per avv. Cassotta) per difetto dei presupposti per la configurabilità, nel caso di specie, della fattispecie del concorso di persone nel reato in relazione al giudizio di colpevolezza formulato nei confronti di B.G. .
Va ricordato che i Giudici del merito, con doppia conforme motivazione, hanno accertato non soltanto la coabitazione abituale tra B.N. e G. , ma anche come quest'ultimo, all'arrivo dei Carabinieri, in occasione della perquisizione domiciliare, avesse aperto la porta di ingresso dell'abitazione soltanto dopo che la polizia giudiziaria aveva bussato più volte ed insistentemente, ingenerando con tale ritardo il ragionevole convincimento che, in tale lasso di tempo, avesse cercato di occultare la droga.
Tant'è che gli agenti operanti rinvennero al secondo piano, abilmente occultati, oltre ad un bilancino di precisione, collocato dietro il vecchio alloggiamento in cemento di una pianta, anche un involucro avvolto da un nastro adesivo, posto al di sotto di una tegola del tetto di copertura, ad un'altezza di circa mt. 1,60 dal suolo e contenente 30 grammi di eroina.
A tal proposito, la Corte lucana ha attribuito valore fortemente indiziante a siffatto comportamento da ricollegare non soltanto al tempo impiegato per aprire la porta, nonostante l'insistenza dei Carabinieri nel bussare all'uscio, ma anche ai rumori sospetti che costoro ebbero modo di sentire durante l'attesa. Né in quella circostanza il prevenuto diede una giustificazione idonea a fornire una spiegazione alternativa a quella teorizzata dall'accusa.
In ogni caso, il ricorrente, nel corso dell'interrogatorio reso all'udienza di convalida dell'arresto, ammise la propria responsabilità, dichiarando di non aver aperto subito la porta ai Carabinieri, perché si era recato dapprima nel vano sottotetto, al fine di nascondere la sostanza stupefacente, aggiungendo di non essere assuntore della stessa e di non sapere se il fratello lo fosse.
Il ricorrente invoca l'applicazione dell'art. 378 cod. pen. censurando l'approdo cui sono giunti i Giudici del merito nel ritenere pienamente configurabile il concorso di persone del reato.
I rilievi mossi alla sentenza impugnata sono infondati, avendo le Sezioni Unite di questa Corte chiarito che il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento alla illecita detenzione di sostanze stupefacenti, in costanza di detta detenzione, perché, nei reati permanenti, qualunque agevolazione del colpevole, posta in essere prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve - salvo che non sia diversamente previsto - in un concorso nel reato, quanto meno a carattere morale (Sez. U, del 24/05/2012, n. 36258, P.G e Biondi, Rv. 253151).
Al cospetto poi di una doppia conforme valutazione dei Giudici del merito -in ordine al giudizio di penale responsabilità formulato sul rilievo che la confessione resa e che la condotta tenuta prima del rinvenimento della droga rientrasse a pieno nella fattispecie concorsuale - le critiche rivolte verso l'impugnata sentenza si risolvono, nella sostanza, nell'enunciazione di censure che attengono al merito e che quindi sono inammissibili nel giudizio di cassazione perché non tengono conto che il sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali non può mai comportare una rivisitazione dell'iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi diretti ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito.
Consegue l'infondatezza dei rispettivi motivi di impugnazione proposti.
3.3. Vanno infine congiuntamente esaminati i terzo ed il quarto motivo di gravame avanzati dall'avv. Cassotta e con i quali si censura la sentenza impugnata per il mancato riconoscimento dell'attenuante (ora titolo autonomo di reato) di cui all'art. 73, comma 5, legge stup. e l'omessa motivazione in tal senso.
Sul punto, occorre premettere che, in tema di sentenza penale di appello, non sussiste mancanza o vizio della motivazione allorquando i giudici di secondo grado, in conseguenza della completezza e della correttezza dell'indagine svolta in primo grado, nonché della corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (Sez. 3, 14/02/1994, n. 4700 Scauri, Rv. 197497), con la conseguenza che il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Sez. 2, 13/11/1997, n. 11220, Ambrosino, Rv. 209145).
Ciò posto, il primo Giudice, al quale la Corte di appello ha aderito nella parti non investite dalla riforma (concessione delle attenuanti generiche a B.G. ), ha escluso, con logica ed adeguata motivazione e perciò insuscettibile di essere sindacata in sede di legittimità, potessero ricorrere gli estremi del fatto di lieve entità sul fondamentale presupposto che all'interno dell'abitazione degli imputati vi fosse un bilancino di precisione, circostanza che unitamente alla quantità e qualità della sostanza, ha consentito di escludere la lieve entità del fatto.
Insussistente perciò il denunciato vizio di motivazione ed insussistenti le condizioni di applicabilità di cui all'art. 73, comma 5, legge stup., consegue l'infondatezza dei motivi di gravame.
4. Il rigetto dei ricorsi comporta, come da pedissequo dispositivo, la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.