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Estorsione o esercizio arbitrario (Cass. 11453/16)

18 marzo 2016, Cassazione penale

Il reato di estorsione si caratterizza per la volontà dell'agente di costringere della vittima, e di annullarne le facoltà volitive trasformandola in una esecutrice forzata delle sue pretese: peraltro, il terzo che interviene per conto del titolare del diritto di credito agisce, di regola, per soddisfare un interesse personale, identificabile (anche solo) nella conferma e nell'accrescimento del prestigio criminale conseguente all'esazione violenta. Tale vantaggio personale del terzo è diverso ed ulteriore rispetto a quello del mandante alla riscossione del credito ed è immediatamente e sicuramente ingiusto.

 

Corte di Cassazione

sez. II Penale, sentenza 17 febbraio - 18 marzo 2016, n. 11453
Presidente Gallo - Relatore Recchione

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il G. alla pena di anni cinque, mesi sei, gg. 20 di reclusione ed euro 700 di multa per il reato di estorsione consumato ai danni di F.A. . Il G. è accusato di avere agito su mandato della Leoni che vantava nei confronti della F. un credito di 70.000 euro per il quale aveva esperito una infruttuosa procedura esecutiva. L’imputato era accusato di avere estorto alla F. la somma di 25.000 euro attraverso gravi minacce rivolte sia alla vittima dell’estorsione che ai suoi familiari.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato che deduceva:
2.1. violazione di legge. Si deduceva la nullità della sentenza in quanto il rito abbreviato sarebbe stato chiesto da un difensore non munito di procura speciale in assenza dell’imputato; la procura, come rilevato dalla Corte di appello, non si rinveniva in atti;
2.2. violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla qualificazione giuridica del fatto. La condotta andrebbe inquadrata nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. in quanto la pretesa di ottenere le somme asseritamente estorte non poteva dirsi "ingiusta" solo perché la procedura esecutiva era stata infruttuosa; l’inquadramento del fatto nel reato previsto dall’art. 393 cod. pen. sarebbe confermata dalla analisi dell’elemento psicologico. Si deduceva, infine, che il G. non aveva agito con violenza gratuita e sproporzionata.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione. Si deduceva che la condotta in contestazione avrebbe dovuto essere qualificata come truffa aggravata dato che il pericolo paventato era inesistente e non proveniente, direttamente o indirettamente, dall’imputato; si deduceva che la condotta del G. avrebbe, al più, potuto trarre in inganno la vittima, ma non coartarla, essendo il male prospettato ipotetico e non proveniente dall’imputato.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione. Si deduceva che, poiché la dazione del denaro era avvenuta sotto il controllo della polizia giudiziaria, che aveva anche fornito le banconote, il reato non poteva dirsi consumato, in quanto non vi era alcun effettivo costringimento. La vittima aveva denunciato l’imputato affidandosi alle forze dell’ordine che organizzavano la consegna del denaro al fine di procedere all’arresto;
2.4. violazione di legge e vizio di motivazione. Si deduceva che non vi era motivazione in ordine al riconoscimento della recidiva reiterata; l’aggravante non avrebbe dovuto essere riconosciuta in quanto non era stata dichiarata nelle precedenti sentenze di condanna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il primo motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente evidenziava come in atti non vi fosse in atti la procura speciale necessaria al difensore di fiducia per chiedere l’accesso al rito abbreviato in assenza dell’imputato.
La Corte di appello rilevava che il documento doveva considerarsi smarrito, e non assente, visto che il cancelliere nel verbale di udienza del 13 aprile 2011 dava espressamente atto della sua esistenza. L’esistenza della procura trovava inoltre conferma nella trascrizione della registrazione della stessa udienza dalla quale emergeva, ancora una volta, che il difensore era munito di procura speciale (pag 11 della sentenza impugnata).
Si ritiene che il collegio territoriale abbia effettuato una valutazione che non si presta ad alcuna censura in sede di legittimità in quanto coerente con le indicazioni della Corte di cassazione, condivisa dal collegio, secondo cui il verbale di udienza del processo penale fa piena prova fino a querela di falso di quanto in esso attestato, perché è atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, il cui regime di efficacia è sancito dalla norma generale dell’art. 2700 cod. civ. (Cass. sez. 3 n. 13117 del 27/01/2011, Rv. 249918; Sez. 3, n. 9975 del 28/01/2003 Rv. 223819). Nel corso della progressione processuale non sono emersi, peraltro, elementi indicativi della falsità del verbale, né il ricorrente ha fornito precise indicazioni in tal senso.
