Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Articoli

Intercettazioni telefoniche e ambientali, le videoriprese.

4 novembre 2014, Nicola Canestrini

 Le intercettazioni ambientali, autorizzazione, esecuzione ed utilizzabilità. Le videoriprese (materiale di studio della Scuola Superiore della Magistratura, Antonio D'Amato, 2014)

  

Scuola Superiore della Magistratura 

INCONTRO PER I MAGISTRATI ORDINARI

 

 CHE C’È DI NUOVO IN TEMA DI INTERCETTAZIONI?

  

Le intercettazioni ambientali, autorizzazione, esecuzione ed utilizzabilità. Le videoriprese.

 Scandicci (FI), 4 Novembre 2014. 

Relatore: Antonio D’Amato
Procura della Repubblica, Direzione distrettuale antimafia, Napoli 

 

 

 

Sommario

Premessa: nozione giuridica di intercettazione. 

1.        Finalità della normativa sulle intercettazioni. 

2.        Intercettazioni ambientali: presupposti e limiti di ammissibilità. Le video registrazioni. 

Premessa. 

2a. La previsione normativa delle intercettazioni ambientali. 

2b. Ambito delle intercettazioni fra presenti: la consapevolezza della registrazione del colloquio fra presenti ad opera di uno degli interlocutori. La registrazione a cornetta telefonica sollevata. 

2c. Nozione di domicilio. 

2d. Nozione di attività criminosa. 

2e. Modalità di installazione delle microspie. 

2f. Gli indizi, gravi o sufficienti. Intercettazioni ed esposto anonimo. Riferimenti normativi alla disciplina del c.d. doppio binario, avuto riguardo ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata. 

a.      Gli indizi e l’esposto anonimo. 

b. Sufficienti indizi di reato e nozione di “criminalità organizzata”. 

c. Le dichiarazioni degli informatori (art. 267, comma 1-bis cpp). 

d. I risultati. La valutazione delle confessioni o delle “chiamate in correità” oggetto di captazioni ambientali. 

2g. Riprese videofilmate ed altre captazioni (GPS). 

2h. La localizzazione mediante sistema satellitare (cosiddetto GPS). 

3. La motivazione dei decreti autorizzativi e la inutilizzabilità derivante dal vizio di motivazione. 

3a. In generale. 

3b. I vizi della motivazione. 

3d. Uso investigativo delle intercettazioni inutilizzabili. 

3e. I decreti del PM: nei casi di urgenza e in sede di esecuzione del decreto autorizzativo del GIP. I profili organizzativi degli Uffici di Procura in relazione al c.d. ascolto remotizzato. 

 

Premessa: nozione giuridica di intercettazione.

L’ordinamento giuridico italiano, attualmente, non fornisce una definizione dell’istituto delle intercettazioni e, a seguito della l. 23 dicembre 1993, n. 547, introduttiva degli artt. 617-bis, 617-ter, 617-quater e 617-quinquies cp, sono sorte ulteriori perplessità interpretative, poiché, tale espressione viene adottata per definire, promiscuamente, non soltanto attività tipicamente investigative, ma anche di diritto penale sostanziale. Anche una ricerca giurisprudenziale, volta alla soluzione dei problemi definitori, risulterebbe vana, in quanto scarsa è stata l’attenzione del giudice di legittimità, il quale ha preferito il ricorso ad un’accezione atecnica o ad un significato mutuato dal diritto processuale.

A ciò deve aggiungersi un costante dinamismo evolutivo che obbliga, da un lato, il legislatore e, dall’altro, la giurisprudenza, ad integrare il quadro normativo ed il diritto vivente alla luce progresso scientifico e tecnologico.

Piuttosto, è stata la dottrina a cercare di individuare una struttura minima dello strumento investigativo, ricorrendo ad una definizione di intercettazione processuale, quale mezzo di ricerca della prova, consistente nell’apprensione occulta e contestuale del contenuto di una conversazione o comunicazione tra soggetti, anche nella forma di flusso comunicativo informatico o telematico, come previsto dall’art. 266-bis cpp, mediante modalità oggettivamente idonee allo scopo, con intromissioni clandestine che superano il normale livello di percettibilità umana, operate da soggetti terzi rispetto ai conversanti, con apparecchiature in grado di fissarne l’eventoe tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del carattere riservato dell’atto dialogico.

 

1.     Finalità della normativa sulle intercettazioni.

Da una disamina delle principali norme codicistiche in materia di intercettazioni è possibile desumere i seguenti obiettivi che il legislatore ha inteso raggiungere:

a) rendere più rigoroso sia l’obbligo di vaglio dei presupposti che quello motivazionale nell’ambito dei provvedimenti del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, sia con riferimento alle intercettazioni telefoniche che a quelle c.d. ambientali (art. 267 cpp);

            b) rendere più rigoroso il divieto di pubblicazione degli atti relativi alle intercettazioni, assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e restringendo la conservazione delle comunicazioni intercettate non utili ai fini processuali (art. 269 cpp);

            c) rendere consapevole l’interessato dell’avvenuta intercettazione nei suoi confronti e, anche laddove l’indagine preliminare non fosse ancora conclusa, della facoltà di esaminare gli atti ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazione e informatici (art. 268,  comma 6, cpp), al fine di non ledere quel principio di diritto alla difesa garantito costituzionalmente nei tempi del giusto processo (artt. 24, 2° co. e. 111, 1° co., Cost.);

            d) rendere più trasparente l’azione investigativa, garantendo un uso delle informazioni ottenute attraverso le intercettazioni che sia limitato esclusivamente alle conversazioni rilevanti ai fini del procedimento (art. 271, 1° e 2° co., cpp).

 

Peraltro, la rigorosa valutazione dei presupposti fondanti la legittimità del ricorso a tale particolare invasivo strumento di ricerca della prova emerge, con nitida efficacia descrittiva, già dalla legge 16 febbraio 1987, n. 81 (delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), nella direttiva di cui all’art. 2, n. 41, la quale, dopo aver posto per il legislatore delegato il criterio consistente nella “determinazione della disciplina delle intercettazioni di conversazioni e di altre forme di comunicazione”, aveva fissato, per la disciplina legislativa, i seguenti principi:

a)   predeterminazione dei reati per i quali sono ammesse le intercettazioni e di quelli per i quali sono utilizzabili le intercettazioni effettuate in un diverso processo;

b)    predeterminazione della durata e delle modalità delle intercettazioni disposte;

c)     annotazione in apposito registro dei decreti motivati che dispongono o prorogano le intercettazioni;

d)    individuazione degli impianti presso cui le intercettazioni telefoniche possono essere effettuate;

e)     conservazione obbligatoria presso la stessa autorità che ha disposto l'intercettazione, della documentazione integrale, delle conversazioni e delle altre forme di comunicazioni intercettate; determinazione dei casi nei quali, a garanzia del diritto alla riservatezza, tale documentazione deve essere distrutta;

f)     previsione di sanzioni processuali in caso di intercettazioni compiute in violazione della disciplina di cui alle lettere precedenti.

 

2.     Intercettazioni ambientali: presupposti e limiti di ammissibilità. Le video registrazioni.

Premessa.

Saranno trattati in questa sede:

1) Gli “indizi” in tema di intercettazioni di conversazioni fra presenti.

2) I presupposti di ammissibilità delle intercettazioni di conversazioni tra presenti.

3) La motivazione dei decreti autorizzativi e la inutilizzabilità derivante dal vizio di motivazione.

4) La inutilizzabilità e le altre sanzioni connesse alle intercettazioni a fini cautelari.

5) Altre cause di inutilizzabilità.

6) I decreti di urgenza del del PM.

7) I decreti di esecuzione del PM.

 

 

2a. La previsione normativa delle intercettazioni ambientali.

L’art. 266, comma 2, cpp detta la disciplina dei requisiti di ammissibilità delle intercettazioni ambientali. A differenza delle intercettazioni telefoniche (art. 266, 1° comma, cpp) o di comunicazioni informatiche ovvero telematiche (art. 266-bis cpp), la regolamentazione delle intercettazioni di conversazioni fra persone presenti (dunque, di persone che non parlano fra di loro a distanza) si connota di una fisionomia ben distinta. Intanto, la disposizione in commento consente di individuare due sottocategorie delle conversazioni fra presenti, rientranti nel più ampio genus delle cd intercettazioni ambientali:

-       quelle inerenti le conversazioni fra presenti tout court (che segue la medesima disciplina delle intercettazioni telefoniche); 

-       quelle inerenti le conversazioni fra presenti, che si svolgano nei luoghi indicati nell’art. 614 cp, con un rimando alla fattispecie incriminatrice della violazione di domicilio, che, a sua volta, contempla i luoghi di privata dimora, individuandoli anche nel luogo adibito ad abitazione.

 

In  quest’ultimo caso è stata introdotta una disciplina più stringente, che presuppone, per la legittimità delle intercettazioni, la sussistenza di un “fondato motivo di ritenere che    -nel domicilio o luogo ad esso assimilabile-  si stia svolgendo l’attività criminosa”. Tale condizione non è, invece, richiesta quando l’intercettazione pertiene ad un procedimento per delitto di criminalità organizzata (art. 13, comma 1 seconda parte, d.l. 13 maggio 1991 n. 153 conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203). Di qui l’esigenza di dottrina e giurisprudenza di definire il concetto di luoghi di privata dimora, ma anche l’esigenza avvertita di chiarire il concetto di attività criminosa, che appare estranea al lessico del diritto penale, sostanziale e processuale.

 

 

2b. Ambito delle intercettazioni fra presenti: la consapevolezza della registrazione del colloquio fra presenti ad opera di uno degli interlocutori. La registrazione a cornetta telefonica sollevata.

Non rientra nel concetto di intercettazione la registrazione fonografica di una conversazione fra presenti effettuata da uno degli interlocutori; di tal che, in tali casi, non occorre il preventivo provvedimento autorizzatorio dell’autorità giudiziaria. Da ciò le Sez. un. della Corte di cassazione[1] hanno fatto discendere che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell'art. 234 cpp, salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa[2]. Tuttavia, la medesima sentenza Torcasio ha fissato una importante serie di limitazioni, stabilendo che non è, infatti, acquisibile al processo né, ove acquisita, è utilizzabile come prova la registrazione fonografica realizzata occultamente da appartenenti alla polizia, nel corso di operazioni investigative, durante colloqui da loro intrattenuti con indagati, confidenti o persone informate sui fatti quando si tratti rispettivamente di:

-       dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate all'art. 63 cpp;

-       informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell'art. 203 cpp;

-       dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli art. 62 e 195, comma 4, cpp.

A sostegno di tale principio la Corte ha osservato che la registrazione di una comunicazione da parte di soggetto che ne sia stato partecipe, per quanto astrattamente suscettibile di produzione come documento, non può sostituirsi, in violazione dell'art. 191 cpp, a fonti di prova delle quali la legge vieta l'acquisizione. Infatti, il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che il comma 4 dell'art. 195 cpp stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b), cpp, si riferisce tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime.

Al riguardo la Corte europea dei diritti dell’uomo, sin da un decennio prima, aveva affermato che la registrazione di un dialogo da parte dell’interlocutore su incarico della polizia giudiziaria e all’insaputa dell’altro viola il diritto alla riservatezza tutelato dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. E di tale principio si era servito anche il Gip Trib. Roma nella ordinanza 14 febbraio 2000[3], per affermare che la registrazione di una conversazione telefonica eseguita da uno degli interlocutori è inutilizzabile ai sensi dell’art. 191 cpp in quanto acquisita in violazione del divieto di ingerenza nelle comunicazioni previsto e regolato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche in questo caso si pone il delicato problema della compatibilità del nostro ordinamento con la disciplina prevista dalla CEDU e con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Allora volendo riepilogare il decalogo delineato dalla sentenza Torcasio, in ordine alla registrazione di un colloquio fra persone presenti ad opera di uno degli interlocutori, occorre distinguere:

 

            a) Registrazione fatta da Privato:

Genesi del documento al di fuori dell’ambito processuale e di ogni attività investigativa; utilizzabile come documento ai sensi dell’art. 234 cpp;

 

b) Registrazione fatta da un operatore della P.G.:

Tale problematica è molto rilevante, non solo per le intercettazioni telefoniche, ma anche e soprattutto per intercettazioni di conversazioni fra presenti, perché proprio in questo ambito difetta nel nostro ordinamento una specifica disciplina. Ricavata solo da principi giurisprudenziali peraltro, nemmeno pacifici (Divieti: artt. 63; 62 – 195, co. IV; 203 cpp). La “DEFORMALIZZAZIONE” del contesto nel quale determinate dichiarazioni vengono percepite dal funzionario di polizia non deve costituire un espediente per assicurare comunque al processo contributi informativi, che non sarebbe stato possibile ottenere ricorrendo alle forme ortodosse di sondaggio delle conoscenze del dichiarante. A diverse conclusioni si perviene ove si tratti di dichiarazioni di contenuto narrativo rese da terzi e percepite dal funzionario al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione delle medesime in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e cioè al di fuori di un dialogo fra teste e PG  (ad es. frasi pronunciate dalla persona offesa o da altri soggetti presenti al fatto nell’immediatezza dell’episodio criminoso; alle dichiarazioni percepite nel corso di attività investigative tipiche come perquisizioni, accertamenti sui luoghi –o atipiche– come appostamenti, pedinamenti– (in tali casi non vigono i divieti ex art. 195 cpp). 

 

c) Registrazione effettuata non dalla PG, ma da soggetto privato da essa “ATTREZZATO”:

il soggetto “ATTREZZATO” non solo effettua registrazione, ma trasmette al punto di ascolto esterno gestito da Procura In tali casi operano i divieti dichiarativi; si tratta di documento o intercettazione camuffata?

n  Alcune pronunce sostengono trattarsi di documento (Cass. Sez. VI sentenza 24 febbraio 2009, Abis, rv. 243256), anche quando la PG sia in grado di ascoltare le conversazioni contemporaneamente (Cass. Sez. I, sent. 19 febbraio 2009, Foglia, “rv. 243741);

n  L’orientamento antitetico nega natura documentale, affermando che l’attività in questione è sempre intercettiva.

 

Nel corso delle indagini preliminari condotte e coordinate dalla Procura di Napoli, prima della riforma sul giusto processo del 2001, era capitato che le due vittime, persone offese, di una vicenda estorsiva a connotazione mafiosa, si era giunti dall’ascolto di intercettazioni telefoniche legittimamente disposte, vennero sentite, successivamente dalla polizia giudiziaria, come persone informate sui fatti; la loro audizione, a loro insaputa, venne registrata: essi nell’approccio informale, dinnanzi alla polizia giudiziaria ammisero di aver subito e fatto acquiescenza al ricatto estorsivo. Allorquando si trattò di formalizzare la verbalizzazione, cominciarono a negare la vicenda. Nella richiesta d misura cautelare e nella successiva ordinanza emessa dal Gip vennero utilizzate le registrazioni della polizia giudiziaria; la questione venne, poi, posta all’attenzione della Corte di Cassazione, che, nel confermare la misura cautelare adottata (Sentenza Cass. Sez. 2, n. 28863, 1 luglio 2004 – Caso Vardaro) ebbe modo di precisare  che:

  • la registrazione fonografica era utilizzabile come documento (indizio) nella fase delle indagini preliminari e non già come deposizione della polizia giudiziaria che aveva  raccolto le dichiarazioni;
  • anche se, precisava, per il principio tempus regit actum, la modifica dell’art. 195 cpp non era applicabile ai fatti anteriori alla entrata in vigore della legge 63/01.

 

Quanto alla giurisprudenza della CEDU in subiecta materia:

n  la registrazione di una conversazione (telefonica o tra presenti) ad opera di uno degli interlocutori costituisce interferenza con la vita privata, non sempre ma quando sia eseguita con mezzi messi a disposizione dalle autorità investigative e nel contesto di un’indagine ufficiale; sicché, ove l’attività in questione non risulti regolata, nello Stato interessato, da alcuna specifica normativa, deve ravvisarsi una violazione dell’art. 8 CEDU.

 

Tale ingerenza nella vita privata viola l’art. 8 convenzione salvo che:

  • Non sia prevista dalla legge;
  • Non persegua uno o più scopi legittimi con riferimento al par. 2, art. 8;
  • Non sia necessaria in una società democratica per perseguire tali scopi

 

In altri termini la Corte di Strasburgo richiede qualcosa di più della mera esistenza della disciplina normativa per il rispetto dell’art. 8 Convenzione, e cioè la qualità della legge che si specifica:

  1. nella possibilità per l’individuo di conoscere il precetto legislativo e di comprenderne la portata
  2. nella formulazione sufficientemente precisa, ovvero possibilità per l’individuo di prevedere le conseguenze che possono derivare da una data azione.

