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L'esercizio del diritto a non rispondere non pregiudica l'indenizzo per l'ingiusta detenzione (Cass. 25605/10)

26 marzo 2012, Cassazione penale

La scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per fondare un giudizio positivo di sussistenza della colpa per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale.

Non può fondarsi la “colpa” dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio, salvo che l’indagato sia in grado di fornire specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere e caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare, e le taccia; in tal caso, infatti, pur nel rispetto del diritto di difesa e delle opzioni attuative dello stesso, vi è un onere di rappresentazione ed allegazione da parte dell’indagato, al fine di porre l’organo inquirente nelle condizioni di valutare quelle prospettazioni ed allegazioni, di comporle nell’unitario quadro investigativo e indiziario, e di rilevare, eventualmente, l’errore in cui si è incorsi nell’instaurazione dello stato detentivo. In una tale prospettiva, poiché a quel momento solo l’indagato è in grado di rappresentare utili e giustificativi elementi di valutazione, la circostanza che invece li taccia (o che reticentemente o falsamente altri ne prospetti) contribuisce, concausalmente, al mantenimento del suo stato detentivo.

CASSAZIONE PENALE

SEZIONE QUARTA

SENTENZA 15 GIUGNO - 5 LUGLIO 2010, N. 25605

FATTO E DIRITTO

Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Torino rigettava l'istanza di riparazione per l'ingiusta detenzione subita da T. Maurizio nell'ambito di un procedimento in cui era stato indagato per corruzione continuata, dal quale era stato assolto con la formula perché il fatto non sussiste.

Con l’ordinanza impugnata la Corte di merito escludeva il diritto alla riparazione ravvisando la colpa grave dell’istante nella collusione del medesimo, nella qualità di amministratore di alcune società, con un funzionario pubblico, che aveva consentito al primo di aggiudicarsi delle gare di appalto di lavori edili e nel silenzio dallo stesso serbato dopo l’esecuzione del provvedimento restrittivo.

M., tramite difensori, propone ricorso per cassazione avverso la suddetta ordinanza articolando un unico motivo con il quale lamenta la violazione dell’art. 314 cod. proc. pen e la manifesta illogicità della motivazione, laddove il giudice della riparazione si era di fatto sostituito al giudice del merito censurando il percorso argomentativo che aveva portato all’assoluzione.

Sotto altro profilo, si prospetta l’erronea applicazione della legge penale anche nella parte in cui la decisione aveva fondato la colpa grave dell’istante anche sul silenzio dallo stesso tenuto, dimenticando di considerare che la facoltà di non rispondere è una esplicazione di un diritto riconosciuto all’imputato, che non esclude il diritto alla riparazione.

È stata ritualmente depositata memoria difensiva nell’interesse dell’Amministrazione resistente con la quale è stato chiesto il rigetto del ricorso.

Il ricorso merita accoglimento per le ragioni appresso precisate.

Secondo i principi elaborati ed affermati nell’ambito della giurisprudenza di questa Suprema Corte (a partire dalla fondamentale sentenza delle Sezioni unite, 13 dicembre 1995, Sarnataro), in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave (quest’ultima è l’ipotesi che qui interessa), deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.

Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito), non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (di recente, ex pluribus, Sezione IV, 19 giugno 2008, Bedini ed altro).

In una tale prospettiva, secondo un assunto interpretativo anch'esso pacifico nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di “colpa grave" di cui all’articolo 314, comma 1, cod. proc. pen., ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuato in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale.

A tal riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti sia processuali sia di tipo extraprocessuale, come la grave leggerezza o la macroscopica trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale; onde, l’applicazione della suddetta disciplina normativa non può non imporre l’analisi dei comportamenti tenuti dall’interessato, anche prima dell’inizio dell’attività investigativa e della relativa conoscenza, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti non integrino reato (anzi, questo è il presupposto, scontato, dell’intervento del giudice della riparazione) (cfr., ancora,Sezione IV, 19 giugno 2008, Bedini ed altro).

Con argomentazioni, qui di immediata utilità, si è parimenti affermato che non può comunque fondarsi la “colpa” dell’interessato, idonea ad escludere il diritto all’equa riparazione, solo sul silenzio da questi serbato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero ed al GIP, giacché la scelta defensionale di avvalersi della facoltà di non rispondere non può valere ex se per fondare un giudizio positivo di sussistenza della colpa per il rispetto che è dovuto alle strategie difensive che abbia ritenuto di adottare chi è stato privato della libertà personale; e ciò anche qualora a tali strategie difensive possa attribuirsi, a posteriori, un contributo negativo di non chiarificazione del quadro probatorio legittimante la privazione della libertà (Sezione IV, 1 luglio 2008, Mele).

Tali condotte, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possono rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave solo ove l’indagato sia in grado di fornire specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere e caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare, e le taccia; in tal caso, infatti, pur nel rispetto del diritto di difesa e delle opzioni attuative dello stesso, vi è un onere di rappresentazione ed allegazione da parte dell’indagato, al fine di porre l’organo inquirente nelle condizioni di valutare quelle prospettazioni ed allegazioni, di comporle nell’unitario quadro investigativo e indiziario, e di rilevare, eventualmente, l’errore in cui si è incorsi nell’instaurazione dello stato detentivo. In una tale prospettiva, poiché a quel momento solo l’indagato è in grado di rappresentare utili e giustificativi elementi di valutazione, la circostanza che invece li taccia (o che reticentemente o falsamente altri ne prospetti) contribuisce, concausalmente, al mantenimento del suo stato detentivo (v., anche, Sezione IV, 19 giugno 2008, Galli).

Alla luce dei richiamati principi, risulta evidente il vizio in cui è incorso il giudicante.

Il giudice della riparazione ha, infatti, ritenuto ravvisato il primo profilo di colpa grave del T., censurando la motivazione del giudice penale, nella collusione dello stesso con il funzionario della Provincia che compì ?una serie infinita di abusi di ufficio” per consentire a vari imprenditori del settore edile, tra cui l’istante, di aggiudicarsi le gare di appalto.

Il giudice della riparazione è così venuto meno all’adempimento dell’obbligo motivazionale, che, pur non richiedendo di dare ai fatti un’espressa qualificazione giuridica, esige indubbiamente una indicazione specifica del comportamento che sia stato determinante o sinergico all’emissione del provvedimento limitativo della libertà personale e che possa integrare il dolo o la colpa grave.

La descrizione della condotta nei termini di cui si è detto si palesa all’evidenza generica e non significativa ai fini della procedura di interesse.

L’ulteriore profilo di colpa è stato, invece, ravvisato nel comportamento processuale tenuto dal T., sempre avvalsosi della facoltà di non rispondere nei suoi interrogatori.

È una argomentazione, questa, che non appare in linea con quanto sopra affermato in merito ai requisiti per la configurabilità della colpa grave, laddove si è escluso che questa possa fondarsi ex se sull’esercizio da parte dell’interessato di avvalersi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio.

L’ordinanza va, pertanto, annullata con rinvio al giudice competente, che si atterrà ai principi sopra indicati, liquidando in quella sede le spese tra le parti relative al presente procedimento.

P.Q.M.

annulla l'ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Torino.