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Difendersi dallo stalking (Cass.pen., 56644/15)

2 marzo 2015, Cassazione penale

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Le esigenze di protezione della persona offesa devono conciliabili con i diritti e le necessità dell'indagato, limitando con sufficiente determinatezza la libertà di movimento nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima.

Il reato di cui all'art. 612-bis è integrato da una serie ripetuta di atti minacciosi o molesti che cagionano alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero ingenerano un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero costringono lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Difendersi dallo stalking con misure cautelari: il divieto di avvicinamento e il divieto di comunicazione, ovvero quello di tenere una determinata distanza dalla persona offesa comportano un comportamento specifico, chiaramente individuabile.

L'obbligo di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa consiste nell'obbligo sufficientemente determinato di non avvicinarsi fisicamente, di non rivolgersi alla persona offesa con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle SMS, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d'animo).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 10 dicembre 2014 - 6 febbraio 2015, n. 5664

(Presidente Dubolino - Relatore Settembre)

Ritenuto in fatto

1. Il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Treviso, con ordinanza confermata dal Tribunale del riesame di Venezia, ha applicato a B.D. la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati da G.E. , nonché ai comuni di (OMISSIS) e (OMISSIS) , siccome indagato per atti persecutori, lesioni personali e violazione di domicilio.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente il quadro di gravità indiziaria sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa - che ha riferito di una serie continuativa di atti molesti, costituiti da messaggi e telefonate ingiuriose e minacciose, di pedinamenti e appostamenti, oltre che, infine, di aggressione fisica - e di vari testimoni, che sono stati spettatori di una selvaggia aggressione perpetrata in danno della donna.

2.0. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'indagato, l'avv. Pierluigi Ronzani, il quale, con un primo motivo, lamenta una violazione del diritto di difesa, derivante dal fatto che l'ordinanza del Giudice delle indagini preliminari fa riferimento al reato di cui all'art. 612 cod. pen. e non a quello di cui all'art. 612-bis cod. pen.

Con altro motivo si duole della violazione dell'art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., oltre che di un vizio di motivazione, per essere stato inferito il pericolo di reiterazione criminosa dal carattere stesso dei reati contestati e dai precedenti penali dell'indagato, non attinenti agli specifici fatti oggetto di contestazione, e nonostante il B., successivamente all'aggressione del 22-6-2014, non abbia più voluto incontrare la persona offesa.

Col terzo motivo contesta la sussistenza del reato di cui all'art. 612/bis cod. pen., dal momento che la G., nella denuncia sporta il 23/6/2014, non aveva proposto querela e aveva, nelle sommarie informazioni del 7/7/2014, dichiarato di non aver avuto modo di incontrare di persona B.D. Il ricorrente conferma che, successivamente al 22/6/2014, furono inviati altri messaggi alla persona offesa, ma esclude che B. abbia agito con l'intenzione di recare ansia o disturbo alla G.

Con un quarto ed ultimo motivo si duole della indeterminatezza della misura.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato limitatamente all'ultimo motivo proposto.

1. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. Sebbene il provvedimento del Giudice delle indagini preliminari menzioni l'art. 612 cod. pen., tutta l'ordinanza e le motivazioni del provvedimento fanno riferimento al reato di cui all'art. 612-bis cod. pen., per cui nessun intralcio all'esplicazione del diritto di difesa è conseguito alla erronea indicazione della norma penale applicabile nella specie. La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'individuare le cause di nullità, dovute alla erronea contestazione dei reati e alla modificazione dell'imputazione nel corso del procedimento, con riguardo all'incidenza che l'errore o la modifica ha avuto sulle possibilità di difesa dell'interessato; pertanto, ove, come nella specie, nessun pregiudizio sia derivato all'esercizio del diritto suddetto, nessuna nullità è possibile predicare con riguardo al provvedimento affetto dall'errore o interessato dalla modifica.

2. Il motivo relativo al fumus commissi delicti (il terzo del ricorrente, che viene esaminato prima del secondo per la sua priorità logica) è - parimenti - manifestamente infondato.