 

Occorre, peraltro, richiamare sull’argomento la sentenza della Corte Cost. n. 320 del 2009; si tratta di una sentenza di inammissibilità, anche se è una classica decisione processuale “vestita”, attraverso la quale il giudice delle leggi sottolinea la possibilità di una interpretazione “adeguatrice”, idonea a superare il dubbio di costituzionalità e non praticata dal giudice a quo. Il giudice remittente dubitava della legittimità costituzionale degli artt. 234, 266 cpp, nella parte in cui  –secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, assunta quale «diritto vivente»–  includono tra i documenti, anziché tra le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, sottraendole così alla disciplina dettata per queste ultime o comunque non subordinandole ad un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, le registrazioni di conversazioni (telefoniche o tra presenti) effettuate da uno degli interlocutori o dei soggetti ammessi ad assistervi, all’insaputa degli altri, «di intesa con la polizia giudiziaria, eventualmente utilizzando mezzi messi a disposizione» da quest’ultima, «e, in ogni caso, nel contesto di un procedimento penale già avviato». La Corte Costituzionale ha affermato che non esiste uniformità di orientamenti giurisprudenziali, di tal che non esiste un diritto vivente sul punto; pertanto, non  suggerisce (nè lo potrebbe fare) la soluzione. Ma, al di là di quanto precede, è poi lo stesso rimettente a rimarcare come, dopo la sentenza del 2003, sia intervenuta una ulteriore, rilevante pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la sentenza 28 marzo 2006-28 luglio 2006, n. 26795, in materia di videoregistrazioni, la quale ha puntualizzato un aspetto rimasto in ombra nella precedente decisione: vale a dire la distinzione tra «documento» e «atto del procedimento» oggetto di documentazione. La sentenza del 2006 ha chiarito, in specie   -sulla scorta della relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale – che le norme sui documenti, contenute in detto codice, si riferiscono esclusivamente ai documenti formati fuori (anche se non necessariamente prima) e comunque non in vista né tantomeno in funzione del procedimento nel quale si chiede o si dispone che facciano ingresso. Pertanto, la sentenza del 2006 ha quindi escluso che le videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini possano essere introdotte nel processo come «documenti»: esse costituiscono piuttosto «documentazione dell’attività investigativa», rimanendo perciò suscettibili di utilizzazione processuale solo se «riconducibili a un’altra categoria probatoria». In particolare, ove eseguite in luoghi non fruenti di protezione costituzionale    -quali i luoghi pubblici, ovvero aperti o esposti al pubblico-   dette riprese visive restano utilizzabili nel processo come «prova atipica», ai sensi dell’art. 189 cpp. Al contrario, le videoregistrazioni in luoghi riconducibili al concetto di «domicilio» di cui all’art. 14 Cost., in assenza di una normativa che le consenta, disciplinandone i casi e i modi, debbono considerarsi inibite in assoluto: con la conseguenza che è vietata la loro acquisizione e utilizzazione nel processo, in quanto prova illecita. Da ultimo    -sempre secondo la citata sentenza-   le videoriprese in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono, possono essere eseguite dalla polizia giudiziaria, ma solo con un «livello minimo di garanzie», rappresentato da un provvedimento autorizzativo motivato dell’autorità giudiziaria. Nel frangente, è lo stesso giudice a quo a sostenere esplicitamente che, alla luce della «chiara distinzione» tracciata nel 2006 dal giudice di legittimità, la registrazione fonografica eseguita da uno degli interlocutori d’intesa con la polizia giudiziaria e con strumenti da essa forniti non costituisce più un «documento», ma la documentazione di un’attività di indagine.  Ma, se così è, cade la stessa premessa fondante della questione. Da un lato, infatti, l’affermazione ora ricordata è contraddittoria rispetto al petitum, con il quale si chiede alla Corte di sottrarre le registrazioni in parola dal novero delle prove documentali. Dall’altro lato, una volta escluso  -per affermazione dello stesso rimettente-   che si sia al cospetto di un documento utilizzabile a fini di prova ai sensi dell’art. 234 cpp, il giudice a quo avrebbe dovuto precisare per quale ragione, se ritiene che l’attività investigativa in questione contrasti con diritti fondamentali, non reputi praticabile una soluzione analoga, mutatis mutandis, a quella adottata dalle Sezioni Unite nella sentenza del 2006, da lui stesso invocata a fondamento delle proprie censure. Deve dunque concludersi che, in mancanza dell’asserito «diritto vivente»   -la cui esistenza viene ad essere posta in dubbio, sotto il profilo dianzi evidenziato, dalla stessa ordinanza di rimessione – la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal giudice a quo con riferimento ad una interpretazione della norma censurata da lui non condivisa, mira nella sostanza ad ottenere dalla Corte un avallo ad una diversa interpretazione, così evidenziando un uso improprio dell’incidente di costituzionalità.

Lungo questo solco si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI, 21 giugno 2010, n. 23742, secondo cui:

“La registrazione fonografica di un colloquio occultamente eseguita da uno degli interlocutori d'intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchi da questa forniti non costituisce un «documento» formato fuori dal procedimento e utilizzabile ai fini di prova ai sensi dell'articolo 234 del Cpp, ma rappresenta piuttosto documentazione di un'attività di indagine, dato l'uso investigativo dello strumento di captazione che in tal caso viene realizzato, con la conseguenza che tale attività, venendo a incidere sul diritto alla segretezza delle conversazioni e delle comunicazioni (articolo 15 Cost.) richiede un controllo dell'autorità giudiziaria. Tale controllo, tuttavia, non implica la necessità di osservare le disposizioni relative all'intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli articoli 266 e seguenti cpp, ma è sufficiente un intervento di garanzia minore quale un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto del pubblico ministero”.

 

Si inserisce nell’argomento trattato la questione della intercettazione telefonica “a cornetta sollevata”, ossia il casuale ascolto di tale conversazione, nel corso di una intercettazione telefonica ritualmente autorizzata. Si discute cioè se la evenienza descritta dia luogo ad una prova utilizzabile oppure se, al contrario, per la relativa captazione, occorra il rispetto delle condizioni poste per le intercettazioni ambientali. La assoluta maggioranza delle decisioni in proposito si è espressa nel senso di ritenere che la registrazione di colloqui fra presenti, nel caso appena indicato, non dipende da una indebita violazione della privacy, ma dal comportamento degli interlocutori, i quali, lasciando il ricevitore alzato, fanno sì che la loro conversazione   -altrimenti percepibile solo tramite una intercettazione ambientale-  viaggi liberamente lungo la linea telefonica, rimanendo scoperta dal punto di vista della segretezza. Considerano dunque il risultato utilizzabile ai fini della applicazione di una misura cautelare, non rientrando nella sfera di operatività degli artt. 15 Cost. e 266-271 cpp, che non sono applicabili nella specie[4].

 

2c. Nozione di domicilio.

Costituisce ius receptum giurisprudenziale il fatto che la nozione di domicilio prevista dall’art. 614 cp abbia una portata più ampia rispetto a quella sussumibile dall’art. 14 Cost. Per domicilio debbono intendersi, dunque, “tutti  -quei-  luoghi, siano o meno di dimora, in cui può aver luogo il conflitto di interessi che essa regola, […] nei quali è temporaneamente garantita un’area di intimità e di riservatezza (ius excludendi alios) e che assolvono, attualmente e concretamente, la funzione di salvaguardare la vita privata”. Ne consegue, a corollario di tale definizione, che qualunque intromissione nella privata dimora possa avvenire nel rispetto delle minime garanzie costituzionali contemplate dall’art. 14 Cost., ossia tramite l’emanazione, da parte dell’autorità giudiziaria, di un atto motivato od anche con provvedimento motivato del pubblico ministero, stante la generica formulazione dell’art. 14 Cost. L’atto autorizzativo dovrà necessariamente indicare gli scopi perseguiti nel caso di specie e “dimostrare l’esistenza di esigenze investigative ricollegabili al fine, costituzionalmente protetto, di prevenzione e repressione dei reati”. La definizione, pertanto si basa, in toto, sul binomio uomo-ambiente e, su questa scia, Francesco CARRARA rappresentava il domicilio come una proiezione spaziale della persona, per cui la libertà domiciliare si esplica nel “diritto inerente alla umana personalità che irraggia nell’ambiente destinato al di lei ricovero”[5]. La giurisprudenza, col tempo, ha arricchito il novero dei luoghi assimilabili a privata dimora, includendo l’ufficio privato[6] e il bagno di un locale pubblico, in quanto “chi vi si reca non solo non rinuncia alla propria intimità e alla propria riservatezza, ma presuppone che gli vengano garantite, e sia pur temporaneamente, gli sia consentito opporsi all’ingresso di altre persone”[7], seppure, qualche anno più tardi, la Suprema Corte, tornando sull’argomento, ha dichiarato utilizzabili le intercettazioni audiovisive effettuate dalle forze dell’ordine, prive dell’autorizzazione del Gip, all’interno del bagno di un locale pubblico, perché non assimilabile a luogo di privata dimora, mancando il requisito dell’apprezzabile durata, che, per quanto breve, deve essere tale da permettere il dispiegarsi dello svolgimento della vita privata[8]. Tale scelta fu aspramente criticata da una parte della dottrina[9], che reputava inammissibili quelle intercettazioni ritenute invece utilizzabili, seppur prive della mancata autorizzazione dell’autorità giudiziaria, sulla scorta di un ragionamento per cui tali riprese visive violassero evidentemente il principio costituzionale alla libertà domiciliare, consacrato dall’art. 15 Cost. Proseguendo con una breve rassegna giurisprudenziale, si esclude possano costituire luoghi paragonabili a privata dimora, l’abitacolo di un’autovettura, i luoghi aperti al pubblico per l’esercizio di attività commerciali e la camera di un ospedale pubblico in cui il degente non abbia la disponibilità esclusiva[10]. Per ultimo, ai fini dell’ammissibilità ed utilizzabilità delle intercettazioni tra presenti, è stato ritenuto dalla Consulta che la cella di un carcere non possa essere considerata luogo di privata dimora, mancando, ai detenuti, la disponibilità di quel fondamentale ius excludendi alios, spettante integralmente e unicamente alla sola amministrazione penitenziaria, ferma restando, inoltre, la possibilità di intercettare comunicazioni telefoniche di detenuti o internati, ai sensi dell’art. 39 d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230.

Ripassiamo l’elaborazione giurisprudenziale sul concetto di privata dimora.

Innanzitutto, debbono essere citate le decisioni che hanno negato tale qualità a determinati ambienti. Si pensi all’agenzia di pompe funebri, non inclusa nella categoria in parola essendo un luogo aperto al pubblico, dove si esercita attività commerciale, in contatto diretto e continuo con la clientela e quindi con accesso indiscriminato di persone, con la conseguenza che non può affermarsi che esso assolve alla funzione di proteggere la vita privata, nelle sue diverse applicazioni concernenti il riposo, l’alimentazione, l’amministrazione, l’occupazione professionale o lo svago di chi vi si trattiene (Sez. IV, 12 dicembre 2002, n. 45323, Tripodo, rv 226887); Sez. II, 21 aprile 1997, n. 2873, Viveri, rv 208756, ha negato la qualità all’ufficio del sindaco; Sez. I, 17 dicembre 1991, n. 4962, D’Ancona, rv 189427, ha sottolineato che è privata dimora il deposito di una attività commerciale “nei momenti di chiusura”. In senso diverso, Sez. VI, 29 settembre 2003, n. 49533, Giliberti, rv 227835, ha osservato che la nozione di privata dimora non evoca solo i luoghi ove si svolge la vita domestica e cioè la casa di abitazione, ma comprende anche ogni altro luogo in cui il soggetto che ne dispone abbia la titolarità dello jus excludendi alios a tutela della riservatezza inerente alla vita privata. Ne consegue che anche l'ufficio privato è luogo di privata dimora, poiché chi ne dispone svolge in esso la sua attività lavorativa, che implica un aspetto dello svolgimento della vita individuale in cui è compreso l'intrattenimento diretto o mediante mezzi di comunicazione con le persone che il titolare ammette ad entrare nella sua sfera privata (Sez. I, 19 ottobre 1992, n. 4141, Liggieri, rv 192395, relativa ad una agenzia di trasporti).

La Corte eur. d. uomo ha riconosciuto che è impossibile distinguere le attività professionali o commerciali dalle altre, con la conseguenza che l’art. 8 della Convenzione[11] si applica pure alle conversazioni effettuate sulla linea telefonica generalmente utilizzata per lo svolgimento della attività lavorativa, essendo in proposito ininfluente la peculiarità che si tratti di un apparecchio telefonico dell’ente da cui si dipenda, qualora non si sia informati che le intercettazioni sono possibili a discrezione del datore di lavoro[12]. Inoltre ha stabilito che l’interessato, indipendentemente dalla circostanza che sia titolare o solo fruitore della linea telefonica sottoposta a sorveglianza, deve poter disporre di strumenti per ottenere un controllo efficace sull’esercizio del potere di intercettazione da parte della autorità[13].

Con riferimento all’ambiente carcerario, cui è stata negata la qualifica di “privata dimora”, si registra una pronuncia[14], che ha anche escluso che siffatta interpretazione     -da cui discende la non operatività dei limiti posti dall’art. 266, comma 2, cpp-   collida col principio di uguaglianza in relazione alla operatività, invece, degli stessi limiti per le captazioni delle conversazioni dei detenuti o imputati che si trovino in stato di detenzione domiciliare o di custodia domiciliare. La Cassazione ha affermato che è manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale relativa all’art. 266, comma secondo, cpp, nella parte in cui consente, diversamente da quanto previsto per la captazione dei colloqui del soggetto in stato di detenzione o custodia domiciliare, l'intercettazione delle conversazioni dei detenuti anche se non sussiste il fondato timore che all'interno della cella si stia svolgendo attività criminosa. Ed invero, a norma dell'art. 13 D.L. n. 152 del 1991, è previsto che qualora il procedimento abbia ad oggetto reati di 'criminalità organizzata, l'intercettazione nei luoghi indicati dall'art. 614 cod. pen. è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa. Peraltro deve escludersi che l'ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell'istituto di detenzione, rientri nel concetto di privata dimora nel possesso e nella disponibilità dei detenuti, in quanto è pur sempre un luogo sottoposto  ad un diretto controllo dell'amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la vigilanza ed a cui soltanto compete lo ius excludendi. Sicché deve ritenersi che l’intercettazione, a fini di indagine, di tali colloqui sia consentita, a pena di inutilizzabilità, solo se debitamente autorizzata nelle forme di legge. Trattandosi, tuttavia di luoghi non di privata dimora, non occorre il requisito che in quei luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa.

Argomento controverso è stato anche quello riguardante l’abitacolo di una autovettura. Ancora una volta è utile richiamare la motivazione delle Sez. Un. Policastro, la quale ha passato in rassegna la giurisprudenza formatasi in materia, pur senza sciogliere il nodo interpretativo, perché la questione non presentava rilevanza del caso affrontato.  La stragrande maggioranza delle pronunce del giudice di legittimità si è schierata a favore della soluzione negativa[15]. La sentenza delle Sezioni unite, nel dare atto del contrasto determinato dalla isolata[16] pronuncia della II Sezione, Zagaria, ha ricordato come tale ultima tesi trovasse conforto in una sentenza della Corte costituzionale (n. 88 del 1987) resa peraltro in una materia diversa[17]. Ebbene, la sentenza Policastro ha ricordato che il giudice delle leggi “non ha manifestato dubbi circa la configurabilità dell’autovettura come luogo di privata dimora, sia pure esposto al pubblico, dal quale il titolare ha il diritto di escludere ogni altro, richiamando    -pur se non incontrovertibilmente-  il “diritto penale vivente” formatosi all’ epoca con riferimento a problematiche di diritto sostanziale estranee al thema decidendum”. 

 

 

2d. Nozione di attività criminosa.

Quanto poi alla portata del precetto per cui la intercettazione deve essere funzionale all’accertamento di “attività criminosa in atto”, è utile ricordare la sentenza della Cass. Sez. VI, 6 ottobre 1999, n. 3093, Perre, rv 215279[18], secondo la quale, ai fini della verifica di tale presupposto, non può dirsi che esso non ricorra per il fatto che la presunta attività criminosa risulti essere ulteriore rispetto ai fatti criminosi già emersi a seguito delle indagini pregresse, non essendo siffatta limitazione prevista nè espressamente nè implicitamente dalla legge. In ogni caso, l'attività diretta alla assicurazione del profitto del reato, pur essendo posta in essere post delictum, attiene comunque alla condotta delittuosa consumata, della quale costituisce il completamento "economico" o, se si vuole, una delle "conseguenze ulteriori", il che autorizza a definirla "attività criminosa" ai sensi e per gli effetti dell'art. 266, comma secondo, cpp[19].

 

 

2e. Modalità di installazione delle microspie.

Le intercettazioni di conversazioni che si svolgano all’interno di luoghi di privata dimora può avvenire con apparecchiature tecniche collocabili sia dall’esterno sia dall’interno. In quest’ultimo caso si pone il problema di quali siano i limiti scriminanti dell’autorizzazione giudiziaria rispetto alle attività criminose necessarie per la violazione del domicilio. A differenza della dottrina prevalente, la giurisprudenza costante è dell’avviso che l’intercettazione di comunicazioni inter praesentes è realizzabile soltanto mercé l’introduzione, necessariamente clandestina, in abitazioni ed in altri luoghi di privata dimora per l’installazione degli strumenti di ascolto e registrazione; ha, poi, aggiunto che la limitazione così arrecata alla libertà di manifestazione, di segretezza e di domicilio trova, però giustificazione nelle superiori esigenze di giustizia[20]. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca l’orientamento della Corte di Cassazione, Sez. 6, Sent. n. 1586 del 08/05/1992[21], che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266, secondo comma, cpp e della corrispondente disposizione dell'art. 2, n. 41, lettera b), della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, sotto il profilo del contrasto con l'inviolabilità del domicilio, che sarebbe vulnerata in quanto, non essendo stabilite per legge le modalità di captazione delle conversazioni tra presenti, le norme denunciate potrebbero essere interpretate nel senso di legittimare l'ingresso fraudolento dell'autorità di polizia nei luoghi di privata dimora per l'installazione di microspie. Premesso che è caratteristica connaturata all'intercettazione, quale atto "a sorpresa", che i soggetti intercomunicanti siano ignari della presenza del terzo in grado di captare i loro discorsi, se è pur vero che l'art. 14, secondo comma, Cost., nel determinare le garanzie di cui l'inviolabilità del domicilio è circondata nei confronti della pubblica autorità fa intendere che questa può compiere del domicilio solo gli atti di coercizione reale, le esigenze di realizzare interessi generali protetti dalla Costituzione s'impongono e vanno soddisfatti con l'interesse all'inviolabilità del domicilio, il quale trova dei limiti nella tutela d'interessi generali anch'essi costituzionalmente protetti, ravvisabili, con riguardo alle norme denunciate, nell'esigenza di esercitare l'azione penale (art. 112 Cost.)[22].