2. Il motivo di ricorso che invoca l’inquadramento della condotta nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. è infondato.
2.1. Si contesta all’imputato di avere agito in modo violento al fine di riscuotere un credito vantato dalla L., coimputata e mandante dell’azione estorsiva, dopo che era stata infruttuosamente esperita la procedura esecutiva.
In materia di diagnosi differenziale tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni il collegio ritiene che l’orientamento (Cass. sez. 2, n. 42940 del 25/09/2014, Rv. 260474; Cass. sez. 2 n. 31224 del 25/06/2014, Rv. 259966; Cass. sez. 2 n. 51433 del 04/12/2013, Rv. 257375) secondo cui i due reati non si distinguono necessariamente per la materialità del fatto ma piuttosto per l’elemento intenzionale, può essere condiviso, ma con alcune precisazioni.
Tale approdo interpretativo non legittima, infatti, l’automatico inquadramento nella fattispecie più lieve di ogni condotta violenta diretta a far valere una pretesa (percepita come) lecita.
L’esistenza di un diritto tutelabile legalmente impone, invece, l’attivazione di una penetrante analisi dell’elemento soggettivo volta a verificare la direzione della volontà dell’agente: chi intende farsi ragione da sé, anche con modalità violente, vuole recuperare il credito in via extragiudiziale attraverso una azione di "persuasione" che, per quanto intensa e persino violenta, non giunge al "costringimento"; tale finalità persuasiva si distingue dalla finalità costrittiva tipica della azione estorsiva, rinvenibile quando la violenza e la minaccia risultano invece orientate all’annullamento delle capacità volitive della vittima, con conseguente abbattimento delle sue facoltà di scelta.
Il reato di estorsione si caratterizza infatti proprio per la volontà dell’agente di costringere della vittima, e di annullarne le facoltà volitive trasformandola in una esecutrice forzata delle sue pretese. Non a caso tale reato è stato inserito nei delitti contro il patrimonio consumati mediante violenza alle cose ed alle persone (libro II, titolo XIII capo I), laddove il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è inserito nei delitti contro l’amministrazione della giustizia (libro II, titolo III, capo III).
Altro è, infatti, "costringere" con violenza una persona a soddisfare un credito, abbattendone le capacità reattive e volitive ed altro è "fare uso" della violenza per persuadere il debitore all’adempimento extragiudiziale.
2.2. Si afferma pertanto il seguente principio di diritto: l’art. 393 cod. pen. sanziona l’elusione del sistema di tutela pubblica e giudiziale dei diritti, anche quando la stessa si realizzi attraverso l’"uso" della violenza. La fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. non arriva, tuttavia, a coprire atti di violenza diretti all’annullamento delle facoltà volitive del debitore. Ogni volta che l’azione violenta risulti diretta (non solo) ad aggirare illecitamente il sistema di tutela legale del credito, ma (anche) a costringere la vittima, la pretesa alla base dell’azione coattiva perde ogni connotazione di liceità sicché la condotta deve essere inquadrata nel reato di estorsione (in tal senso Cass. sez. 2, n. 44657 dell’8/10/2015, Rv. 265316).
2.3. Un ulteriore, significativo, profilo differenziale tra i delitti di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni emerge ogni volta che il titolare del credito faccia ricorso ad un esattore estraneo al rapporto contrattuale.
Il ricorso ad un "esattore" terzo rispetto al rapporto è, nella più gran parte dei casi, ostativo all’inquadramento della condotta nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. (Cass. sez. 2, n. 46628 del 03/11/2015, Rv. 265214; Cass. sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Rv. 264967).
Il terzo che interviene per conto del titolare del diritto di credito agisce, di regola, per soddisfare un interesse personale, identificabile (anche solo) nella conferma e nell’accrescimento del prestigio criminale conseguente all’esazione violenta. Tale vantaggio personale del terzo è diverso ed ulteriore rispetto a quello del mandante alla riscossione del credito ed è immediatamente e sicuramente ingiusto.
Ogni volta che l’azione violenta volta alla riscossione del credito sia posta in essere dal terzo dovrà dunque essere verificato se questi sia portatore di un proprio interesse, diverso ed ulteriore rispetto a quello vantato dal titolare del diritto, potendosi configurare un eventuale concorso nel reato di cui all’art. 393 cod. pen. solo ove tale interesse esclusivo del terzo risulti assente.