Il reato di cui all'art. 612-bis è integrato da una serie ripetuta di atti minacciosi o molesti che cagionano alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero ingenerano un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero costringono lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Nella specie, i giudici di merito - sulla base delle dichiarazioni della donna, attentamente valutate, e di numerosi testi, che assistettero ad un episodio di selvaggia aggressione perpetrato in data 22 giugno 2014 - hanno ampiamente e congruamente motivato in ordine alla determinazione - da parte dell'indagato - dell'evento preso in considerazione dalla norma (sia il grave stato di ansia e di paura, sia il mutamento delle abitudini di vita, determinati da comportamenti minacciosi e violenti dell'uomo, durati mesi ed acuitisi dopo l'avvio di una nuova relazione sentimentale da parte della ex-compagna). Poco importa, quindi, se, come sostiene il ricorrente, in relazione all'episodio del 22 giugno 2014 la donna non abbia proposto querela, giacché nel fuoco dell'indagine giudiziale sono entrati comportamenti durati mesi e idonei, da soli, a integrare l'elemento oggettivo del reato; né importa, per lo stesso motivo, che, nelle sommarie informazioni del 7/7/2014, la donna abbia - a dire del ricorrente - dichiarato di non aver incontrato di persona B.D. , posto che gli "incontri" procurati, in precedenza, dall'indagato assumono da soli la rilevanza supposta dalla norma penale (senza contare che gli atti persecutori possono essere compiuti senza contatto fisico).

3. È manifestamente infondata anche la doglianza relativa alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, desunte dalla natura e reiterazione delle condotte delittuose attribuite all'indagato e alla sua negativa personalità, apprezzata sia per i comportamenti - particolarmente odiosi - tenuti nei confronti della persona offesa, sia per i precedenti penali. Vale a dire, per le "specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini..., desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali", secondo la testuale definizione dell'art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., di cui l'ordinanza impugnata ha fatto puntuale applicazione.

4. Merita accoglimento parziale, invece, l'ultimo motivo di ricorso.

Com'è noto, l'art. 282-ter cod. proc. pen. - introdotto dal D. L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla legge 23 aprile 2009, n. 38 - ha tipizzato una nuova figura di misura cautelare al fine di contrastare, prevalentemente, il fenomeno degli atti persecutori, costituito dal divieto di avvicinamento dell'imputato o dell'indagato "a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa", nonché dall'imposizione dell'obbligo di "mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa".

È vivo nella giurisprudenza di questa Corte - ma non contraddittorio - il dibattito sui caratteri che devono avere le misure suddette, affinché le esigenze di cautela sottese alla norma siano conciliabili con i diritti e le necessità della persona cui le misure sono imposte, sotto un duplice profilo:

  1. a) quello di determinare una compressione della libertà di movimento dell'onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima;
  2. b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinché sia ben chiaro all'obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte. È compito del giudice, pertanto, riempire la misura di contenuti adeguati agli obbiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative.

Ritiene il collegio che una interpretazione letterale della norma consenta di superare le difficoltà applicative create da una misura che, nello spirito della legge, deve essere "calibrata" sulla situazione di fatto che si vuole tutelare in via cautelare. Ebbene, l'art. 282-ter prevede - innanzitutto - il divieto di avvicinamento "a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa" e l'obbligo di "mantenere una determinata distanza da tali luoghi", al fine - evidente - di assicurare alla vittima uno spazio fisico libero dalla presenza del soggetto che si è reso autore di reati in suo danno.

La norma ricalca l'analoga previsione contenuta nell'art. 282-bis cod. proc. pen., introdotto per analoghe ragioni, dalla legge 4 aprile 2001, n. 154, secondo cui il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell'incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può ordinare all'imputato o all'indagato, oltre che di lasciare immediatamente la casa familiare, "di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti".

In entrambe le disposizioni è contenuta, quindi, l'avvertenza di riempire la prescrizione di un contenuto specifico: quello della individuazione ("determinazione") del luogo a cui l'autore del reato non si deve avvicinare. Tale previsione corrisponde ad una esigenza pratica e una esigenza di giustizia: l'esigenza pratica è quella di rendere noto all'obbligato quali sono i luoghi da evitare, alla cui determinatezza è collegata la stessa praticabilità della misura; l'esigenza di giustizia è quella di contenere le limitazioni imposte all'indagato nei limiti strettamente necessari alla tutela della vittima e di assicurare a quest'ultima la certezza di uno spazio libero dalla presenza del prevenuto.