 

 

2f. Gli indizi, gravi o sufficienti. Intercettazioni ed esposto anonimo. Riferimenti normativi alla disciplina del c.d. doppio binario, avuto riguardo ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

Punto di partenza dell’analisi è che i gravi indizi che, ai sensi dell'art. 267, comma 1, cpp, costituiscono presupposto per il ricorso alle intercettazioni, attengono all'esistenza del reato e non alla colpevolezza di un determinato soggetto; per procedere ad intercettazione non è pertanto necessario che i detti indizi siano a carico dei soggetti le cui comunicazioni debbano essere, a fine di indagine, intercettate (Sez. VI, 18 giugno 1999, n. 9428, Patricelli F., rv 214127; Sez.V, 7 febbraio 2003, n. 38413, Alvaro e altri, rv 227413). Ancor meglio precisa Cass. Sez. V, 8 ottobre 2003, n. 41131, Liscai, rv 227053, che i presupposti della intercettazione sono la sua indispensabilità ai fini delle indagini e la sussistenza dei gravi indizi di reato. Tale secondo requisito va inteso non in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell'accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche, con la conseguenza che è da ritenere legittimo il decreto di intercettazione telefonica (ma l’affermazione deve ritenersi valida anche per le c.d. intercettazioni di comunicazioni fra presenti) disposta nei confronti di un soggetto che non sia iscritto nel registro degli indagati.

Si registra un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di utilizzare, quale indizio di reato ai fini della autorizzazione alla intercettazione, le dichiarazioni spontanee dell’indagato rese a norma dell’art. 350 cpp, non verbalizzate nelle forme dell’art. 357 cpp ma annotate sommariamente in forma libera. Da un lato, Cass. Sez. VI, 22 gennaio 2004, n. 14980, Picano, rv 229398, ha rilevato che queste possono essere utilizzate erga alios quali indizi nella fase delle indagini preliminari ai fini dell'autorizzazione dell'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche nell'ambito di un procedimento per delitti di criminalità organizzata, non ricorrendo alcuna ipotesi di inutilizzabilità generale di cui all'art. 191 cpp ovvero di inutilizzabilità specifica. Dall’altro, secondo Cass. Sez. I, 12 ottobre 1994, n. 4480, Savignano, rv. 200226, la mancata verbalizzazione, da parte della polizia giudiziaria, di atti che, ai sensi dell'art. 357, comma secondo, cpp, dovrebbero essere verbalizzati comporta che tali atti, in quanto privi di documentazione, siano da considerare inesistenti e, come tali, indipendentemente da ogni riferimento alle categorie della nullità e della inutilizzabilità, inidonei ad essere assunti a base anche della semplice adozione di misure cautelari.

 

a.     Gli indizi e l’esposto anonimo.

La denuncia anonima non può probatoriamente essere utilizzata, ma non vi è dubbio che le notizie contenute nella stessa possano ed anzi debbano, per effetto del principio della obbligatorietà dell'azione penale, costituire spunti per una investigazione di iniziativa del Pubblico Ministero o della polizia giudiziaria, al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi utili per la individuazione di una valida notitia criminis (Cass., Sez. 4, 17 maggio 2005 - 10 agosto 2005, n. 30313, CED 232021). Naturalmente in base alla denuncia anonima non possono essere compiuti atti, quali ad esempio le intercettazioni telefoniche o fra presenti, che presuppongono la esistenza di indizi di reato, proprio perché l'anonimo non è utilizzabile. Appare opportuno riportare l’opzione ermeneutica e, di conseguenza, operativa di qualche ufficio giudiziario, che, a fronte di un esposto anonimo molto dettagliato e circostanziato ha ritenuto configurabile il delitto di calunnia (art. 368 cp, falsa incolpazione contenuta in una denuncia anonima); e ciò sulla base del ragionamento secondo cui il pubblico ministero deve svolgere atti di verifica al fine di acquisire una valida notitia criminis, con conseguente idoneità di tali atti a ledere l'interesse al corretto funzionamento della giustizia e l'interesse privato della persona offesa, qualora la denuncia si riveli priva di fondamento (si veda Cass., Sez. 6, 8 novembre 2006 - 14 dicembre 2006, n. 40763, CED 235473).
Quindi correttamente un Pubblico Ministero (Perugia), di fronte ad una denuncia anonima, che ipotizzava gravi reati contro la Pubblica Amministrazione, ha operato una iscrizione nel registro a carico di ignoti (Mod. 44) per il delitto di calunnia ed ha avviato le investigazioni utili sia ad individuare l'anonimo, sia a chiarire i fatti di cui lo scritto anonimo parlava. Le investigazioni suddette, come precisato dal provvedimento impugnato, hanno prodotto la nota della Squadra Mobile di Perugia del 28 dicembre 2006, che non ha individuato l'anonimo, ma ha fornito un quadro più completo della situazione denunciata con l'avvertenza che l'appalto di cui l'anonimo parlava stava per essere aggiudicato. In siffatta situazione, del tutto logicamente, il Pubblico Ministero ha ritenuto che fossero ravvisabili due ipotesi di reato alternative, ovvero la calunnia, questa volta sostanziata da elementi pienamente utilizzabili, oppure gravi reati contro la pubblica amministrazione emergenti dalla citata nota della polizia giudiziaria. La ragionevole considerazione che l'anonimo, così bene a conoscenza di vicende concernenti la aggiudicazione di appalti, potesse essere in contatto telefonico con alcuni concorrenti alle gare in corso ha indotto il Pubblico Ministero a richiedere ed il GIP ad autorizzare, intercettazioni telefoniche sulla utenza dell'imprenditore concorrente in numerose gare; lo consentivano sia i reati ipotizzati  -calunnia-  per i quali erano ravvisabili gravi indizi di reato, sia la urgente  -imminente aggiudicazione di un appalto - ed indispensabile necessità di intervenire[23].

 

b. Sufficienti indizi di reato e nozione di “criminalità organizzata”.

Problematiche sono nate attorno alla ipotesi derogatoria per la quale bastano “sufficienti indizi”.È noto che il legislatore del 1991 (art. 13 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, successivamente modificato dall’art. 3-bis d.l. 8 giugno 1992, n.

133 conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356 e da ultimo dall’art. 23, l. 1° marzo 2001, n. 63) ha attenuato le condizioni di legittimazione dei decreti di intercettazione richiesti per indagini su “delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono”, prevedendo, tra l’altro, che a tale fine il mezzo sia non “indispensabile” ma semplicemente “necessario” per le indagini e richiedendo indizi di quei reati non “gravi” ma solo “sufficienti”. La disciplina in esame è stata estesa[24] ai procedimenti per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4 cpp (delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale con pena non inferiore nel minimo a 5 anni o nel massimo a 10 anni, delitti di cui all’art. 270 comma 3, 270 bis comma 2, 306 comma 2, cod. pen.) e per il delitto ex art. 270-ter cp (Assistenza agli associati nei reati di associazione sovversiva e di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico). I principi in parola si applicano poi[25] ai procedimenti per i delitti previsti dagli artt. 600-604 cp (Riduzione in schiavitù, Prostituzione minorile, Pornografia minorile, Detenzione di materiale pornografico, Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, Tratta e commercio di schiavi, Alienazione e acquisto di schiavi) e per i delitti di cui all’art. 3, l. 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. legge Merlin). Sulla nozione di criminalità organizzata si è soffermata (sia pure a fini diversi e cioè nella disamina della eccezione alla regola posta dall’art. 266, comma 2, cpp, dal citato art. 13, comma 1, secondo inciso, d.l. 152/1991) la sentenza della Cass. SS. UU. Policastro (31 ottobre 2001, n. 32, dep. 28 novembre 2001, n. 42792), dando conto, senza prendere posizione per difetto di rilevanza della questione, del contrastante orientamento giurisprudenziale: da un lato, la interpretazione estensiva che ricomprende nella nozione tutte le attività criminose poste in essere da una pluralità di soggetti costituitisi in apparato organizzativo[26] e, dall’altro, l’orientamento più rigoroso che fa riferimento a catalogo di reati di cui agli artt. 407, comma 2, lett a), 372, comma 1-bis, 51 comma 3-bis cpp[27].

Da ultimo, la questione è stata affrontata nella sentenza delle Sezioni Unite 22 marzo 2005, Petrarca, dep. 11/5/05 n. 17706. Dalla informazione provvisoria sulla decisione si desume che la Corte ha ritenuto che nel procedimento penale rimesso al suo esame, relativo fra l’altro ad imputazione ai sensi dell’art. 416 cp., l’appello che il P.M. aveva presentato al Tribunale della libertà (così dando luogo alla ordinanza oggetto di ricorso per cassazione) fosse inammissibile, in quanto per la fattispecie associativa non operava la sospensione dei termini nel periodo feriale, a norma dell’art. 2 comma 2 l. n. 742 del 1969. Si deduce pertanto che, poiché la sospensione dei termini delle indagini preliminari nel periodo feriale non opera nei processi per “reati di criminalità organizzata”, la decisione della suprema Corte si sia fondata sull’assunto che il procedimento sottoposto al suo esame, instaurato anche per il reato di cui all’art. 416 cp, dovesse fruire del regime previsto dall’art. 2 comma 2 l. cit., ossia quello derogatorio per il quale non opera la sospensione dei termini, essendo anche l’associazione per delinquere “semplice” fattispecie rientrante nella nozione di “reato di criminalità organizzata”[28].

 

c. Le dichiarazioni degli informatori (art. 267, comma 1-bis cpp).

Uno dei temi più dibattuti è stato quello della (in)utilizzabilità delle dichiarazioni degli informatori. La legge 1° marzo 2001, n. 63, infatti, ha modificato gli artt. 203 e 267 cpp, introducendo, nelle medesime disposizioni, i commi 1-bis, diretti ad impedire che le dette dichiarazioni possano fondare i gravi indizi idonei atti a giustificare il ricorso alla intercettazione. Prima della riforma, la sentenza della Cass. Sez. un. 21 giugno 2000, Primavera, aveva ritenuto “idonee ad integrare il requisito della sufficienza degli indizi di reato (si trattava di un delitto di criminalità organizzata) le informazioni legittimamente acquisite dall’organo di polizia giudiziaria riferite al PM e da questi poste a fondamento della richiesta di “autorizzazione alle intercettazioni”[29].

Dopo la riforma, la Corte di Cassazione, Sez. un., 26 novembre 2003 (Gatto), ha ribadito, tale tesi, rimarcando come la stessa valga a ritenere legittime le intercettazioni compiute sulla base di decreti (fondati sulle dichiarazioni di informatori) emessi prima della modifica normativa ed in ossequio al principio del tempus regit actum. Nella catena delle proroghe successive, poi, gli indizi erano stati desunti dai risultati delle intercettazioni legittimamente disposte per le ragioni dette, sicchè, nel caso concreto, non si registrava la violazione della l. 63/2001. Uguale principio ha espresso la coeva sentenza della Sez. V, 26 ottobre 2003, n. 46221, Altamura ed altro, rv 227482, la quale ha sottolineato come il discrimine per la applicazione della normativa processuale sopravvenuta fosse rappresentato dal momento della assunzione della prova e non della sua valutazione[30].

In precedenza, Sez. VI, 4 luglio 2003, n. 36382, Dell’Anna, rv 227144, aveva osservato come il principio di inutilizzabilità del mezzo probatorio determinato dal mancato esame o interrogatorio dell’informatore (ex art. 203 comma 1-bis cpp, inserito dalla l. n. 63 del 2001) non si applicasse ai procedimenti (di criminalità organizzata) in cui l’intercettazione fosse già stata autorizzata al momento di entrata in vigore della l. n. 63.

Non ricorre la nozione di “informatore”, d’altra parte, quando la polizia giudiziaria abbia indicato negli atti le generalità complete dell’informatore ed abbia precisato in una relazione di servizio il contenuto delle notizie da questi riferite, venendo meno in tal caso il carattere anonimo della fonte e non essendo preclusa per gli agenti operatori, riguardo alla fase delle indagini preliminari, una siffatta documentazione delle dichiarazioni raccolte (Sez. Fer., 6 agosto 2003, n. 35450, Cardamone, rv 228221).

 

 

d. I risultati. La valutazione delle confessioni o delle “chiamate in correità” oggetto di captazioni ambientali.

Pacificamente è ammessa dalla giurisprudenza di legittimità la utilizzabilità senza condizioni, fatto salvo il potere di valutazione del giudice, delle dichiarazioni rese nel corso di una conversazione intercettata da persona che solo successivamente abbia assunto la veste di imputato. Si osserva che, in materia di intercettazioni telefoniche, ma il medesimo orientamento vale anche per quelle ambientali, non trovano applicazione gli artt. 62 e 63 cpp, in quanto le ammissioni di circostanze indizianti, fatte spontaneamente dall'indagato nel corso di una conversazione ritualmente intercettata, , non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese nel corso dell'interrogatorio dinanzi all'Autorità giudiziaria o a quello di polizia giudiziaria, nè le registrazioni e i verbali delle conversazioni telefoniche (e ciò vale anche per le intercettazioni ambientali) sono riconducibili alle testimonianze de relato sulle dichiarazioni dell'indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse, di cui rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto[31]. La Corte costituzionale si è espressa nello stesso senso con la sentenza, 4 aprile 1973, n. 34.

Allo stesso modo si è rilevato che il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato, alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di aver partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e, pertanto, se va anch'esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all'art 192, comma 3, cpp[32].

Quanto al profilo dei conversanti, va detto, immediatamente, che occorre avere cura, da parte del pubblico ministero investigante, che l’ascolto dei contenuti delle intercettazioni sia associato alla contemporanea esecuzione di servizi di osservazione e pedinamento, che, talvolta, possono anche culminare nella effettuazione, apparentemente occasionale di attività di controllo, perquisizione e sequestri; e tutto ciò soprattutto in funzione della sicura attribuzione delle voci intercettate.

Quanto alla valenza probatoria delle conversazioni captate va premesso che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale "il contenuto di un'intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di avere partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e, pertanto, se va anch'esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all'art 192, comma 3, cpp".  Ne deriva che, se, per un verso, si deve ritenere che, nella valutazione delle affermazioni intercettate, non si applichi la regola di giudizio di cui all'art. 192, comma 3, cpp (che richiede la sussistenza di "altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità"), per altro verso, si deve comunque riconoscere che anche nei confronti delle intercettazioni si pone un problema di "esatta comprensione" e di "credibilità" delle affermazioni fatte dai conversanti. Sotto il profilo dell'esatta comprensione, la Suprema Corte ha affermato, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, che "il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati, assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione. In questo caso ben può il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni. Se, invece, la conversazione captata non è connotata da queste caratteristiche  -per l'incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell'intercettazione, per la criticità del linguaggio usato dagli interlocutori, per la non sicura decifrabilità del contenuto o per altre ragioni-   non per questo si ha un'automatica trasformazione da prova ad indizio, ma è il risultato della prova, che diviene meno certo con la conseguente necessità di elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti. E. quindi, in definitiva, i criteri di valutazione della prova divengono quelli della prova indiziaria". A tal proposito, la Corte regolatrice ha affermato che "gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell'imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati od elementi certi...". Sotto il profilo, non meno rilevante, della "credibilità" delle affermazioni  intercettate e, quindi, della loro valenza probatoria, la giurisprudenza di legittimità distingue tre tipi d'intercettazione: quelle totalmente auto-accusatorie, quelle parzialmente auto-accusatorie e quelle totalmente etero-accusatorie. Le intercettazioni auto-accusatorie sono tali in quanto è lo stesso conversante, che esplicitamente od implicitamente accusa se stesso di aver commesso un dato reato, sicché le affermazioni pronunciate dall'imputato o dall'indagato "contra se" equivalgono ad una sorta di confessione extragiudiziale e, pertanto, "hanno integrale valenza probatoria". A tal riguardo la Suprema Corte ha altresì sottolineato che "in materia di intercettazioni telefoniche non trovano applicazione gli artt 62 e 63 cpp, in quanto le ammissioni di circostanze indizianti, fatte spontaneamente dall'indagato nel corso di una conversazione telefonica, la cui intercettazione sia stata ritualmente autorizzata, non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese del corso dell'interrogatorio dinanzi all'Autorità giudiziaria od a quello di polizia giudiziaria, né le registrazioni ed i verbali delle conversazioni telefoniche sono riconducibili alle testimonianze de relato sulle dichiarazioni dell'indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse di cui rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto". Le intercettazioni parzialmente auto-accusatorie sono quelle nel corso delle quali uno dei conversanti accusa sé di avere commesso un dato reato, in concorso con un terzo del tutto estraneo alla conversazione. Tali conversazioni possono, in linea di principio, costituire prova diretta della responsabilità senza bisogno di ulteriori elementi di conferma, ma, essendo coinvolto pur sempre un terzo estraneo alla conversazione, la loro valutazione deve sempre avvenire con particolare rigore. Infine, le intercettazioni totalmente etero-accusatorie sono quelle nel cui ambito uno od entrambi i conversanti accusano un terzo di avere commesso un determinato reato. In relazione a tali intercettazioni la Corte di Cassazione ha in più occasioni sottolineato che "...nel caso di generiche affermazioni fatte da terze persone nel corso di conversazioni alle quali non è partecipe l'indagato, è necessario che esse trovino riscontro in altri elementi di supporto che integrino con riferimenti specifici la genericità dell'accusa ...". Tale più rigoroso criterio ermeneutico è stato ulteriormente precisato, avendo la Suprema Corte ritenuto necessaria la sussistenza di un "...riscontro obiettivo ed estrinseco, in qualche modo verificabile, che consenta di ritenere attendibili le dichiarazioni provenienti da intercettazioni ambientali avvenute tra persone diverse dall'indagato ..." .

 

2g. Riprese videofilmate ed altre captazioni (GPS).