2.4. Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto: se emerge che il terzo agisce per un interesse proprio, diverso ed ulteriore rispetto all’interesse del titolare del diritto (ed individuabile anche solo nell’accrescimento del prestigio criminale), le condotte del mandante e dell’esecutore devono essere sicuramente qualificate come estorsive, in quanto la violenza esercitata risulta diretta all’ottenimento di vantaggi non coincidenti con la soddisfazione extragiudiziale del credito; in tal caso la condotta concorsuale fuoriesce dall’area coperta dall’art. 393 cod. pen., che è invocabile solo ove l’azione violenta sia diretta al recupero extragiudiziale del credito e non incida le facoltà volitive del debitore fino ad annullarle.
2.5. Ancora: non è configurabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ogni volta che le minacce siano dirette verso soggetti estranei al rapporto contrattuale. L’inclusione nella azione violenza di persone estranee al sinallagma esprime una volontà coercitiva di singolare violenza che esonda dal rapporto creditorio. La riconducibilità della condotta alla fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. richiede invece che la condotta illecita resti circoscritta nel perimetro del rapporto contrattuale, mentre il coinvolgimento di soggetti terzi esclude, a priori, che possa essere invocato l’inquadramento più favorevole.
2.6. Nel caso di specie emergeva l’esistenza di un credito che non era stato riscosso per le vie legali dato che la procedura esecutiva non era andata a buon fine; la Leoni aveva dunque investito il G. (terzo rispetto al rapporto contrattuale) del compito di riscuotere il credito; questi minacciando la vittima ed i familiari di mali ingiusti, otteneva la dazione di 25.000 Euro.
In coerenza con le linee ermeneutiche sopra tracciate si ritiene che il fatto che il G. fosse estraneo al rapporto creditorio e mirasse ad accrescere il suo prestigio criminale, unitamente al fatto che le minacce fossero orientate non solo contro la debitrice F. , ma anche verso i suoi familiari, consente di escludere la l’inquadrabilità della condotta nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen..
3. Anche il motivo di ricorso che invoca l’inquadramento del fatto nella truffa deve essere rigettato.
3.1. La diagnosi differenziale tra il reato di truffa e quello di estorsione deve essere effettuata attraverso una attenta indagine delle emergenze processuali volta a verificare: a) se il male minacciato sia reale o immaginario e se questo dipenda dall’agente (ovvero sia a questi "gestibile") o da altri; b) se la prospettazione di tale male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile alla induzione in errore piuttosto che ad una vera e propria coazione della volontà. Per quanto la prospettazione di un effetto negativo abbia - comunque e ragionevolmente - come conseguenza una reazione di "evitamento" del male prospettato, quel che rileva ai fini del corretto inquadramento del fatto è se tale reazione sia riconducibile ad una condotta fraudolenta, piuttosto che ad una irresistibile coartazione. Se, cioè, la volontà della vittima risulti semplicemente manipolata o, piuttosto, irresistibilmente coartata.
La coazione della volontà si distingue dalla manipolazione agita attraverso l’induzione in errore, in quanto solo nel primo caso la azione illecita si presenta irresistibile.
L’induzione in errore è, infatti, azione diversa dalla costrizione sebbene entrambe le condotte siano idonee a deviare il fisiologico sviluppo dei processi volitivi: la condotta induttiva, anche quando si manifesta con la esposizione di pericoli inesistenti, si differenzia dalla condotta estorsiva proprio nella misura in cui la volontà risulta "diretta" e "manipolata", ma non irresistibilmente "piegata".
La idoneità della rappresentazione del male a "dirigere" piuttosto che "piegare" la volontà non può essere stabilita in astratto, ma necessita di uno scrutinio che verifichi in concreto la consistenza della azione minatoria, anche rispetto alla effettiva resilienza della vittima. Tale indagine non può che analizzare la idoneità coercitiva della minaccia nel momento in cui la stessa viene posta in essere, nulla rilevando che ex post il male prospettato risulti irrealizzabile.
Se si individua nella concreta efficacia coercitiva della minaccia l’attributo della condotta utile per distinguere la truffa dall’estorsione perde rilevanza anche la eventuale irrealizzabilità del male prospettato, essendo l’analisi richiesta limitata alla verifica ex ante della concreta efficacia coercitiva della azione minatoria. Né la irrealizzabilità del male minacciato consente di invocare l’art. 49 cod. pen.: individuato nel costringimento violento della vittima l’elemento caratterizzante del reato di estorsione, l’idoneità del male minacciato ad incidere il processo volitivo non può che essere valutato ex ante ed in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità dell’evento dannoso prospettato.
