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Dipendente patteggia per droga: non può essere licenziato (Cass. 26679/17)

14 novembre 2017, Cassazione civile e Nicola Canestrini

Anche le condotte concernenti la vita privata del lavoratore possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività.

Il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario.

Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestino, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali: in particolare, quando siano contrari alle norme dell’etica corrente e del comune vivere civile.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 4 maggio – 10 novembre 2017, n. 26679

Fatti di causa

Con sentenza 6 dicembre 2014, la Corte d’appello di Trento, s.d. di Bolzano dichiarava illegittimo il licenziamento intimato per giusta causa il 4 agosto 2011 a P.G. da Poste Italiane s.p.a., che condannava alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità commisurata a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita: così riformando la sentenza del primo giudice, che aveva invece ritenuto la legittimità del licenziamento, rigettando le domande del lavoratore di sua impugnazione e di conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria.
Previamente ravvisata la specificità della contestazione, la Corte territoriale riteneva che l’applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., pur non essendo equiparabile in senso tecnico giuridico alla sentenza penale di condanna in giudicato (giustificante l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, a norma dell’art. 54 p.to VI lett. h) CCNL 2011), lo potesse in senso sostanziale, dovendo comunque l’addebito contestato (applicazione a richiesta della pena di un anno e quattro mesi di reclusione e di Euro 3.000,00 di multa per detenzione di gr. 92,80 di hashish, in (omissis) ) essere valutato sotto il profilo dell’idoneità alla lesione del vincolo fiduciario, che tuttavia escludeva.
Sicché, essa negava che il fatto integrasse giusta causa di licenziamento, in particolare considerata la natura extralavorativa del comportamento non interferente sulle mansioni svolte (di operatore al computer per l’indirizzo e lo smaltimento di lettere, raccomandate e di altro prodotto postale, diverso dalle raccomandate assicurate o con priorità), di natura esecutiva, senza connotazioni di responsabilità né a contatto con il pubblico.
Con atto notificato il 5 giugno 2015, Poste Italiane s.p.a. ricorreva per cassazione con unico motivo, cui resisteva il lavoratore con controricorso contenente ricorso incidentale con unico motivo, cui replicava la società datrice con controricorso. Entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

1. Con unico motivo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2106, 2119 c.c. in combinato disposto con l’art. 54 p.to VI lett h) CCNL Poste del 14 aprile 2011, per erronea esclusione della ricorrenza della giusta causa di licenziamento. E ciò per la rottura del vincolo fiduciario della società datrice con il proprio dipendente, assumendo la prima una verosimile destinazione dell’hashish sequestrato al secondo alla cessione a terzi (per il quantitativo idoneo ad essere messo in circolazione, per gli abituali contatti del predetto con terzi in un locale pubblico attiguo all’ufficio e per essere egli risultato negativo alle analisi sull’uso di stupefacente, nonostante ne avesse dichiarato il consumo personale) e tenuto conto del contesto lavorativo in cui il medesimo era inserito (a contatto con decine di colleghi e con maneggio e anche apertura, qualora non fosse individuabile il destinatario, di buste e pacchi anche contenenti valori o effetti personali). E infine, pure considerata la previsione contrattuale collettiva di licenziamento senza preavviso per i comportamenti oggetto di condanna penale in giudicato (cui correttamente la Corte aveva equiparato la sentenza di applicazione della pena su richiesta) non connessi con l’attività lavorativa, ma potenzialmente lesivi del rapporto fiduciario.
2. Con unico motivo, a propria volta il lavoratore deduce in via di ricorso incidentale violazione o falsa applicazione dell’art. 18 l. 300/1970 e nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla domanda, tempestivamente proposta nel ricorso introduttivo e ribadita in appello, di condanna della datrice al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegrazione, con ingiustificata limitazione dell’indennità risarcitoria, senza alcuna indagine istruttoria, alla misura minima di cinque mensilità.
3. Il motivo di ricorso principale è infondato.
3.1. Occorre premettere che la clausola elastica di giusta causa, quale fatto "che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto", esige una specificazione in via interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Si tratta, pertanto, di una specificazione di natura giuridica a puntualizzazione del parametro normativo, la cui non corretta applicazione è ben deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 4 maggio 2005, n. 9266).
3.2. È poi noto come il concetto di giusta causa non sia limitabile all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma sia estensibile anche a condotte extralavorative, che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (da ultimo: Cass. 18 agosto 2016, n. 17166).

Infatti, anche condotte concernenti la vita privata del lavoratore possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, allorquando abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività.