La materia delle riprese visive e delle prove che ne scaturiscono non è regolata specificamente dalla legge ed è stata più volte rappresentata l'esigenza di un intervento regolatore del legislatore, anche rispetto alle riprese che non avvengono in ambito domiciliare e non incontrano perciò i limiti posti dall'art. 14 Cost. Si tratta di un mezzo di prova al quale non si può rinunciare, per il fortissimo contenuto informativo che possiede e che, assai più di quanto possano esserlo altri mezzi, lo fa portatore di certezze processuali, come ha riconosciuto in modo significativo lo stesso legislatore quando, nell'art. 8 comma 1-ter, l. n. 401 del 1989 e succ. modif., per i reati commessi in occasione di manifestazioni sportive, ha stabilito che "si considera in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica o di altri elementi oggettivi dai quali emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore". In mancanza di regole probatorie specifiche la giurisprudenza e la dottrina hanno fatto riferimento alle disposizioni riguardanti altre prove e ai principi processuali per trarre indicazioni sulla disciplina applicabile alle riprese visive e sulla utilizzabilità dei risultati ottenuti. Sono emerse opinioni non univoche, non solo sulla questione più complessa, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, ma anche più in generale sulle caratteristiche del mezzo di prova e sulle norme alle quali deve essere ricondotto. Il tema da affrontare propone dunque due questioni, quella relativa alle riprese visive in genere, e quella, più specifica, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, rispetto alle quali la mancanza di una regolamentazione normativa aggiunge, ai dubbi sulla natura e la formazione della prova, altri e ben più consistenti dubbi sulla loro legittimità, data la doppia riserva di legge che l'art. 14, comma 2, Cost. ha posto a tutela del domicilio. La giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente utilizzabili come prova le immagini tratte da riprese visive in luoghi pubblici, tanto se avvenute al di fuori del procedimento (nella maggior parte dei casi si tratta di videoregistrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza, installati in esercizi pubblici), quanto se avvenute nell'ambito delle indagini di polizia giudiziaria. Secondo un orientamento giurisprudenziale le videoriprese vanno incluse nella categoria dei "documenti", dato che l'art. 234 cpp, innovando rispetto all'abrogato codice di rito, comprende in tale categoria le rappresentazioni di "fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo". Come espressione di questo orientamento, con riferimento ad attività extraprocessuali, si possono ricordare Sez. V, 18 ottobre 1993, n. 10309, Fumero, rv. 195556 (relativa a una videoregistrazione effettuata con un apparecchio installato in un negozio), Sez. III, 15 giugno 1999, n. 11116, Finocchiaro, rv. 214457 (relativa a riprese aeree) e Sez. V, 20 ottobre 2004, n. 46307, Held ed altri, rv. 230394 (relativa a riprese tramite telecamere a circuito chiuso). Varie decisioni hanno fatto riferimento all'art. 234 cpp anche per riconoscere il valore probatorio di riprese effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari: in questo senso si sono pronunciate Sez. IV, 13 dicembre 1995, n. 1344, Petrangeli, rv. 204048, Sez. V, 25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv. 208137 e Sez. VI, 10 dicembre 1997, n. 4997, Pani, rv. 210579. Secondo un diverso orientamento, le riprese visive effettuate in luoghi pubblici devono invece essere inquadrate nell'ambito delle prove atipiche, previste dall'art. 189 cpp, tanto se avvenute al di fuori del procedimento (Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 43491, Tarantino, rv. 220261, con riferimento a riprese effettuate da una videocamera collocata all'esterno di una banca), quanto se avvenute nell'ambito delle indagini. In particolare, con riferimento a questa ipotesi, si è detto che astrattamente il risultato delle riprese visive costituisce una prova documentale ex art. 234, comma 1, cpp, e come tale può essere utilizzato a fini probatori, sebbene il codice di rito non ne disciplini le modalità di acquisizione e le regole di utilizzazione. Ciò, verosimilmente, in quanto il legislatore ha avuto di mira esclusivamente il documento cinematografico "precostituito" e non il frutto di una ripresa visiva costituente mezzo di ricerca della prova. In questa prospettiva le riprese visive rappresenterebbero piuttosto una prova "atipica" (art. 189 cpp), da acquisire con modalità che non si pongano in conflitto con norme di legge e, qualora venissero effettuate (per fini di interesse pubblico quali quelli delle prevenzione e repressione dei reati) in un luogo pubblico o aperto al pubblico, non incontrerebbero alcun limite, perché la natura del luogo in cui si svolge la condotta implicherebbe una implicita rinunzia alla riservatezza (Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063, Viskovic, rv. 217688). Anche secondo Cass. Sez. VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229003 e Sez. IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi, rv. 229137, le riprese visive effettuate dalla polizia giudiziaria in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano della preventiva autorizzazione dell'autorità giudiziaria, in quanto le garanzie previste dall'art. 14 Cost. si applicano solo per le captazioni visive che riguardano luoghi di privata dimora. Nello stesso senso si è espressa, da ultimo, Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732, con riferimento a riprese effettuate dalla polizia giudiziaria tramite telecamere installate in un garage condominiale aperto al transito di un numero indeterminato di persone. Ipotesi più specifica è quella dell'attività captativa di immagini nell'ambito delle operazioni di osservazione e pedinamento da parte della polizia giudiziaria, delle quali sono state ritenute acquisibili agli atti del dibattimento le relazioni di servizio attestative e documentative (mediante fotografie e filmati) delle attività svolte (Sez. II, 26 marzo 1997, n. 4095, Baldini, rv. 207827) o nell'ambito di una perquisizione locale, in quanto la esecuzione di quest'ultima comprende per definizione l'attività di ispezione e di documentazione e la fotografia, mezzo tecnico idoneo a "fissare ed a prolungare la visione", altro non è che una modalità in cui può atteggiarsi la doverosa descrizione (Sez. II, 22 maggio 1997, n. 3513, Acampora, rv. 208076).

Non sempre è chiara nella giurisprudenza la distinzione concettuale tra la prova documentale dell'art. 234 cpp e la prova atipica dell'art. 189 cpp e, talvolta, si ha l'impressione che le immagini videoriprese siano considerate al tempo stesso documenti e prove atipiche, cioè documenti formati attraverso una prova atipica. In realtà le due norme non sono complementari, ma individuano forme probatorie alternative; come ha chiarito la Relazione al Progetto preliminare del vigente codice di rito, la distinzione tra documenti e atti del procedimento è netta, perché "le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo, nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso" (Gazzetta ufficiale, supplemento n. 2 del 24 ottobre 1988, p. 67). Del resto questa distinzione trova riscontro anche nella giurisprudenza più avvertita della Corte di cassazione, la quale ha avuto occasione di precisare che "ai fini dell'ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento; b) che lo stesso oggetto della documentazione extraprocessuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento" (Sez. V, 13 aprile 1999, n. 6887, Gianferrari, rv. 213606; Sez. V, 16 marzo 1999, n. 5337, Di Marco, rv. 213183). Ciò significa che solo le videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale (si pensi ad esempio, oltre che ai casi citati, alle videoregistrazioni di violenze negli stadi), mentre le altre, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione dell'attività investigativa e non documenti. Esse perciò sono suscettibili di utilizzazione processuale solo se sono riconducibili a un'altra categoria probatoria, che la giurisprudenza per le riprese in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico ha individuato in quella delle cd prove atipiche, previste dall'art. 189 cpp. Si è obiettato che l'art. 189 cpp prevede un contraddittorio tra le parti davanti al giudice "sulle modalità di assunzione della prova", mentre le riprese visive, come atti di indagine, avvengono senza alcun preventivo contraddittorio. Facendo riferimento a categorie tradizionali può però rilevarsi che l'obiezione non distingue il mezzo di ricerca della prova, costituito dalla ripresa visiva, dalla videoregistrazione, cioè dal supporto sul quale sono fissate le immagini riprese, fonte di prova, e dal mezzo di prova, che è lo strumento attraverso il quale si acquisisce nel processo il contenuto rappresentativo del supporto, vale a dire quello che sarà l'elemento di prova. Il contraddittorio previsto dall'art. 189 cpp non riguarda la ricerca della prova ma la sua assunzione e interviene dunque, come risulta chiaramente dalla disposizione, quando il giudice è chiamato a decidere sull'ammissione della prova. L'esecuzione delle riprese visive lascia impregiudicata la questione sulla ammissibilità della prova che ne deriva (sulla quale dovrà pronunciarsi il giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento) e sulla determinazione dello strumento (perizia o mera riproduzione) che dovrà essere utilizzato per conoscere e visionare le immagini acquisite. È stata anche posta e dibattuta la questione sulla possibilità di inserire le videoregistrazioni nel fascicolo per il dibattimento, a norma dell'art. 431, comma 1, lett. b) cpp, considerandole alla stregua di verbali di atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (in questo senso Sez. I, 8 ottobre 1997, n. 10145, Mangiolfi, rv. 208736, con riferimento a fotografie di un blocco stradale) e si è detto che, mentre nessuna difficoltà si frappone all'introduzione nel fascicolo per il dibattimento del verbale della polizia giudiziaria descrittivo delle attività compiute per effettuare la videoripresa, alla stessa conclusione non potrebbe pervenirsi per il supporto contenente le immagini riprese, che l'art. 431 cpp non prevede, verosimilmente perché il legislatore sarebbe stato "attento soprattutto alle tradizionali forme di documentazione scritta". La conclusione negativa non convince dal momento che l'art. 134, comma 4, cpp, nel disciplinare la documentazione degli atti riconosce che al verbale "può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile". In questo caso la riproduzione audiovisiva diventa un elemento integrativo del verbale, che deve accompagnarlo e che quindi, unitamente al verbale, è destinato a far parte del fascicolo per il dibattimento. Ciò però non significa che l'inserimento nel fascicolo per il dibattimento possa avere l'effetto di attribuire alla videoregistrazione valore probatorio senza il preventivo vaglio di ammissibilità da parte del giudice, dopo aver sentito le parti a norma dell'art. 189 cpp.

Un più specifico profilo della questione è quello della compatibilità delle riprese audiovisive in luogo di privata dimora con la libertà domiciliare garantita dall’art. 14 Cost. In proposito, Cass. Sez. IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi, rv 229137 ha rilevato come “le garanzie previste dall’art. 14 Cost. si applicano solo per quelle captazioni visive che riguardano luoghi di privata dimora”. Nello stesso senso si è espressa, Cass. Sez. IV, 19 gennaio 2005, n. 121 (Dauti). Nella motivazione si legge che, in adesione a quanto affermato nelle sentenze Augugliaro e Greco, “le video-riprese effettuate in luoghi privati sono legittime se ed in quanto ricomprese nell’ambito della disciplina delle intercettazioni ambientali, riguardando queste ultime la captazione delle conversazioni tra presenti, vuoi espresse a parole, vuoi espresse a gesti”. Il principio esposto dalla sentenza Massa sopra citata, secondo cui la norma di legittimazione delle video-riprese sarebbe da individuare nell’art. 189 cpp, è poi da condividere laddove sia riferito ad operazioni eseguite in luoghi diversi da quelli privati (la fattispecie esaminata era quella di telecamere installate in un garage condominiale, area aperta al transito di un numero indeterminato di persone), posto che “in tal caso non sussistono le esigenze di tutela del domicilio e della riservatezza che impongono il rispetto della disciplina di garanzia in materia di intercettazione. La prova così acquisita è da considerare prova documentale non disciplinata dalla legge ai sensi dell’art. 189 cit.”. In pratica, si tratta della necessità della preventiva autorizzazione del Gip e, prima ancora, della fonte normativa, allo stato inesistente, di tale autorizzazione. La Corte costituzionale, con la sentenza, 24 aprile 2002, n. 135, affrontando il tema della mancata omologazione, sul versante normativo, delle riprese videofilmate alle intercettazioni di comunicazioni fra presenti, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt 189. e 266-271 cpp, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 14 Cost. nella parte in cui non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p., alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi. Ha, in particolare, rilevato che le riprese in luoghi di privata dimora ben possono configurarsi come una forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti che si differenzia da quella operata tramite gli apparati di captazione sonora solo in rapporto allo strumento tecnico di  intervento, come nella ipotesi di riprese visive di messaggi gestuali. Ed ha concluso che, per tale fattispecie, già ora è applicabile in via interpretativa la disciplina della intercettazione ambientale in luoghi di privata dimora. Ove si fuoriesca dalla ipotesi della videoregistrazione di comportamenti di tipo comunicativo, venendo in considerazione soltanto la intrusione nel domicilio in quanto tale, è in gioco la sfera della libertà domiciliare che è bene diverso dalla libertà e segretezza delle comunicazioni e richiede una disciplina normativa, nel rispetto delle garanzie costituzionali dell’art. 14 Cost: disciplina che tuttavia non può discendere da una pronuncia additiva della Corte costituzionale. La Corte di cassazione (Cass., Sez. I, 29 gennaio 2003, n. 16965, Augugliaro ed altro, rv 224240) ha recepito i principi espressi dalla Corte costituzionale, affermando che sono utilizzabili i risultati delle video-registrazioni effettuate con videocamera all'interno di una abitazione privata, in quanto esse sono previste dal vigente codice di rito, il quale, autorizzando, ex art. 266, comma 2, cpp, l'intercettazione delle comunicazioni    -e non delle sole conversazioni tra presenti-   comprende, nel proprio ambito previsionale, non solo la comunicazione convenzionale mediante l'uso del linguaggio, ma anche quella gestuale, mentre non regola, con conseguente inutilizzabilità processuale, ogni altra captazione di immagini non avente natura di messaggio intenzionalmente trasmesso da un soggetto ad un altro. Nè tale regolamentazione delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, anche effettuate mediante video-registrazioni, contrasta con gli articoli 14 e 15 Cost. e 8 Conv. eur. dei diritti dell'uomo, i quali stabiliscono che i diritti all'inviolabilità del domicilio e la segretezza di ogni forma di comunicazione possono essere limitati, per atto motivato dell'autorità giudiziaria, al fine di salvaguardare la sicurezza nazionale nonché l'ordine e la prevenzione dei reati.

Le oscillazioni giurisprudenziali sull’argomento appaiono essere state risolte dall’intervento della Corte di Cassazione SS. UU. (Sent. 28.3. 2006, n. 26795 –Prisco) che si è occupata della problematica delle videoregistrazioni, che ha preso le mosse dalla sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 2002, secondo cui:

-       È necessario, ai fini del superamento della garanzia della inviolabilità del domicilio, non solo di un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria, ma anche di una compiuta disciplina legislativa delle ipotesi e delle modalità di limitazione della garanzia costituzionale;

-       si può sostenere la riconducibilità della sola captazione visiva di comportamenti di tipo comunicativo in luoghi di privata dimora alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti, restando però impregiudicata la questione di costituzionalità delle ipotesi di videoregistrazione di immagini che non abbiano tale carattere;

-       la necessità di una regolamentazione legislativa, in conformità dell'art. 14 Cost., nel caso di intrusione del domicilio con riprese visive non finalizzate alla intercettazione di comunicazioni.

 

 

Volendo tracciare un bilancio di alcuni punti fermi in subjecta materia si può ritenere condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema lo spartiacque fra la nozione di domicilio all’interno del quale effettuare video riprese e luogo non di privata dimora dovrebbe essere rappresentato dal requisito della "stabilità", perché è solo questa, anche se intesa in senso relativo, che può trasformare un luogo in un domicilio, nel senso che può fargli acquistare un'autonomia rispetto alla persona che ne ha la titolarità. Deve quindi concludersi che una toilette pubblica non può essere considerata un domicilio neppure nel tempo in cui è occupata da una persona, poiché questa non fe uso in maniera stabile.

Sentenza Prisco

Le riprese visive nei camerini, i c.d. prives, non erano inibite perché i camerini non costituivano un domicilio. Essi tuttavia costituivano un luogo nel quale si svolgevano attività destinate a rimanere riservate, rispetto alle quali indagini con le modalità intrusive adottate richiedevano un congruo provvedimento giustificativo. Nella specie però un provvedimento del genere mancava: c'è una richiesta del p.m. al g.i.p. di "autorizzazione a disporre le operazioni di ripresa visiva all'interno del locale" "Bora Bora" seguita da un provvedimento del g.i.p. su un modulo a stampa nel quale si fa riferimento a una "richiesta di autorizzazione a disporre intercettazione di conversazioni tra presenti" e si "autorizza il p.m. a disporre le operazioni di intercettazione per giorni quindici e con le modalità consentite e che riterrà". Perciò non solo mancava una motivazione sulle ragioni che avrebbero potuto giustificare una ripresa visiva, ma mancava anche un consapevole provvedimento autorizzativo, visto che quello emesso riguardava espressamente una intercettazione di conversazioni tra presenti. In mancanza del provvedimento autorizzativo la prova atipica, costituita dalle videoregistrazioni effettuate, si prospettava, ai giudici di cassazione, carente di un presupposto di ammissibilità e quindi non poteva essere utilmente addotta a giustificazione di una prognosi di responsabilità sorretta da gravi indizi di colpevolezza. Di conseguenza l'ordinanza impugnata veniva annullata con rinvio al Tribunale di Perugia per un nuovo esame relativo ai gravi indizi di colpevolezza, da compiere senza tenere conto dei risultati delle riprese visive.

 

Viceversa, sono state considerate legittime e, pertanto, utilizzabili le videoregistrazioni dell'ingresso, del piazzale di accesso e dei balconi di un immobile, eseguite dalla polizia giudiziaria dalla pubblica strada, mediante apparecchio collocato all'esterno dell'edificio stesso, non configurando esse un'indebita intrusione né nell'altrui privata dimora, né nell'altrui domicilio. (Fattispecie relativa ad immobili utilizzati per il deposito di armi da parte di associati a delinquere)[33].