La valutazione della capacità di concreta ed effettiva coazione della minaccia è, ancora una volta, un?indagine di merito che deve essere effettuata prendendo in esame le circostanze del caso concreto ovvero sia la violenza oggettiva della minaccia che la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima (Cass. sez. 6, n. 27996 del 28.5.14, Rv 261479).
3.2. Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto: la distinzione tra il reato di truffa consumata attraverso la prospettazione di un pericolo non reale, ed il reato di estorsione deve essere effettuata valutando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato si presenta irresistibile e coarta la volontà della vittima; si verte invece nell’ipotesi della truffa quando la minaccia del pericolo irrealizzabile, per la sua intrinseca consistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore (Cass. sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015, Rv. 265362). La valutazione della efficacia coercitiva, piuttosto che semplicemente manipolativa della minaccia deve essere effettuata con apprezzamento da effettuarsi ex ante, ovvero in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità del male prospettato.
3.3. Nel caso di specie, in coerenza con tali linee ermeneutiche, veniva esclusa la riconducibilità della condotta ad una ipotesi di truffa: il pericolo prospettato aveva infatti una effettiva e concreta incidenza coercitiva ampiamente evidenziata dal collegio di merito, che rilevava come la gravità delle minacce e la loro efficacia intimidatoria erano tali da avere indotto la vittima a denunciare il fatto ed a porsi sotto la protezione delle forze dell’ordine.
4. Infondato è anche il motivo che invoca la qualificazione del fatto contestato come delitto tentato piuttosto che consumato. Il collegio condivide, sul punto, l’orientamento secondo cui in tema di estorsione, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estorsore, e ciò anche nelle ipotesi in cui sia predisposto l’intervento della polizia giudiziaria che provveda immediatamente all’arresto del reo ed alla restituzione del bene all’avente diritto (Cass. sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, dep. 2013, Rv. 254450; Cass. sez. 2 n. 27601 del 19/6/2009, Rv. 244671; Cass. sez. U n. 19 del 27/10/1999, Rv. 214642). Secondo questa giurisprudenza che si condivide il fatto che "la vittima dell’estorsione si adoperi affinché la polizia giudiziaria possa pervenire all’arresto dell’autore della condotta illecita non elimina lo stato di costrizione, ma è una delle molteplici modalità di reazione soggettiva della persona offesa allo stato di costrizione in cui essa versa. Il legislatore, con la formula adottata - "... costringendo taluno a fare od omettere qualche cosa" prende in considerazione lo stato oggettivo di costrizione e non distingue le ragioni che possono indurre la persona offesa ad aderire alla pretesa estorsiva" (Cass. sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, dep. 2013, Rv. 254450; Cass. sez. 2 n. 44319 del 18/11/2005, Rv. 232506).
4. Infondato è infine il motivo di ricorso che lamenta l’illegittimo riconoscimento della recidiva reiterata in considerazione del fatto che la recidiva semplice non era stata precedentemente dichiarata.
In relazione a tale ultima censura il collegio condivide e ribadisce l’orientamento secondo cui il giudice della cognizione può accertare, a differenza di quello di esecuzione, i presupposti della recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, comma quarto, cod. pen., anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice. Premesso che ai fini della configurabilità della recidiva reiterata, quale prevista dall’art. 99 c.p., comma 4, deve ritenersi che possa essere qualificato come già recidivo solo il soggetto nei cui confronti, al momento della commissione del nuovo delitto, siano già passate in giudicato più di una condanna (cfr. Cass., sez. 2, 27/09/2013, n. 41806), non appare revocabile in dubbio che la Corte territoriale legittimamente può ricavare la sussistenza di tale condizione in capo al prevenuto dal contenuto del certificato del casellario giudiziale (Cass. sez, 5 n. 47072 del 13/06/2014, Rv. 261308, Cass., sez. 2, 05/07/2012, n. 30445; Cass., sez. 2, 7.5.2010, n. 18701, rv. 247089; Cass., sez. 5, 25.9.2008, n. 41288, rv. 241598).
Nel caso di specie la Corte di appello, in coerenza con tali linee ermeneutiche, riconosceva l’aggravante e la applicava rilevando come le emergenze processuali fossero indicative di una accresciuta pericolosità del reo e di una più accentuata colpevolezza testimoniate dal fatto che, nelle more del gravame, il G. riportava altre condanne, una delle quali per estorsione aggravata e lesioni gravi. Pertanto, contrariamente a quanto dedotto l’onere motivazionale in ordine al riconoscimento della recidiva risultava assolto dalla Corte di merito.
2. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.