Parimenti, comportamenti extralavorativi imputabili al lavoratore possono colpire interessi del datore di lavoro, violando obblighi di protezione: sicché, il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (Cass. 19 gennaio 2015, n. 776; Cass. 31 luglio 2015, n. 16268).

Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestino, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (Cass. 18 settembre 2012, n. 15654): in particolare, quando siano contrari alle norme dell’etica corrente e del comune vivere civile (Cass. 1 dicembre 2014, n. 25380).

3.3. In ogni caso, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare: da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 18 settembre 2012, n. 15654; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144).

Inoltre, la sussistenza di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall’intensità dell’elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante in tal senso la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 24 novembre 2016, n. 24023; Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

3.4. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione dei suenunciati principi di diritto, in riferimento ai criteri di individuazione tanto della giusta causa per l’integrazione del parametro normativo, tanto degli elementi del concreto rapporto tra le parti e di tutte le circostanze del caso, rilevanti ai fini del giudizio di proporzionalità (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 20 al penultimo di pg. 22 della sentenza). Essa ha quindi proceduto ad una puntuale e argomentata valutazione in concreto delle mansioni svolte dal lavoratore e del livello di responsabilità comportato, nonché del contesto lavorativo (considerando anche la presenza di numerosi colleghi) con esclusione in particolare di contatto con il pubblico degli utenti; ed è pervenuta, in esito all’accertamento in fatto condotto (per le ragioni illustrate dall’ultimo capoverso di pg. 22 al penultimo di pg. 27 della sentenza), ad un’argomentata negazione della lesione del rapporto fiduciario tra le parti.

Tali valutazioni valgono anche sotto il profilo della sanzione disciplinare del licenziamento prevista dall’art. 54 p.to VI lett h) CCNL Poste del 14 aprile 2011, per la corretta equiparazione sostanziale della sentenza di applicazione della pena su richiesta alla condanna in giudicato (come esposto al p.to 2, a pgg. 18 e 19 della sentenza).

3.5. Siffatto accertamento in fatto, indubbiamente spettante al giudice di merito (Cass. 6 agosto 2015, n. 16524), è insindacabile nell’odierna sede di legittimità, in quanto congruamente motivato, né inficiabile dalla contestazione della ricorrente del giudizio valutativo operato: posto che la sua censura è meramente contrappositiva, senza attingere la correttezza della sussunzione della fattispecie nel precetto normativo, operata dal giudice di merito, secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095). Ed una tale insindacabilità è vieppiù accentuata nel regime di applicabilità, ratione temporis, del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., preclusivo nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

4. Anche il motivo di ricorso incidentale è infondato.
4.1. Deve, infatti, essere esclusa l’omessa pronuncia denunciata, che è configurabile allorché manchi il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto (Cass. 26 gennaio 2016, n. 1360), ovvero manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado (Cass. 14 gennaio 2015, n. 452).
Essa invece non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o l’impossibilità di esame, pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass. 9 maggio 2007, n. 10636; Cass. 1 aprile 2003, 4972).
Nel caso di specie, la Corte ha implicitamente rigettato la domanda di condanna risarcitoria al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegrazione, valutando il periodo solo in riferimento all’obbligo legale di versamento dei contributi assistenziali e previdenziali (ai primi cinque alinea di pg. 28 della sentenza) e limitando invece l’indennità risarcitoria al solo minimo delle cinque mensilità (primo capoverso di pg. 28 della sentenza).
4.2. Ma non ricorre neppure la violazione dell’art. 18 l. 300/1970.
Essa è, infatti, insussistente sotto il profilo denunciato di limitazione dell’indennità risarcitoria minima soltanto ai casi di reintegrazione entro il periodo di cinque mesi dal licenziamento, ovvero di tempestiva eccezione di aliunde perceptum o di una fonte di reddito entro il medesimo periodo (primo capoverso di pg. 11 del controricorso). Invece ricorre(rebbe) sotto quello della mancata prova datoriale della non imputabilità dell’inadempimento riguardante il licenziamento illegittimo (Cass. 1 ottobre 2013, n. 22398; Cass. 12 agosto 2008, n. 21538) al fine del superamento della presunzione iuris tantum relativa alla corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, al contrario della misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa (Cass. 27 gennaio 2011, n. 1950; Cass. 3 maggio 2004, n. 8364). Ma questo profilo non è stato peraltro dedotto.
5. Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto di entrambi i ricorsi, con l’integrale compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e dichiara interamente compensate le spese del giudizio tra le parti.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.