 

Più recentemente (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 5064 del 19/11/2013 Ud.  (dep. 31/01/2014) Rv. 258767, Presidente: Garribba T.  Estensore: Ippolito F.  Relatore: Ippolito F.  Imputato: Guarneri e altri. P.M. Scardaccione EV. (Diff.) (Annulla in parte senza rinvio, App. Milano, 24/03/2011), la Corte di Cassazione ha escluso che il bagno di uno stabilimento adibito ad ufficio postale, in cui furono effettuate le videoriprese possa qualificarsi luogo di privata dimora ai fini del divieto delle operazioni anzidette, attinenti a comportamenti non comunicativi. La tutela accordata dall'art. 14 Cost. non è diretta a tutelare un generico diritto alla riservatezza, ma a preservare da interferenze esterne determinati luoghi qualificabili come "domicilio", i quali ricevono una particolare tutela in quanto in essi estrinsecano la loro vita privata coloro che li posseggono e che hanno diritto, anche in loro assenza, di escludervi chicchessia. In tale ristretta nozione non rientrano i locali adibiti a bagno dal datore di lavoro, avendone gli utenti un mero potere temporaneo di uso esclusivo per ragioni di igiene o buon costume. Un simile locale, pur soddisfacendo a legittime esigenza di carattere privato, non corrisponde agli indicati postulati enucleabili dall'art. 614 cp. I locali messi a disposizione dei dipendenti dal datore di lavoro sono vincolati alla destinazione specifica loro assegnata dal datore di lavoro. Sicché è possibile ipotizzarne un uso temporaneo esclusivo del dipendente solo a condizione che egli adoperi il locale in modo conforme alla sua normale destinazione. Deve perciò confermarsi che il servizio di osservazione, realizzato dalla Polizia giudiziaria a mezzo di una telecamera installata all'interno di un bagno di un stabilimento di lavoro in cui operano una pluralità di persone, non configura una forma di intercettazione tra presenti ai sensi dell'art. 266 cpp, comma 2, in quanto il luogo in questione, caratterizzato da una frequenza del tutto temporanea da parte degli utenti, non può essere assimilato alla privata dimora che presuppone una relazione con un minimo grado di stabilità e continuatività con le persone che la frequentano (cfr. per analoga soluzione, Cass. Sez. 6, n. 42711 del 23/10/2008, Rv. 241880; Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Rv. 234269). Tali videoregistrazioni in ambienti in cui è garantita l'intimità e la riservatezza, non riconducibili alla nozione di "domicilio", sono prove atipiche, soggette ad autorizzazione motivata dell'autorità giudiziaria   -e  perciò anche del pubblico ministero-    e alla disciplina dettata dall'art. 189 cpp (Cass. Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Rv. 234267). Nel caso in esame la istallazione era stata disposta dal pubblico ministero con decreto adeguatamente motivato, riprodotto nella sentenza di primo grado e le riprese visive, eseguite in ambito non domiciliare, avevano avuto ad oggetto comportamenti non comunicativi: deve perciò confermarsi quanto in proposito hanno osservato Tribunale e Corte d'appello sulla legittimità, ammissibilità e utilizzabilità come prova delle predette videoregistrazioni. 3. Del tutto priva di fondamento è anche la censura di violazione dell'art. 268 cpp per la mancata acquisizione e messa a disposizione dei difensori delle videoregistrazioni effettuate dalla polizia giudiziaria. Come è noto sia la Corte costituzionale (sent. n. 135 del 2002) sia la giurisprudenza di legittimità (sentenze sopra citate) hanno escluso l'applicabilità alle videoregistrazioni non comunicative della disciplina prevista in materia di intercettazione di conversazioni, cosicché non si può porre alcuna questione di applicabilità dell'art. 268 cpp nel testo derivante dalla sentenza della Corte cost. n. 336 del 2008, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della predetta disposizione nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l'esecuzione dell'ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su un nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate. Nè da tale norma (nel testo successivo alla indicata sentenza della Corte costituzionale) può farsi applicazione analogica, in quanto manca del tutta l'identità di ratio con la registrazione delle intercettazioni telefoniche o ambientali. Risulta espressamente dal testo dalla sentenza della n. 336 del 2008 della Corte costituzionale che la ragione della dichiarata illegittimità costituzionale fu individuata nel pieno esercizio del diritto di difesa, per il quale può essere ritenuto necessario l'accesso diretto alle registrazioni per interpretare e valutare l'effettivo significato delle parole e delle frasi registrate, risultando "spesso rilevanti le intonazioni della voce, le pause che, a parità di trascrizione dei fonemi, possono mutare in tutto o in parte il senso di una conversazione". Problemi questi ultimi che, per definizione, non si pongono per le videoregistrazioni non comunicative.

 

 

2h. La localizzazione mediante sistema satellitare (cosiddetto GPS).

La localizzazione degli spostamenti di una persona nei cui confronti siano in corso indagini si traduce inuna sorta di pedinamento e non è, pertanto, assimilabileall'attività di intercettazione di conversazioni e comunicazioni; conseguentemente, essa non necessita di alcuna autorizzazione preventiva da parte del Gip (Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv 22873137).

L'attività di indagine volta a seguire i movimenti sul territorio di un soggetto, a localizzarlo e, dunque, a controllare a distanza la sua presenza in un determinato luogo in un certo momento, nonché l'itinerario seguito (cosiddetta intercettazione "gps"), costituisce, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, una modalità, tecnologicamente caratterizzata, di pedinamento e, come tale, rientra nei mezzi di ricerca della prova cosiddetti atipici o innominati attribuiti alla competenza della polizia giudiziaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 55, 347 e 370 cpp. Essa non è in alcun modo assimilabile all'attività di intercettazione di conversazioni o comunicazioni (Cass., sez. 5, 27 febbraio 2002, n. 16130, rv. 221918; Cass., sez. 4, 29 gennaio 2007, n. 8871, rv. 236112; Cass., sez. 5, 7 maggio 2004, n. 24715, rv. 228731; Cass., sez. 6, 11 dicembre 2007, n. 15396, rv. 239638). Ne consegue che non vi è alcuna necessità di autorizzazione preventiva da parte del giudice, non trovando applicazione le disposizioni di cui agli artt. 266 cpp e segg. Il sistema di rilevazione satellitare "GPS" costituisce pertanto un'attività investigativa atipica, assimilabile al pedinamento, che può entrare nella valutazione probatoria del giudice anche attraverso l'acquisizione delle annotazioni e delle relazioni di servizio redatte dalla polizia giudiziaria sulle coordinate segnalate dal sistema stesso. Le coordinate segnalate dal sistema stesso (cd. tracciati) trasfuse nelle annotazioni di P.G., sono infatti la prova delle operazioni compiute. Deve aggiungersi che la localizzazione, mediante sistema GPS, delle autovetture in uso agli indagati opportunamente va disposta in ausilio alle intercettazioni ambientali, che hanno la funzione di certificare, attraverso l'ascolto in diretta degli occupanti, specificatamente identificati attraverso i colloqui captati, che la vettura localizzata è quella sottoposta ad intercettazione con conseguente irrilevanza della questione sollevata dalla difesa Bellino ed illustrata nei motivi nuovi circa la asserita mancanza di atti fidefacenti di polizia giudiziaria relativi alla immissione del sistema di rilevamento GPS.

La sorveglianza GPS, come indicato anche nella sentenza 2.9.2010 della CEDU (Uzun V. Germania), che, per sua natura, deve essere tenuta distinta da altri metodi di sorveglianza visiva o acustica che sono, di regola, più suscettibili di interferire con il diritto della persona e il rispetto della vita privata, in quanto permette solo la localizzazione di oggetti equipaggiati con un ricevitore GPS, se persegue le legittime finalità della tutela della sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica e dei diritti delle vittime, nonché del contrasto alla criminalità non contrasta con l'art. 8 e non necessita di specifica autorizzazione, prevista per mezzi più insidiosi. Nel caso in esame il pedinamento tecnologico è stato disposto nei confronti di indagati per gravi reati ed in ausilio delle disposte intercettazioni ambientali che erano state debitamente autorizzate nelle forme di legge. È pertanto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa Caiola[34].

 

3. La motivazione dei decreti autorizzativi e la inutilizzabilità derivante dal vizio di motivazione.

3a. In generale

Vi sono state decisioni della suprema Corte che hanno ritenuto sufficiente la  motivazione minima indispensabile[35] ed altre che, invece, l’hanno pretesa in forma analitica e specifica[36]: la differenza delle due posizioni ha prodotto gli effetti interpretativi più vistosi in tema di motivazione per relationem. La giurisprudenza per così dire “più rigorosa” ha ritenuto non sufficientemente motivato un decreto autorizzativo, non contenente motivazione autonoma bensì per relationem, basato sulla richiesta del PM e sui rapporti informativi elaborati dagli investigatori. In altri casi[37], pur ammettendo tal genere di motivazione, ha richiesto, quale requisito indispensabile, che il decreto indichi le ragioni per le quali il giudice ritiene di condividere le argomentazioni poste a base della richiesta e non si esaurisca nell'esclusivo richiamo o rinvio all'esposizione delle ragioni contenute nell'istanza. Altro orientamento[38], infine, è quello che ha ritenuto sufficiente la motivazione per relationem, a condizione che l’atto richiamato (richiesta del pm o informative della pg) fosse posto nella disponibilità della parte. La motivazione è richiesta anche per i decreti con i quali il Gip disponga la proroga delle intercettazioni già autorizzate, ma essa può essere ispirata anche a criteri di minore specificità rispetto alle motivazioni del decreto di autorizzazione: dunque può risolversi nel dare atto della constatata plausibilità delle ragioni esposte nella richiesta del pubblico ministero, dato che di un provvedimento reso al di fuori di una contrapposizione dialettica di posizioni contrastanti, l'adeguatezza della motivazione non può che essere valutata in relazione alla fondatezza della tesi della parte istante[39].

Le Sezioni unite, con sentenza 21 giugno 2000, n. 17 (Primavera ed altri, rv 216664), hanno risolto le incertezze derivanti dal contrasto sopra rievocato, fissando, dopo Sez. V, 15 febbraio 2000, n. 784, Terracciano, rv 215731. Sez. III, 23 maggio 1997, n. 6231, Bormolini, rv 208634; Sez. I, 11 febbraio 1999, Carlino, rv 212282, il principio secondo cui non è sufficiente il mero riferimento alle informative di polizia.

Dopo avere riepilogato le tendenze espresse dalla giurisprudenza a sezioni semplici, un decalogo di criteri il cui rispetto serve a verificare la legittimità della motivazione per relationem, si può così riassumere:

1) faccia riferimento, recettizio o mediante semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;

3) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione.

In applicazione di tale principio le Sez. Un. hanno ritenuto che fosse insufficiente la motivazione del decreto autorizzativo del Gip – e conseguentemente inutilizzabili le intercettazioni disposte sulla base di tali decreti - limitata a recepire la richiesta formulata dal PM alla luce dei risultati delle investigazioni svolte[40].

Gia in passato, Sez. un. 26 febbraio 1991, n. 5, Bruno, rv 187000, aveva osservato che la motivazione dell'ordinanza che dispone la misura coercitiva, come quella degli altri provvedimenti che il giudice è chiamato a emettere su richiesta del pubblico ministero, senza sentire l'altra parte, può essere di adesione alle argomentazioni del richiedente. Sempre che, ovviamente, la motivazione esprima le ragioni del convincimento del giudice, anche se in parte attraverso un richiamo alle argomentazioni del pubblico ministero.

 

3b. I vizi della motivazione.

Il vizio della motivazione è reso rilevante dall’art. 267 comma 1 cpp per il quale il decreto autorizzativo - sia del Gip che del PM – deve essere motivato, e dall’art. 271 comma 1, che prevede la sanzione della inutilizzabilità dei relativi risultati “quando non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 (e 268 commi 1 e 3)”. La Corte costituzionale ha più volte sottolineato, indipendentemente dal disposto codicistico, la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte in violazione dell’art. 15 Cost. Anzitutto con sentenza n. 34 del 1973 ha affermato che il principio di inviolabilità della segretezza delle comunicazioni sarebbe gravemente compromesso se a carico dell’interessato potessero valere, come indizi o come prove, intercettazioni telefoniche assunte senza previa motivata autorizzazione della autorità giudiziaria. La inesistenza delle intercettazioni illegittime è stata poi affermata dalla sentenza n. 120 del 1975 e principi in tutto analoghi hanno formato oggetto delle pronunzie n. 81 del 1993 e n. 229 del 1998.

La Carta europea dei diritti fondamentali (c.d carta di Nizza) approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000 con efficacia peraltro non vincolante in quanto non integrata nei Trattati, prescrive all’art. 7 che “ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni” e all’art. 8 garantisce che “ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate ed in base al consenso della persona interessata o ad un altro fondamento legittimo prrevisto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. Il rispetto di tale regole è soggetto al controllo di un autorità competente”.

Le Sezioni unite, dopo aver rilevato la inutilizzabilità delle prove incostituzionali[41], hanno precisato[42] che il vizio di motivazione rilevante sia per i decreti che autorizzano, sia per quelli che prorogano le operazioni di intercettazioni telefoniche e tra presenti, o che convalidano, presenta due profili: l’uno è dato dalla mancanza, da ravvisarsi quando la motivazione sia apparente, semplicemente ripetitiva della formula normativa, del tutto incongrua rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare. Si versa nella fattispecie di mancanza della motivazione, in altri termini, quando non rimanga dimostrato, non importa se attraverso il rinvio, recettizio o no ad altro atto del procedimento, che il giudice ha valutato la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge (esistenza di gravi o sufficienti indizi di reato; indispensabilità o necessità del ricorso allo specifico mezzo di ricerca della prova). Essa  -ed essa sola-  la inutilizzabilità dei risultati delle operazioni captative[43]. Diverso è il difetto di motivazione che sovviene quando questa sia incompleta, insufficiente, non perfettamente adeguata, affetta da vizi che non negano né compromettono la  giustificazione ma la rendono non puntuale. In questo caso non scatta necessariamente la sanzione della inutilizzabilità, ma è ammesso il potere di emenda, da parte del giudice cui la doglianza venga prospettata, sia esso il giudice  del merito che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni, sia esso quello dell’impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità.

È interessante sottolineare che la sentenza in questione ha anche escluso che in materia sia utilizzabile la sanzione della nullità generale, “perché lo stesso vizio non può generale due coeve e concorrenti sanzioni processuali: se non esiste una (valida) motivazione, la conseguenza è l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni; se esiste, ancorché viziata nel senso sopra specificato, la conseguenza è l'irrilevanza, salva l'emenda. Infatti, la nullità attiene sempre e soltanto all'inosservanza di alcune formalità di assunzione della prova, mentre l'inutilizzabilità, presupponendo la presenza di una prova "vietata" per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo, incide sulla legittimità dell'acquisizione, la quale resta al di fuori del sistema processuale. Ma quando l'inosservanza di una data disposizione, comunque qualificabile, produce, per esplicita volontà della legge, l'inutilizzabilità, allora è evidente come il sistema delle nullità sia superato perché l'inutilizzabilità opera, e va dichiarata, in ogni stato e grado del procedimento mentre la nullità opera in limitati àmbiti di rilevabilità e di opponibilità”.

 

 

3c. La rilevabilità del vizio di motivazione.

Quanto alla rilevabilità del vizio di motivazione che dà luogo a inutilizzabilità delle intercettazioni è necessario ricordare come con la sentenza delle Sezioni unite del 27 marzo 1996, n. 3, Monteleone fosse già stata segnata una svolta significativa, abbandonando il precedente, consistente, orientamento secondo cui la inutilizzabilità era rilevante solamente in tema di prova ed in sede di giudizio: non dunque, ad esempio, nelle procedure incidentali per il riesame o l’appello di provvedimenti de libertate. Ebbene, la citata sentenza ha rilevato la arbitrarietà di una simile scelta interpretativa rilevando che la inutilizzabilità colpisce i risultati della intercettazione che possono rivestire la natura di prova, tipica della fase del giudizio, o quella di indizio nell’accezione dell’art. 273 cpp, nella fase delle indagini preliminari ai fini della adozione di misure cautelari. Inoltre la circostanza che per le intercettazioni colpite da inutilizzabilità è prevista, dall’art. 271 comma 3, la distruzione, induce ad escludere categoricamente che il materiale di indagine destinato a tale esito possa essere, prima, sfruttato sia pure ai fini cautelari. Infine, la disamina dei lavori preparatori rivela che il legislatore delegante aveva inteso colpire i risultati delle intercettazioni illegittime con la più grave delle sanzioni processuali e che il richiamo costituzionale alla inviolabilità e segretezza della corrispondenza o di ogni altra forma di comunicazione imponeva di ritenere che la sanzione valesse nell’intero corso del procedimento.

Il principio è stato riaffermato in successive pronunzie delle Sezioni unite[44]e, da ultimo, nella sentenza del 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro (rv 216246), che ha sottolineato come tale regime competa ai casi di inutilizzabilità c.d. “patologica” inerente cioè agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto. Da ultimo, la questione appare anche normativamente risolta per effetto della legge 1° marzo 2001, n. 63 che, inserendo il comma 1-bis nell’art. 273 cpp ha previsto che la sanzione della inutilizzabilità di cui all’art. 271 comma 1 colpisce anche gli “indizi” di colpevolezza destinati ad essere valorizzati ai fini della adozione di una misura cautelare, nella fase, cioè, delle indagini preliminari. Fondamentale, ai fini del regime della rilevabilità, è la differenziazione, sopra rimarcata, tra la motivazione mancante in toto e la “motivazione insufficiente” dei decreti autorizzativi delle intercettazioni. La sentenza Primavera, nel valorizzare la situazione appena descritta per inferirne la operatività del potere di emenda (escludendo la declaratoria di inutilizzabilità) da parte del giudice deputato al controllo di legalità, si era fatta carico della circostanza che la sentenza Manno, appena due anni prima, si era prestata ad una lettura diversa, così massimata: “In materia di intercettazioni telefoniche, l'inutilizzabilità va riferita solo alla violazione delle norme degli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cpp, mentre le eventuali illegittimità formali (come quelle relative a violazione delle altre previsioni del citato art. 268 o alla mancata motivazione del decreto autorizzativo) ne determinano, semmai, l'invalidità”. Dunque, poteva affermarsi che, per la sentenza Manno, la mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi dava luogo a mera invalidità, mentre per la sentenza Primavera ad inutilizzabilità. Quest’ultima decisione tentava la composizione del contrasto e negava tale evenienza, osservando che si trattava soltanto di un equivoco dovuto al fatto che la pronuncia del 1998 era stata massimata senza porre sufficientemente in evidenza che la sanzione della invalidità era stata collegata non ad una ipotesi di mancanza totale della motivazione dei decreti autorizzativi, ma ad un caso in cui ci si doleva della “incompletezza” della stessa. Non vi era contrasto dunque con le proprie conclusioni, che riflettevano proprio tale tesi: quella cioè secondo la quale la mera insufficienza della motivazione non è sanzionata con la inutilizzabilità del risultato, ma soggiace a tutte le cause di sanatoria proprie della invalidità, compresa quella della integrazione da parte del giudice del controllo.