Entrambe le norme partono dal presupposto, quindi, che una indicazione generica del luogo "interdetto" all'obbligato non sia funzionale alle esigenze che si vogliono tutelare, perché non consentirebbe al prevenuto di sapere in anticipo quale comportamento è a lui richiesto.

A questa categoria è da ascrivere - ad avviso del Collegio - anche il divieto "di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa", sia perché l'obbligato non può sapere quali siano i luoghi suddetti - peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona - sia perché la misura assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell'offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente, di stabilire il contenuto della misura. Tanto, si badi bene, anche nel caso la frequentazione di un luogo avvenga, con priorità, da parte della persona sottoposta ad indagini, con la conseguenze - a dir poco paradossale - di imporgli un facere (allontanarsi dal luogo) anche quando sia la persona offesa ad avvicinarsi ad esso.

È da condividere, pertanto, la conclusione cui è pervenuta, sul punto, la Sez. VI di questa Corte, allorché ha rilevato che un provvedimento che si limiti a parlare, genericamente, di "luoghi frequentati dalla persona offesa", oltre a "non rispettare il contenuto legale, appare strutturato in maniera del tutto generica, imponendo una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa alla persona offesa" (Cass., n. 26816 del 7/4/2011. In senso conforme, Sez. 5, n. 27798 del 4/4/2013).

4.1. A conclusione diversa conduce, invece, l'imposizione - pure consentita dall'art. 282-ter cod. proc. pen., dell'obbligo di "non avvicinarsi alla persona offesa", ovvero quello di "tenere una determinata distanza dalla persona offesa".

Come è stato rilevato, l'art. 282-ter cod. proc. pen. è stato introdotto contestualmente alla previsione del reato di "atti persecutori", di cui all'art. 612-bis cod. pen., che ha tra le sue manifestazioni tipiche il costante pedinamento della vittima, da parte del soggetto agente, anche in luoghi nei quali la prima si trovi occasionalmente, e l'espressione di atteggiamenti intimidatori o molesti anche in assenza di contatto fisico diretto con la persona offesa e purtuttavia dalla stessa percepibili. Proprio per ovviare a questo tipo di "persecuzione" sono state previste, dal legislatore, le particolari misure del divieto di "avvicinamento" alla persona offesa, nonché quello di mantenere una determinata distanza dalla persona suddetta e il divieto di comunicazione. Il contenuto di queste misure è funzionale alla particolare tutela di cui è bisognosa la persona oggetto di attenzioni sgradite e di interferenze abusive nella sua sfera di vita personale, in quanto idonee a tenere lontano l'autore delle condotte sopra specificate.

La norma, in altre parole, viene incontro all'esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita lavorativa e sociale in condizioni di serenità e di sicurezza, anche laddove la condotta dell'autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria slegata da particolari ambiti territoriali; con la conseguenza che è rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi, ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell'indagato (in questo senso si è già espressa la sez. quinta di questa Corte, con le sentenze nn. 13568 del 16/1/2012; n. 36887 del 16/1/2013; n. 19552 del 26/3/2013).

Peraltro, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e il divieto di comunicazione, ovvero quello di tenere una determinata distanza da lei, non hanno affatto (contrariamente al divieto di stare lontano dai "luoghi" frequentati dalla persona offesa, a meno che l'espressione non venga interpretata come divieto di stare lontano dalla persona offesa puramente e semplicemente) un contenuto generico o indeterminato, come talvolta si è sostenuto, pure in dottrina, perché rimandano ad un comportamento specifico, chiaramente individuabile: quello di non ricercare contatti, di qualsiasi natura, con la persona offesa; e quindi di non avvicinarsi fisicamente alla persona suddetta, di non rivolgersi a lei con la parola o con lo scritto, di non telefonarle, di non inviarle SMS, di non guardarla (quando lo sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d'animo): insomma, di non fare tutto ciò che lo "stolker" è solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo.