Quale che sia la opinione corretta sul punto, resta il fatto che il percorso indicato dalla sentenza Primavera è quella della necessità di sottrarre alla sanzione della automatica inutilizzabilità tutti i casi    –e sono la stragrande maggioranza–   nei quali la motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni non sia del tutto assente, ma se ne lamenti la incompletezza o insufficienza. In tale evenienza l’indicazione delle Sezioni unite è nel senso che il giudice del merito che debba fare uso dei risultati delle intercettazioni (Gip o Tribunale del riesame) abbia il potere di procedere alla eliminazione del vizio indicando gli elementi che difettano.

In giurisprudenza vi sono state decisioni che hanno negato qualsiasi possibilità di integrazione della motivazione insufficiente del decreto autorizzativo da parte del giudice del merito che debba fare uso delle intercettazioni.

Tuttavia, le più recenti sentenze[45] si sono uniformate al principio opposto, valorizzato dalla sentenza Primavera, sostenendo che il difetto di motivazione dei decreti di autorizzazione all'intercettazione di comunicazioni non da' luogo ad alcuna delle ipotesi di inutilizzabilità previste dall'art. 271 cpp, quando sia sanato dall'integrazione effettuata, secondo le regole generali, dal giudice del gravame (il tribunale del riesame). Questo, infatti, ha il potere di integrare la motivazione insufficiente sia della ordinanza cautelare impugnata che dei requisiti per la utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche dalle quali siano stati desunti indizi di colpevolezza.

Viene conseguentemente posto in evidenza dalla giurisprudenza[46] che il decreto motivato per relationem non dà luogo ad un vizio sanzionato con la inutilizzabilità ma, eventualmente, ad una insufficienza di motivazione che non può essere rilevata di ufficio, o, al più, ad una invalidità dell’atto autorizzativo che deve essere espressamente dedotta nel procedimento di riesame .

Ancora si è osservato che il fatto che il pubblico ministero debba trasmettere prima al Gip e, poi, al Tribunale del riesame i decreti autorizzativi che legittimano le intercettazioni, pena l'inutilizzabilità di esse, non comporta che il tribunale del riesame, dinanzi al quale nulla sia eccepito dalla parte, debba motivare sulla presunta carenza di motivazione dell'ordinanza autorizzatoria delle intercettazioni stesse. E, invero, il procedimento penale è caratterizzato da una serie di situazioni potenzialmente causa di inutilizzabilità di atti, rispetto alle quali il giudice che nulla di irregolare rilevi e davanti al quale nessuna eccezione sia sollevata, non è tenuto a motivare in negativo al fine di dar conto dell'accertamento della regolarità degli atti stessi. Ne consegue che non puo' per la prima volta essere proposta dinanzi alla Corte di cassazione la questione relativa alla valutazione della motivazione con la quale il g.i.p. abbia accolto la richiesta di intercettazione del pm.

Vi è ulteriore corollario della differenziazione delle ipotesi di mancanza totale di motivazione dei decreti e conseguente inutilizzabilità dei risultati rispetto alle ipotesi di motivazione soltanto insufficiente, in quanto tale emendabile dal giudice del controllo e comunque non produttiva di inutilizzabilità: ed è quello del diverso regime in tema di deducibilità in cassazione. Si ritiene cioè che il difetto di motivazione dei decreti di autorizzazione alle intercettazioni telefoniche e ambientali (in particolare nel caso costituito da motivazione per relationem) non possa essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità. Infatti, da un lato, si tratta di vizio non inscrivibile nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 271 cpp e per le quali soltanto è comminata la sanzione dell'inutilizzabilità e la conseguente rilevabilità d'ufficio; dall'altro, la circostanza che detta censura non sia stata dedotta in sede di riesame comporta l'inammissibilità della stessa in sede di legittimità. In altri termini, il decreto così motivato può far configurare un vizio di inidonea o insufficiente motivazione che, in quanto tale, non può essere rilevato d'ufficio dal giudice di merito nè può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità, attesochè l'assenza di qualsivoglia valutazione in ordine alla congruità della motivazione dei decreti in questione sottende la mancanza di qualsiasi censura in sede di riesame ed impedisce al giudice di legittimità una pronuncia che comporterebbe necessariamente l'esame del merito.

Come desumibile dalla sentenza Manno e da altre successive pronunzie, dunque, il vizio deducibile per la prima volta dinanzi alla Cassazione è solo quella della inutilizzabilità. La Corte, dovendo valutare un error in procedendo, dovrà disporre del decreto oggetto di censura, eventualmente prodotto dalla parte a corredo di una doglianza, che deve comunque indicarlo con specificità pena la genericità del motivo e la inammissibilità del ricorso.

Le Sezioni Unite[47]  hanno sottolineato al riguardo che, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c) cpp, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, puo' accedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione. Quanto al requisito della indispensabilità delle intercettazioni, che deve essere assoluta (art. 267 comma 1) ai fini della prosecuzione delle indagini, la giurisprudenza ha rilevato trattarsi di questione rimessa alla valutazione esclusiva del giudice di merito, la cui decisione può essere censurata, in sede di legittimità, solo sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione (Sez. VI, 25 settembre 2003, n. 49119, Scremin, rv 227708).

 

3d. Uso investigativo delle intercettazioni inutilizzabili.

Le intercettazioni derivanti da decreti non motivati o comunque inutilizzabili possono presentare peraltro una loro utilità ai fini del procedimento. La giurisprudenza unanimemente ritiene che esse possano costituire notitia criminis ai fini dell’espletamento di nuove attività di indagine, compresa quella di disporre nuove intercettazioni, motivando la sussistenza degli indizi alla luce del contenuto delle intercettazioni inutilizzabili. Si è osservato in proposito che in materia di inutilizzabilità non trova applicazione il principio di cui all’art. 185 cpp secondo il quale la nullità dell’atto rende invalidi gli atti consecutivi che da quello dichiarato nullo dipendono (Sez. III, 29 aprile 2004, n. 26112, Canaj, rv 229058) ed inoltre che la operatività della garanzia di inutilizzabilità dei mezzi probatori illegittimi è riservata al momento giurisdizionale, da intendersi non solo come fase dibattimentale, ma come ogni fase o sede nella quale il giudice assume le proprie decisioni; pertanto le informazioni assunte attraverso mezzi di prova illegittimi, inutilizzabili per il giudice, possono essere utilizzate legittimamente dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria per il prosieguo delle indagini (Sez. III, 10 febbraio 2004, n. 16499, Mache, rv 228545 e Sez. un. 31 ottobre 2001, Policastro, n. 42792, rv 220092.

 

3e. I decreti del PM: nei casi di urgenza e in sede di esecuzione del decreto autorizzativo del GIP. I profili organizzativi degli Uffici di Procura in relazione al c.d. ascolto remotizzato.

Il decreto del PM nei casi di urgenza (art. 267 commi 2 e 3 cpp)

Le questioni di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte con decreto emesso dal PM in via di urgenza nascono dalla previsione, contenuta nell’art. 271, che la detta sanzione processuale si applica se non sono osservate, tra le altre, le disposizioni previste dall’art. 267, comprensive di quelle che disciplinano, per l’appunto, i poteri in materia del PM. Temperamenti alla apparente ampiezza del rinvio, sono stati posti dalla

giurisprudenza. Questa ha rilevato, ad esempio, come all'eventuale mancata specificazione, nel decreto del P.M. emesso in via di urgenza, della durata delle operazioni a norma dell'art. 267, comma 3, cpp, sopperisce l'indicazione legislativa del termine massimo di quindici giorni ivi previsto, sicché non si determina l'inutilizzabilità dei relativi risultati, che l'art. 271 stesso codice ricollega alla violazione dell'art. 267, da ritenere configurabile solo nel caso in cui sia stato superato quel termine massimo.

Si è anche osservato che il termine per la trasmissione al giudice della convalida del decreto con il quale il P.M. abbia disposto d'urgenza l'intercettazione stessa (immediatamente e comunque non oltre le ventiquattro ore, secondo il disposto dell'art. 267 comma 2 cpp) presenta carattere meramente ordinatorio, di talché la sanzione di inutilizzabilità delle risultanze acquisite si determina solo nel caso che il provvedimento di convalida del giudice non intervenga entro quarantotto ore dall'adozione del decreto in questione (Sez. I, 4 novembre 2003, n. 6875, Carbonaro, rv 228429). Ad ogni buon conto poiché la sanzione di inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni disposte in via d'urgenza con decreto del pubblico ministero è prevista dall'art. 267 cpp solo nel caso di mancata convalida da parte del Gip, una volta intervenuta tale convalida, resta sanato ogni vizio formale del citato decreto, compresa l'eventuale mancanza del requisito dell'urgenza (Sez. I, 22 aprile 2004, n. 23512, Termini, rv 228245).

 

 

Il decreto del PM sulle modalità di esecuzione delle intercettazione (art. 268 comma 3 cpp).

1. Motivazione

Uno dei temi più dibattuti nella giurisprudenza di legittimità è quello della motivazione del decreto con il quale il PM è tenuto ad autorizzare, a norma dell’art. 268, comma 3, cpp, il compimento delle operazioni di intercettazione mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, quando si debba (Sez. II, 4 maggio 2001, n. 26015, Berlingeri, rv 219902; Sez. I, 12 dicembre 2003, n. 4210, Obermayer, rv 226852) derogare all’obbligo, previsto come regola generale, di effettuarle con impianti

installati presso la Procura. La duplice condizione è che questi ultimi impianti siano “insufficienti o inidonei” e che “esistano eccezionali ragioni di urgenza”. Le decisioni esprimono la tendenza a depurare la materia da qualsiasi inutile formalismo, risultando pacificamente sanzionata soltanto la situazione in cui il PM si sia limitato ad una affermazione generica ed apodittica sulle predette condizioni, soprattutto quando dagli atti non sia desumibile in alcun modo una situazione di necessità dovuta a cadenze processuali ravvicinate e concitate (Sez. II, 19 novembre 2003, n. 48252, Malaj, rv 226921). Moltissime sono le decisioni che affermano la sufficienza di motivazioni implicite o indirette. Tra queste ultime    -e con specifico riferimento alla motivazione riguardante il requisito delle “eccezionali ragioni di urgenza”-   si ricordano le sentenze che riconoscono come valida la motivazione del decreto ex art. 268 comma 3, riferita, per relationem, al decreto con cui ai sensi dell’art. 267 comma 3 sia stato il PM ad autorizzare in via di urgenza la intercettazione, senza attendere il provvedimento del giudice, trattandosi di indagini relative a reato per il quale risultavano in corso pedinamenti e accertamenti incalzanti in continua evoluzione (Sez. II, 27 marzo 2003, n. 1639, Di Pietro, rv 227309). È ammesso anche il rinvio per relationem al decreto di autorizzazione del Gip (Sez.VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229005). In quest’ultimo caso è posta la “condizione che da tale ultimo provvedimento emerga la esistenza delle eccezionali ragioni di urgenza occorrenti per legittimare il decreto del PM (Sez. VI, 19 gennaio 2004, n. 10777, Tassone, rv 229517). In tal senso si erano espresse già le Sezioni unite (sentenza 31 ottobre 2001, n. 32 -dep 28 novembre 2001, n. 42792 - Policastro) ritenendo, in linea con i criteri già espressi dalla sentenza dello stesso consesso 21 giugno 2000, Primavera, che fosse idoneo ad integrare la richiesta motivazione del decreto del PM il rinvio al passo del decreto autorizzativo del Gip che affermava la esistenza in atto della attività organizzativa dei reati fine della associazione.

La sentenza delle Sezioni unite in materia, 26 novembre 2003, n. 30482 (dep. 19 gennaio 2004), Gatto, ponendosi sulla scia delle due precedenti pronunzie del supremo Consesso ha confermato la legittimità della motivazione per relationem effettuata mediante la formula “…visto il decreto del Gip”. Ciò, peraltro, a condizione che nel decreto del giudice cui si sia fatto rinvio, si rinvengano elementi atti ad argomentare il requisito – non indispensabile ai fini della emanazione del decreto autorizzativo del Gip ed indispensabile invece ai fini della autorizzazione del PM all’uso di impianti esterni - delle eccezionali ragioni di urgenza. Nel caso trattato il requisito in parola era stato ritenuto desumibile da espressioni (poste in evidenza dal tribunale della libertà e non censurate nei motivi di ricorso) riferite alla situazione in atto di svolgimento della attività organizzativa dei reati fine della associazione. Altre sentenze hanno ritenuto che la ricorrenza del requisito dell’urgenza possa anche essere soltanto “desumibile per relationem” dalla motivazione del decreto adottato in via di urgenza, ossia -si arguisce - per effetto di una ricerca in tal senso effettuata dal giudice del controllo, non alla luce di un rinvio presente nel decreto ex art. 268 ma alla luce della “situazione delle indagini e dalle caratteristiche dei fatti criminosi investigati” (Sez. II, 27 marzo 2003, n. 48774, Leonardi ed altro, rv. 227274; Sez. I, 13 maggio 2003, n. 622, Izzo, rv 229153).

Ciò che tuttavia si sottolinea con forza da parte della Cassazione è che le ragioni di urgenza non possono essere fatte discendere soltanto dal titolo del reato   -delitti di criminalità organizzata-    mentre possono ritenersi implicitamente sussistenti (Sez. V, 11 maggio 2004, n. 24241, Mancuso, rv 228107) quando si faccia risaltare la ritenuta esistenza di una attività criminosa in atto per la quale sussiste il dovere della PG di intervenire con la massima sollecitudine per impedire che essa venga portata a conseguenze ulteriori (Sez. I, 22 aprile 2004, n. 23512, Termini, rv 228247; Sez. VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229005; fa applicazione di tale principio anche Sez. VI, 19 gennaio 2004, n.10777, Tassone, rv 229517).

Con riferimento, poi, alla motivazione sul requisito della “inidoneità o insufficienza degli impianti” installati in Procura, è da porre in risalto il contributo ermeneutico delle Sezioni unite dato con sentenza 26 novembre 2003, n. 30482 (dep. 19 gennaio 2004), Gatto120. Il principio di diritto in essa enunciato è quello secondo cui “non basta” un decreto del PM meramente assertivo ed attestativo della insufficienza o inidoneità degli impianti, occorrendo piuttosto che egli, in ossequio ai principi generali in tema di motivazione, indichi i dati materiali e le ragioni che hanno fatto ritenere sussistente la fattispecie concreta. Tale onere è stato ritenuto assolto anche in mancanza di indicazione delle cause che hanno dato origine alla indisponibilità degli impianti, ma in presenza della affermazione che “le linee presso la Procura erano indisponibili”.

Non sembra che dalla sentenza Gatto diverga sostanzialmente la pronuncia della sez. VI, 19 gennaio 2004, n. 10776, Idà, rv 229515. Sebbene nella massima si dia risalto al passo della motivazione secondo cui “la situazione di insufficienza o inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica può essere attestata dallo stesso PM, senza che egli debba dare atto delle relative cause”, occorre evidenziare che la lettura del resto della motivazione mostra la totale aderenza della decisione al dictum delle Sezioni unite Gatto. Infatti, la sentenza pone in risalto come, mediante il rinvio per relationem al decreto del Gip, la situazione concreta fosse quella per cui era stata “evidenziata l'inidoneità allo scopo delle linee presso gli uffici della procura della Repubblica” e proprio tale fattispecie era stata ritenuta legittima dalle Sezioni unite.

Il contrasto composto era stato creato da un lato dalle sentenze che ritenevano sufficiente la mera attestazione del PM sulla insufficienza o inidoneità degli impianti: Sez. II, 6 novembre 2002, Osuala, rv 223358; Sez. II; 5 maggio 2000, Papa, rv 216297; Sez. VI, 4 aprile 2003, Santaiti, n.m.; Sez. VI, 22 ottobre 2002, Palazzolo, n.m.; sul versante opposto, Sez. VI, 9 ottobre 2002, Ferraro, n.m.; Sez. IV, 13 maggio 2003, Pronestì, rv 225772; Sez. I, 18 giugno 2003, Di Matteo, rv 225263.

 

La giurisprudenza ha poi sottolineato che il requisito in parola deve essere valutato non in astratto, ma con riguardo alle concrete ed obiettive caratteristiche dell'indagine nel cui contesto si inseriscono le operazioni di intercettazione. Il principio consente cioè il ricorso ad impianti della polizia giudiziaria quando l'indagine richieda il coordinamento immediato di molti investigatori sparsi sul territorio, e dunque l'uso contestuale di numerose linee telefoniche e apparecchiature radio, oppure il sollecito raffronto tra gli esiti dell'intercettazione e l'oggetto di riprese televisive automatiche trasmesse ad impianti esistenti presso strutture di polizia giudiziaria (Sez. I, 19 novembre 2003, n. 467, Caleca, rv 227177). Per quanto concerne il tema della esecuzione dei decreti di proroga delle intercettazioni, la sentenza delle Sezioni unite 31 ottobre 2001, n. 32 –dep. 28 novembre 2001, n. 42792-Policastro, contiene l’affermazione del principio per cui “il pubblico ministero non è tenuto ad adottare un ulteriore decreto esecutivo che si

limiti a confermare anche per le operazioni prorogate quanto già precedentemente disposto in merito alle modalità delle intercettazioni e in particolare dell’impiego dell’apparato alternativo”. E l’assunto è bene esplicitato da Sez. V, 9 marzo 2004, n. 23123, Nuvoletto, rv 229187, secondo cui “I decreti di proroga delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni telefoniche (art. 267, comma terzo, cpp), sono provvedimenti preordinati solo a differire nel tempo la durata delle intercettazioni in corso, mentre le modalità esecutive delle captazioni debbono rimanere quelle originarie; di conseguenza non è necessario riesporre le ragioni di indisponibilità della strumentazione esistente presso gli uffici della Procura che hanno legittimato il ricorso ad impianti esterni, ove non risulti in alcun modo nè sia dedotta una sopravvenuta disponibilità della strumentazione in uso alla Procura”.

In materia di intercettazione di conversazioni per la ricerca di un latitante, si è rilevato che essa è sottoposta solo "ove possibile" al rispetto delle regole previste dall'art. 268 cpp, con la conseguenza che l'utilizzo di impianti esterni alla Procura non richiede una particolare motivazione in relazione alle indilazionabili ragioni di urgenza in quanto la cattura di un latitante integra di per sè una eccezionale ragione di urgenza, con l'ulteriore conseguenza che i risultati di detta intercettazione possono essere utilizzati anche in procedimento diverso (Sez. I, 4 novembre 2004, n. 45479, Galia, rv 229774).

 

Compatibilità costituzionale.

Con ordinanza n. 443 del 1° dicembre 2004, la Corte costituzionale ha rilevato che è manifestamente infondata, in riferimento agli artt 3 e 112 Cost., la questione di legittimità dell’art. 268 comma 3 c.p.p, nella parte in cui prevede la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, qualora non siano state osservate le disposizioni in esso previste. Identica questione era stata già dichiarata manifestamente infondata con precedenti decisioni, sulla base del rilievo che l’avere il legislatore privilegiato, per la effettuazione delle operazioni di intercettazione, l’impiego di apparati esistenti negli uffici giudiziari, dettando una disciplina volta a circoscrivere con apposite garanzie l’uso di impianti esterni, non può qualificarsi come scelta arbitraria, avuto riguardo anche alla particolare invasività del mezzo nella sfera della segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata. Si è poi escluso che rientri tra i compiti della Corte inseguire il progresso tecnologico valutando se esso renda necessario od opportuno un adeguamento o addirittura il superamento delle originarie regole di cautela, trattandosi al contrario di valutazione rimessa al legislatore, al pari dello stabilire se la violazione delle regole in questione debba essere o meno equiparata, sul piano della sanzione processuale, alla carenza della autorizzazione e alla esecuzione delle intercettazioni al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Si è escluso altresì che le disposizioni censurate incidano sull’obbligo del pubblico ministero di esercitare la azione penale, limitandosi esse a stabilire le garanzie tecniche di espletamento di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo. La Corte ha ritenuto che non possa istituirsi alcuna utile comparazione con la disciplina delle intercettazioni preventive, di cui all’art. 226 disp. att. cpp, le quali, mirando non ad accertare reati ma a prevenirne la commissione sono caratterizzate - proprio in relazione a tale diversità - da una disciplina distinta e da un livello di garanzie complessivamente inferiore rispetto alle intercettazioni regolate dalle disposizioni di cui agli artt. 266 e segg. cpp.

Con ordinanza n. 275 del 7 aprile 2004, il Giudice delle leggi ha altresì affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 268, comma 3, cpp sollevata in riferimento agli artt. 15, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice   -in sede si convalida del decreto del pubblico ministero che dispone le intercettazioni in via d'urgenza, ovvero di prima proroga dell'autorizzazione già data-   possa verificare la conformità ai requisiti legali, indicati nella stessa norma, del provvedimento del pubblico ministero.

Non risulta violato, infatti, il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, in relazione al quale è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza costituzionale, secondo cui tale principio sia da riferire non già all'attività giurisdizionale in senso stretto, che viene in rilievo nel caso in esame, bensì all'organizzazione ed al funzionamento dell'amministrazione della giustizia. Inoltre, l'intervento invocato dal giudice a quo, che richiede di introdurre, in via additiva, uno specifico meccanismo di controllo giurisdizionale sulle modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione, implicherebbe una manipolazione  –del vigente sistema processuale- a carattere "creativo", peraltro palesemente inadeguata rispetto all'obiettivo invocato ed "eccentrica" rispetto alle linee del sistema, atteso che il sindacato sulla motivazione di un atto probatorio è tipicamente devoluto o all'organo dell'impugnazione ovvero a quello destinato a fruire del mezzo probatorio cui la motivazione si riferisce. La soluzione di disciplinare diversamente la verifica dei presupposti di legittimità dell'intercettazione rispetto alla verifica dei presupposti di impiego di apparecchiature esterne rientra nell'ambito di una ragionevole discrezionalità legislativa, a prescindere, inoltre, dai limiti di conferenza del parametro.

Oggetto della ordinanza n. 248 del 7 aprile 2004 è stata la questione di legittimità costituzionale – dichiarata dal giudice delle leggi manifestamente infondata - dell'art. 268, comma 3, cpp, sollevata in riferimento all'art. 76 della Costituzione nella parte in cui - secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità - prevede che non soltanto le intercettazioni telefoniche, ma anche quelle di comunicazioni tra presenti possano essere compiute esclusivamente per mezzo di impianti installati presso la Procura della Repubblica, salvo provvedimento motivato di deroga del Pubblico Ministero che – a fronte della insufficienza o inidoneità di detti impianti e dell'esistenza di eccezionali ragioni di urgenza - disponga il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria. È apparsa infatti coerente con il complessivo contesto normativo in cui la norma impugnata si inserisce, nonché con le finalità ispiratrici della legge delega, una sua interpretazione, quale quella che il giudice a quo assume costituire "diritto vivente", che tenga conto: a) che le medesime esigenze di "controllo fattuale" dell'autorità giudiziaria sullo svolgimento delle operazioni sussistono, oltre che per le intercettazioni telefoniche, anche per le c.d. intercettazioni ambientali, per cui non può sostenersi che il legislatore delegante - nel prevedere l'individuazione degli impianti presso cui possono essere effettuate le intercettazioni "telefoniche" (direttiva di cui all'art. 2, n. 41, lettera d), invocata come norma interposta dal rimettente) – intendesse precludere, a contrario, al legislatore delegato di dettare regole in tema di localizzazione degli impianti utilizzabili anche in rapporto a forme di intercettazione, di nuova introduzione, diverse da quelle telefoniche; b) che la medesima direttiva va inoltre letta in correlazione, per un verso, con la linea dello stesso n. 41, che prefigurava il possibile ampliamento della disciplina delle intercettazioni a "conversazioni e altre forme di comunicazione", non preventivamente tipizzate dal legislatore delegante, e, per un altro verso, con la direttiva di cui alla lettera b), che conferiva al legislatore delegato ampio e generico mandato a predeterminare "le modalità delle intercettazioni".

Anche l’ordinanza n. 472 del 9 ottobre 2002 aveva avuto ad oggetto analoga questione, ma la Corte costituzionale ne aveva dichiarato la manifesta inammissibilità, ritenendo che il rimettente intendesse utilizzare il giudizio di costituzionalità per un fine ad esso estraneo, in quanto proponeva la questione al solo scopo di ricevere dalla Corte un improprio avallo ad una determinata interpretazione – ritenuta preferibile - mentre tale attività è rimessa al giudice di merito, tanto più in presenza di indirizzi giurisprudenziali non stabilizzati.

In tema di non estensibilità del delineato potere del PM   -pena la incompatibilità dell’istituto con l’assetto costituzionale-   il Giudice delle leggi ha affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 268, comma 3, cpp, nella parte in cui consente al PM di disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano eseguite con impianti esterni “soltanto” nei casi indicati dalla norma. La Corte costituzionale ha sottolineato che “tale scelta normativa non è in contrasto con le disposizioni della legge delega né costituisce una scelta arbitraria in quanto è finalizzata ad evitare che le intercettazioni possano avvenire al di fuori del controllo della autorità giudiziaria e non incide sull’obbligo di esercitare l’azione penale stabilendo le garanzie tecniche di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo” (ord. n. 259 del 17 luglio 2001). Nello stesso senso si è espressa l’ord. n. 304 del 19 luglio 2000 relativa a questione posta in relazione all’art. 271 comma 1 cpp censurato sul piano della ragionevolezza per la previsione della inutilizzabilità di intercettazioni eseguite senza l’osservanza del disposto dell’art. 268 comma 3, ultimo inciso, cpp. In argomento, l’ordinanza n. 209 del 7 aprile 2004 ha da ultimo nuovamente dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, cpp, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, nella parte in cui prevedono, rispettivamente, che il pubblico ministero possa disporre, con provvedimento motivato, che le operazioni di intercettazione siano compiute mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria unicamente quando gli impianti installati nella procura della 127 Sul costante orientamento in forza del quale, ai fini della valutazione del vizi o di eccesso di delega, le norme della legge di delegazione che determinano i principi e i criteri direttivi devono essere interpretate tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità ispiratrici della delega, v., tra le tante, le sentenze n. 96/2001, n. 276, n. 292 e n. 415/2000 e l'ordinanza n. 259/2001. Sulle "garanzie" richieste dall'art. 15, secondo comma, Cost., ai fini della limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, nel senso che tra di esse rientrano non solo quelle di ordine giuridico, ma anche quelle attinenti alla predisposizione dei servizi tecnici necessari affinché l'autorità giudiziaria possa controllare, anche di fatto, che si proceda "alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti della autorizzazione", v. la sentenza n. 34/1973.

La questione di legittimità costituzionale riguardava gli artt. 268, comma 3, e 271, comma 1, del codice di procedura penale, denunziati, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, nella parte in cui - secondo l'interpretazione della Corte di cassazione - prevedono che tutte le operazioni di intercettazione, e non soltanto quelle telefoniche, possano essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, salvo motivato provvedimento di deroga del pubblico ministero, in ragione della insufficienza o inidoneità di detti impianti e della sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza e ciò a pena di inutilizzabilità dei risultati delle operazioni stesse.

La Corte ha richiamato le analoghe questioni dichiarate manifestamente infondate con le ordinanze appena citate, n. 259 del 2001 e n. 304 del 2000, rilevando che le stesse hanno sottolineato come alle norme impugnate sia sottesa l'esigenza di garantire, anche da un punto di vista tecnico e non solo giuridico, la segretezza e la libertà delle comunicazioni; nè il presunto carattere 'anacronistico' impresso a tali regole di cautela dall'evoluzione delle modalità tecniche di esecuzione delle intercettazioni - prospettato dal rimettente quale argomento nuovo rispetto a quelli già esaminati - legittimerebbe la Corte costituzionale a compiere un loro eventuale adeguamento, trattandosi, al contrario, di valutazione istituzionalmente rimessa al legislatore.

Interessante è anche ricordare, dal punto di vista della congruità della disciplina in esame con la Carta costituzionale, la sentenza della Cassazione, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 268, comma terzo, cpp, sollevata sul rilievo che il potere riservato al pubblico ministero di stabilire le modalità esecutive delle intercettazioni, senza essere tenuto ad informare l'indagato, il difensore e il g.i.p. sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, atteso che le intercettazioni costituiscono atti di indagine " a sorpresa" e la loro funzione probatoria perderebbe di significato se l'indagato o il suo difensore dovessero essere preavvertiti dell'attività captativa, mentre il contraddittorio e l'esercizio del diritto di difesa potranno esplicarsi al termine delle operazioni di intercettazione.

 

Quali apparecchiature

Allo stato attuale della normativa, comunque, tutto ciò che attiene alle modalità esecutive dell'operazione di captazione è rimesso all'esclusivo controllo del pubblico ministero. Pertanto è legittima l'eventuale sostituzione dell'apparato cellulare installato nel luogo (nella specie un'autovettura) il quale sia malfunzionante, con un altro apparato, anche se fornito da un soggetto privato, con conseguente piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate (Sez. V, 6 ottobre 2003, n. 957, Camiti, rv 228518).

Altra pronuncia ha rilevato che qualora sia stato regolarmente emesso decreto di autorizzazione ad eseguire un'intercettazione sulla vettura dell'indagato, la modifica dell'esecuzione sul nuovo veicolo acquistato dall'imputato senza provvedere alla rinnovazione del decreto costituisce mera irregolarità dalla quale non discende l'inutilizzabilità dell'intercettazione (Sez. VI, 3 luglio 2003, n. 43010, Serra, rv 227023).

In tema di noleggio di impianti per la registrazione, lo stato della giurisprudenza non presenta particolari evidenze.

Quando sia la Procura a dover ricorrere al noleggio non risulta derogata la regola ordinaria di esecuzione, per la quale le operazioni devono essere compiute per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica. Ciò che rileva è che le dette operazioni si svolgano nell'ufficio giudiziario, a nulla rilevando l'eventualità che le apparecchiature utilizzate siano acquisite per l'occasione, anche mediante noleggio presso imprese private. Ne consegue che nei casi indicati, non ricorrendo il caso delle operazioni effettuate mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, il PM. non è tenuto a documentare, con proprio provvedimento motivato, la ricorrenza di eccezionali ragioni di urgenza, nè l'insufficienza o l'inidoneità degli impianti preesistenti (Sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 2845, Cavataio, rv 228419).

Quando invece sia la polizia giudiziaria  a dover noleggiare le apparecchiature, si osserva che la norma di cui al terzo comma dell'art. 268 cpp, nel prevedere che l'intercettazione possa effettuarsi attraverso impianti in dotazione della polizia giudiziaria, non si occupa dello strumento giuridico attraverso cui la polizia riceve tale dotazione (compravendita, - comodato, locazione o altro), ma si preoccupa soltanto che terzi estranei a tali impianti non possano accedervi (Sez. VI, 30 settembre 2003, n. 330, rv 227602). A ciò è stato aggiunto che in caso di inidoneità delle apparecchiature installate presso la Procura della Repubblica e di mancanza di disponibilità delle stesse da parte della polizia giudiziaria, è possibile, in situazioni di urgenza e previa adozione di apposito decreto autorizzativo motivato emesso dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 268, comma terzo, cpp, l'utilizzo di apparecchiature appartenenti a privati, purché le operazioni avvengano sotto il diretto controllo della polizia giudiziaria che,

gestendole direttamente, ne acquisisce la disponibilità a tutti gli effetti (Sez. I, 7 aprile 2004, n. 19072, Pizzi, rv 228648)137. Meglio è stato precisato da Sez. IV, 1 luglio 2003, n. 35186, Rodorigo, rv 226387, che l'utilizzazione di apparecchiature in disponibilità di privati, autorizzata con decreto motivato del pm, è consentita solo allorquando esse possano farsi rientrare nel concetto di "impianti in dotazione alla polizia giudiziaria", di cui all'art. 268, comma 3, cpp; tale ipotesi ricorre anche nel caso in cui sia nominato, quale ausiliario della polizia giudiziaria, personale tecnico della ditta di cui siano stati noleggiati i suddetti impianti, i quali, pertanto, costituiscono "dotazione" della P.G., al pari di qualsiasi apparecchiatura che sia nella disponibilità, anche precaria, della stessa polizia giudiziaria, sotto il cui diretto controllo è essenziale che avvengano le operazioni di ascolto e di registrazione.

 

Nelle intercettazioni di comunicazioni tra presenti.

Ampio è stato invece il dibattito nella giurisprudenza della Cassazione sulla operatività dell’obbligo del decreto del PM ex art. 268 comma 3 anche in relazione anche alle intercettazioni di comunicazioni tra presenti. Come evidenziato con segnalazione di contrasto dell’Ufficio del Massimario n. 93 del 1999, vi era un orientamento secondo cui il decreto in deroga dovesse essere emesso, sussistendone i presupposti, anche nel caso citato (Sez. I, 28 settembre 1999, n. 5239, Renelli, rv 214434: “Per l'intercettazione di comunicazioni tra presenti (nella specie effettuata nei locali di un istituto di pena) è richiesto, a pena di inutilizzabilità del relativo contenuto, che il decreto del pubblico ministero di autorizzazione a servirsi, sempre che ricorrano le condizioni previste dall'art. 268, comma terzo, cpp, di apparecchiature non installate presso la Procura della Repubblica che procede, sia adeguatamente motivato”; analogamente, Sez. I, 7 ottobre 1997, n. 11077, Bonavota, rv 209163). Successivamente alla segnalazione citata, una nuova relazione dell’Ufficio del Massimario, la n. 119 del 2000, aveva dato conto della ulteriore sentenza allineatasi con la capolista Renelli: Sez. I, 22 maggio 2000,n. 3732, Delle Grottaglie, rv 216282. Un altro contributo nella stessa direzione era poi stato dato da Sez. I, 29 settembre 2000, n. 797, Bayan, rv 217548. Conforme Sez. I, 20 dicembre 2004, n. 2613, Bolognino, rv 230532.

L’orientamento opposto era nel senso, invece, che la disciplina prevista dall’art. 268 comma 3 cpp non può riferirsi anche alla intercettazioni di comunicazioni tra presenti di cui al precedente art. 266 comma 2, in quanto queste sarebbero tecnicamente realizzabili soltanto per mezzo di apparecchi vicini alla fonte sonora, sicché dovrebbero essere eseguite “normalmente” mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria; con la conseguenza che il mancato espresso riferimento, nel decreto autorizzativo, all’impianto diverso da quello in dotazione alla Procura della Repubblica, attraverso il quale effettuare le intercettazioni, non inciderebbe sulla utilizzabilità del loro contenuto (v. tra le molte, Sez. Fer., 11 agosto 1999, n. 10076, Bugio, rv 213977; Sez. I, 26 novembre 1998, n. 5903, Galeandro, rv 212104; Sez. VI, 22 gennaio 1997, n. 5649, Dominante, rv 208900; Sez. VI, 7 gennaio 1997, n. 7, Pacini Battaglia, rv 207365; Sez. I, 4 luglio 1996, n. 4508, Vezza, rv 205697). La questione ha formato oggetto di un intervento delle SS.UU. (sent. 31.10.2001, n. 32 -dep 28 novembre 2001, n. 42792- Policastro), che hanno fatto propria la tesi più rigorosa secondo la quale il decreto motivato del PM per l’utilizzo di impianti esterni è necessario anche nella fattispecie delle intercettazioni ambientali, non essendo consentita, in base alla lettera e alla interpretazione sistematica della disciplina normativa, alcuna differenza di trattamento fondante sulle modalità di esecuzione della captazione nelle altrui conversazioni.