Peraltro, la sfera di libertà del prevenuto non è affatto compressa, con le misure suddette, in maniera indefinita o eccessiva, ma solo nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima, poiché si risolve nel rapporto interpersonale tra due soggetti; e quindi rappresenta la misura di minima invadenza, alternativa ad altre, pure previste dall'ordinamento (anche per far fronte alle situazioni contemplate dall'art. 612.bis cod. pen.), che agiscono direttamente sulla persona e sulla sua libertà di locomozione. E non è nemmeno idonea a determinare violazioni involontarie delle prescrizioni giudiziali, rimanendo esclusi dall'ambito di rilievo penale gli eventuali, occasionali e non prevedibili incontri che non si traducano in alcun tipo di contatto molesto, dovendosi apprezzare, ai fini della valutazione del rispetto della misura, anche l'elemento soggettivo.

4.2. In definitiva, tenuto conto delle puntualizzazioni sopra esposte, corretta, e non contrastante con l'orientamento espresso dalla Sez. VI - sopra richiamato - appare la conclusione cui è giunta questa Corte fin dalle prime applicazioni della norma, allorché ha affermato che l'art. 282 ter cod. proc. pen. "ha assunto una dimensione articolata in più fattispecie applicative, graduate in base alle esigenze di cautela del caso concreto.

L'originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa rimane invero significativa nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d'azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, quali quelli indicati dall'art. 282 bis cod. proc. pen. nel luogo di lavoro o di domicilio della famiglia di provenienza. Laddove viceversa, ed è situazione come si è detto ricorrente per il reato di cui all'art. 612 bis cod. pen., la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, è prevista la possibilità di individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento.

Ed in tal caso diviene irrilevante l'individuazione di luoghi di abituale frequentazione della vittima; dimensione essenziale della misura è invero a questo punto il divieto di avvicinamento a quest'ultima nel corso della sua vita quotidiana ovunque essa si svolga.

La predeterminazione dei luoghi di cui sopra risulterebbe del resto, nella situazione descritta, chiaramente dissonante con le finalità della misura, per come in precedenza delineate. Detta predeterminazione verrebbe di fatto a porsi come un'inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma. La vittima si vedrebbe invero costretta a contenere la propria libertà di movimento nell'ambito dei luoghi indicati ovvero ad essere esposta, esorbitando dagli stessi, a quella condizione di pericolo per la propria incolumità che si presuppone essere stato riconosciuta sussistente anche al di fuori del perimetro della ricorrente frequentazione della persona offesa" (Cass., n. 13568 del 16/1/2012).

È compito del giudice del merito, pertanto, stabilire, in base alle concrete connotazioni assunte dalla condotta invasiva dell'agente, stabilire se questi debba tenersi lontano da luoghi determinati - in questo caso da indicare specificamente - ovvero se debba tenersi lontano, puramente e semplicemente, dalla persona offesa; e se una siffatta prescrizione debba essere accompagnata dal divieto di comunicare, anche con mezzi tecnici, con quest'ultima.

4.3. Alla luce di tali criteri va ritenuta eccessivamente generica la misura applicata a B. , allorché prescrive a quest'ultimo di non avvicinarsi "ai luoghi frequentati da G.E. ", in quanto i luoghi - intesi come porzioni di territorio della Repubblica - vanno specificamente individuati, con conseguente annullamento dell'ordinanza. Sarà compito del giudice di rinvio accertare se, oltre ai comuni di (OMISSIS) e (OMISSIS) , vi siano altri "luoghi" che, per le esigenze di tutela dalla vittima, vanno interdetti al prevenuto, ferma la possibilità di applicare a quest'ultimo un generale divieto di avvicinamento alla ex compagna. Non vi è necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Comunità Europea - richiesto dal Pubblico Ministero d'udienza - per l'interpretazione dell'art. 5, lett. C), della Direttiva 2011/99 UE del 13 dicembre 2011, sia perché la direttiva suddetta stabilisce le norme che permettono all'autorità giudiziaria o equivalente di uno Stato membro (in cui è stata adottata una misura di protezione volta a proteggere una persona da atti di rilevanza penale di un'altra persona, tali da metterne in pericolo la vita, l'integrità fisica o psichica, la dignità, la libertà personale o l'integrità sessuale) di emettere un ordine di protezione Europeo (art. 1 della Direttiva), di cui non è stata intravista la necessità nella specie, sia perché la lett. c) dell'art. 5 si riferisce alla possibilità di regolamentare "l'avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito", ma non esclude affatto un generale divieto di avvicinamento alla persona offesa. Non vi sono dubbi - pertanto - quanto alla corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Venezia.