In particolare, la sentenza ha fatto leva sull’inquadramento della intera materia così come effettuato dalla Corte costituzionale sin dal 1973 (sent. n. 34 del 1973) la quale ha richiesto, nel bilanciamento degli interessi in gioco, che la compressione del diritto alla segretezza delle comunicazioni avvenga nel rispetto di garanzie di ordine giuridico e tecnico, sotto il pieno controllo della autorità giudiziaria. Inoltre ha ricostruito l’iter normativo attraverso il quale (dapprima con l’aggiunta al codice del 1930 dell’art. 226 quater comma 1 e poi del comma 2 rispettivamente con leggi n. 98 del 1974 e poi n. 191 del 1978) si era giunti ad ammettere, in via eccezionale e per motivi di urgenza, l’uso di impianti esterni a quelli della Procura procedente. In punto di fatto, poi, la sentenza delle Sezioni unite ha sottolineato come la tecnologia consenta oggi di effettuare la intercettazione fra presenti anche avvalendosi di impianti fissi, senza dovere cioè necessariamente avvalersi di apparecchi vicini al punto di rilevamento. Tale affermazione non sembra tuttavia essere stata generalmente accettata dalla giurisprudenza di legittimità se è vero che, ad esempio, Sez. VI, 25 giugno 2002, n. 1281, Barilari, rv 223683 ha osservato che la disciplina prevista dall'art. 268, comma terzo, cpp, secondo cui “le operazioni di intercettazione devono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, non si riferisce anche alle intercettazioni di comunicazioni all'interno di un'autovettura, in quanto queste ultime sono tecnicamente realizzabili solo a mezzo di apparecchi che siano vicini alla fonte sonora”.

Tale decisione riguarda le “garanzie” richieste dall’art. 15 comma 2 Cost. ai fini della limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, intendendo per tali non solo quelle di ordine giuridico ma anche quelle attinenti alla predisposizione dei servizi necessari affinché l’autorità giudiziaria possa controllare anche di fatto che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti della autorizzazione.

Ciò nonostante, proprio muovendo dal rilievo che l’orientamento espresso dalle Sezioni unite costituisse “diritto vivente”, la Corte costituzionale ha esaminato la questione di legittimità dell’art. 268 comma 3 cod. proc. pen sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., nella parte in cui – secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità - prevede che non soltanto le intercettazioni telefoniche ma anche quelle di comunicazioni fra presenti possano essere compiute esclusivamente per mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica, salvo provvedimento motivato di deroga del PM. Ebbene, con ordinanza n. 248 dell’8 luglio 2004, il Giudice delle leggi ha dichiarato la questione manifestamente infondata rilevando che “…appare coerente con il complessivo contesto normativo in cui la norma impugnata si inserisce, nonché con le finalità ispiratrici della legge delega, una sua interpretazione, quale quella che il giudice a quo assume costituire “diritto vivente” che tenga conto:

a) che le medesime esigenze di controllo fattuale della autorità giudiziaria sullo svolgimento delle operazioni, sussistono oltre che per le intercettazioni telefoniche, anche per le c.d. intercettazioni ambientali, per cui non può sostenersi che il legislatore delegante, nel prevedere la individuazione degli impianti presso cui possono essere effettuate le intercettazioni telefoniche (direttiva di cui all’art. 2 n.41 lett. d) invocata come norma interposta dal remittente) – intendesse precludere – a contrario - al legislatore delegato di dettare regole in tema di localizzazione degli impianti utilizzabili anche in rapporto a forme a forme di intercettazione di nuova introduzione, diverse da quelle telefoniche;

b) che la medesima direttiva va inoltre letta in correlazione, per un verso, con l’alinea dello stesso n. 41 che prefigurava il possibile ampliamento della “disciplina delle intercettazioni” a “conversazioni e altre forme di comunicazione” non  preventivamente tipizzate dal legislatore delegante e, per un altro verso, con la direttiva di cui alla lett. b), che conferiva al legislatore delegato ampio e generico mandato a predeterminare le <modalità delle intercettazioni>”.

 

Ascolto remoto.

Ma proprio con riferimento al tema delle modalità di esecuzione delle operazioni di ascolto di intercettazioni di comunicazioni fra presenti, oggetto del decreto a firma del Pubblico Ministero, occorre osservare come il progresso tecnologico abbia prepotentemente superato tutte le problematiche finora citate, in quanto è stata introdotta la possibilità, già da alcuni anni, di ascoltare le conversazioni intercettate, senza dunque derogare alla regola generale, con ascolto in sede remota presso la sala ascolto della polizia giudiziaria. Ove intenda accedere a tale modalità di esecuzione, appare opportuno che il Pubblico Ministero indichi, nel decreto esecutivo, che si procederà all’ascolto remoto, con la specificazione del tipo di impianto, dell’impresa che lo fornisce e della sala ascolto della polizia giudiziaria incaricata dell’ascolto[48]. Orbene, come è noto, nel rispetto del dettato normativo, le registrazioni delle operazioni di intercettazione, salvo particolari eccezioni, avvengono in Procura attraverso impianti preinstallati dalle singole aziende fornitrici del servizio. Secondo quello che può definirsi come orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, “Le operazioni di <<registrazione>>,  che in forza dell’art. 268, comma 3, cpp, parte prima, debbono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, consistono nella immissione dei dati (captati presso la centrale dell’operatore telefonico e trasmessi agli impianti in Procura) nella memoria informatica centralizzata (cd server), che si trova nei locali della Procura della Repubblica a ciò destinati (Cass. SS.UU. n. 36359  del 26.6.2008 – dep.23/09/2008, Carli, Rv. 240395). Da ciò la necessità che le tracce foniche vengano, permanentemente, conservate fino alla loro distruzione da disporsi ai sensi dell’art. 269 cpp e, pertanto, esclusivamente previo provvedimento del giudice, negli impianti dislocati nella sala ascolto della Procura della Repubblica. A tal fine, le ditte presenti in sala ascolto, devono attrezzarsi di apparati di storage nei quali trasferire i files relativi alle intercettazioni dal server, allorquando questo abbia raggiunto il limite di capienza. Benché le predette pronunce giurisprudenziali non escludano che la masterizzazione dei CD/DVD, recanti le tracce foniche delle intercettazioni, possa avvenire nella località dell’ascolto remoto, la Procura di Napoli ha reputato, viceversa, opportuno, a garanzia della privacy dei soggetti intercettati, stabilire che dette operazioni avvengano nella sala ascolto della Procura della Repubblica. È da rilevare, in proposito, come l’attività di masterizzazione, che a prescindere dalla esistenza delle tracce foniche nel server risulta imposta dal combinato disposto degli artt. 268, comma 4 e 89, comma 2, dd. att. Cpp, presenti significativi ritardi, verosimilmente derivanti dalla convenienza dei reparti di polizia giudiziaria deputati all’ascolto in località remota a non perdere l’accesso alle tracce audio, come avviene, appunto, dopo la loro duplicazione su supporti mobili, in unico esemplare, e la consegna degli stessi all’Ufficio del PM. Al fine di evitare il protrarsi di tale situazione, che determina la accessibilità alle tracce foniche senza limiti di tempo, è stato disposto dalla Procura di Napoli che la p.g. delegata alle operazioni di ascolto, ad attività conclusa, avrà accesso alle tracce foniche contenute nei server o negli apparati di storage, soltanto previa autorizzazione del PM titolare del procedimento, nel quale le attività di intercettazione sono avvenute ed a condizione che siano state effettuate le operazioni di masterizzazione, circostanza quest’ultima da attestare nella relativa richiesta al PM. È stato altresì previsto che il provvedimento autorizzatorio potrà avere una durata massima di gg. 40, ovviamente prorogabili per periodi di ulteriore durata. Decorso il termine di autorizzazione, iniziale o prorogato, le ditte proprietarie degli impianti interromperanno la possibilità di accesso alle tracce audio. Nel rispetto delle prescrizioni del Garante della Privacy, il plico formato ai sensi degli artt. 268, comma 4 cpp e 89, co. 2, dd.aa. cpp non deve contenere dati sensibili. In particolare, per quanto riguarda le intercettazioni ambientali, non dovrà riportare se non le iniziali del nominativo del soggetto monitorato, il numero di decreto di intercettazione e del procedimento penale, il tipo di ambiente intercettato ( es., carcere, ufficio, abitazione, veicolo, ecc.) e, nel caso in cui si tratti di veicolo, il modello e le prime tre lettere/numeri della targa, con quelli ulteriori asteriscati.



[1]           Cass., SS.UU., Sent. 28 maggio 2003, n. 6747, Torcasio, rv 225465-468.

[2]           Al riguardo, Sez. II, 25 settembre 2003, n. 45622, Versaci, rv 227153, ha riconosciuto la ammissibilità della deposizione testimoniale dell’interlocutore di una conversazione sul contenuto della medesima.

[3]           In Cass. Pen. 2000, p. 3455, n. 1931.

[4]           Sez. V, 21 ottobre 2003, n. 44714, Fiumara, rv 226743; Sez. VI, 9 gennaio 2003, n. 25682, Nocerino, rv 225477; Sez. VI, 18 marzo 1998, n. 982, Marono, rv 211780; Sez. VI, 8 aprile 1994, n. 6633, Giannola ed altro, rv 198526; Sez. VI, 4 giugno 1993, n. 9443, Carnazza ed altri, rv 196012.

 

[5]           F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. II, 4° ed., Tipografia di B. Canovetti, Lucca, 1879, 586. 

[6]           Cass. Pen., VI, 29 settembre 2003, n. 49533, Giliberti, in CED Cass., n. 227835. 

[7]           Cass. Pen., IV, 15 giugno 2000, Viskovic, cit. 

[8]           Cass. Pen., VI, 23 gennaio 2003, n. 3443, Mostra, in CED Cass., n. 224743. 

[9]           L. FILIPPI, L'home watching: documento, prova atipica o prova incostituzionale? Il commento, in Dir. pen. proc., 2001, 92. 

[10]          Nell’ordine: Cass. VI, 15 gennaio 2009, n. 6875, P., Cass., I, 6 maggio 2008, n. 32851, S.; Cass., VI, 9 luglio 2002, n. 30268, G.R., e Cass., VI, 10 novembre 2011, n. 1707/12, T.; Cass., I, 22 gennaio 1996, n. 1904, P. 

[11]          Art. 8. - Diritto al rispetto della vita privata e familiare. 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

[12]          C.e.d.u., sent. 25 giugno 1997, Halford c. Regno Unito.

[13]          C.e.d.u., sent. 24 agosto 1998, Lambert c. Francia.

[14]          Sez. VI, 23 febbraio 2004, n. 36273, Agate, rv 229808; analogamente, quanto alla sala colloqui di un istituto di detenzione, Sez. I, 3 marzo 1997, n. 3901, Telese ed altri, rv 207309 e quanto alla cella del carcere, Sez. II, 20 novembre 1996, n. 2103, Marras ed altro, rv 209929.

[15]          Tra le molte, Sez. II, 9 maggio 2001, n. 26070, D’Agostino, n.m.; Sez. II, 4 maggio 2001, n. 26015, Berlingeri rv 219901; Sez. VI, 23 gennaio 2001, De Palma; Sez. I, 18 ottobre 2000, Galli, rv 218042; Sez. I, 11 luglio 2000, Nicchio, n. 216749, rv 216749; Sez. VI, 5 ottobre 2000, n. 3608, Saggio, rv 218242. Successivamente alla sentenza delle Sezioni unite, Sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 2845, PG in proc. Cavataio, rv 228420; Sez. VI, 10 dicembre 2002, n. 8009, Palumbo, rv 223960; Sez. VI, 26 novembre 2002, n. 5362, Brozzu ed altri, rv 226149. In senso contrario, Sez. II, 12 marzo 1998, n. 1831, Zagaria, rv 211142. Il contrasto giurisprudenziale, già con la sentenza della Sez. I, 17 febbraio 1996, n. 1904, Porcaro, rv 203799, è stato segnalato dal Massimario con relazione n. 34 del 1998 e successivamente con rel. n. 77 del 2003.

[16]          La sentenza Sez. I, 11 luglio 2000, Nicchio, n. 216749, rv 216749, che, nell’Archivio del Massimario ed anche nella segnalazione di contrasto n. 77 del 2003, è data come conforme alla sentenza Zagaria, in realtà non lo è sul punto specifico della inquadrabilità dell’abitacolo dell’autovettura nella categoria di cui all’art. 614 cp.

[17]          Il potere della autorità amministrativa di intimare la apertura di mezzi di trasporto sulla base dell’art. 6 l. prov. aut. Trento 26 luglio 1973 n. 18. La sentenza della Corte costituzionale è commentata criticamente da A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Cedam, 1997, p. 15; G. PAGANETTO, Libertà domiciliare nelle autovetture e limiti della tutela dell’ambiente, in Giur. cost., 1987, p. 1 ss. La condivide invece R. CHIARELLI, voce Domicilio, in Enc. Giur., vol. XII, Roma 1989.

[18]          Conformi Sez. VI, 19 gennaio 2004, n. 10776, Idà, rv 229516; Sez. VI, 29 settembre 2003, Giliberti, rv 227836.

[19]          Fattispecie di sequestro di persona a scopo di estorsione, nella quale le operazioni di intercettazione ambientale erano state attivate, dopo la liberazione dell'ostaggio, al fine sia di individuare gli autori del reato sia di accertare la loro attività diretta ad assicurare il prezzo del riscatto.

[20]          Cfr. Cass. 20 febbraio 1991, Morabito, in Giur. It., 1991, II, 466.

[21]          Cc.  (dep. 28/5/1992) Rv. 190783, Presidente: Callà P.  Estensore: Pisanti F.  Imputato: Corvasce ed altri. (Conf.) (Rigetta, G.I.P. Trib. Trani, 15 gennaio 1992),

[22]          Si vedano le Sentenze Corte Cost.: n. 45 del 1963, n. 61 del 1964, n. 10 del 1971, n. 76 del 1973, n. 173 del 1974, n. 106 del 1975, n. 110 del 1976).

 

[23]          Cfr. Cass. Sez. 5, Sent. n. 4329 del 28/10/2008 Cc.  (dep. 30/01/2009 ) Rv. 242944.  Imputato: P.G. in proc. Chiocci e altro. P.M. Delehaye E. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Perugia, 30 giugno 2008).

[24]          Art. 3, comma 1, d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, conv. in l. 15 dicembre 2001, n. 438.

[25]          Art. 9 l. 11 agosto 2003 n. 228.

[26]          Cass. Sez. VI, 7 gennaio 1997, Pacini Battaglia, rv 207363; Sez. VI, 16 maggio 1997, Pacini Battaglia, rv 210045; Sez. I, 2 luglio 1998, Ingrosso, rv 211167; Sez. I, 2 luglio 1998, Capoccia, n.m.; Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera. Successivamente, v. Sez. V, 20 ottobre 2003, n. 46221, Altamura ed altro, rv 227481, secondo cui sono tali non solo i reati di criminalità mafiosa ma tutte le fattispecie criminose di tipo associativo.

[27]          Cass. Sez. VI, 24 febbraio 1995, Galvanin, rv 201695. Secondo Cass. Sez. V, 5 novembre 2003, n. 46963, Anghelone ed altri, rv 227772, la speciale disciplina dettata dall'art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, derogatoria delle disposizioni di cui all'art. 267 cpp., si applica anche al sequestro di persona a scopo di estorsione. E, infatti, a parte che il delitto anzidetto è, ormai da tempo, ritenuto un tipico reato di criminalità organizzata, anche nella generale considerazione del legislatore (come si rileva, tra l'altro, dall'art. 51, comma terzo bis, cpp, che attribuisce la competenza per tale reato al procuratore distrettuale) e che un'eventuale sua realizzazione in forma monosoggettiva   -in contrasto con un'iniziale imputazione ad organizzazione delittuosa-   sarebbe, comunque, accertabile solo ex post, ad indagini concluse, è sufficiente, ai fini dell'applicabilità della normativa in questione, il mero riferimento alle modalità di esecuzione della richiesta estorsiva che, di norma, è realizzata mediante telefono. E, infatti, il menzionato art. 13 si riferisce sia ai delitti di criminalità organizzata sia a quelli di minaccia posta in essere con il mezzo telefonico. Da ultimo, cfr. Cass. Sez. I, 3 febbraio 2005, dep. 25 febbraio 2005, Rochira, per la quale l’art. 21-bis d.l., 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge, 7 agosto 1992, n. 356, modificativo dell’art. 240-bis d.lgs., 28 luglio 1989, n. 271, sostitutivo, a sua volta, dell’art. 2, legge, 7 ottobre 1969, n. 742, secondo cui la sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari “non opera nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”, è da intendere riferito non solo ai reati di criminalità di tipo mafioso o assimilato, ma anche ai reati di criminalità organizzata di altra natura, così come pure a quelli che ad essi risultino connessi e si estende anche ai termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali; per reati di criminalità organizzata debbono intendersi le fattispecie criminose analiticamente individuate e selezionate, con la tecnica di normazione per “cataloghi”, dagli artt. 407, comma 2, lett. a), 372, comma 1-bis e 51, comma 3-bis, cpp.

[28]          Non potendo, cioè, il P.M. calcolare il termine per la impugnazione, avvantaggiandosi della sospensione estiva dei termini procedurali, la sua impugnazione avrebbe dovuto essere considerata tardiva.

[29]          Qualche dubbio sulla correttezza della procedura autorizzativa basata su informazioni confidenziali sembrava manifestato da Sez. IV, 12 settembre 1996, n. 2114, Artan Sadin, rv 206312.

[30]          Analogamente, Sez. IV, 4 maggio 2004, n. 27891, Mucci, rv 229075.

 

[31]          Sez. VI, 22 maggio 2003, n. 31739, Corteggiano, rv 226202; Sez. VI, 1 ottobre 2003, n. 49537, Potenza, rv 227275; Sez. V, 3 maggio 2001, n. 27656, Corso, rv 220227.

[32]          Sez. V, 19 gennaio 2001, n. 13614, Primerano, rv 218392; Sez. I, 17 dicembre 2003, n. 1683, Parillà, rv 227128.

 

[33]          Cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24211 del 15/05/2013 Ud.  (dep. 04/06/2013 ) Rv. 255709, Presidente: Esposito A.  Estensore: Iannelli E.  Relatore: Iannelli E.  Imputato: Pelle.P.M. Aniello R.(Conf.) (Annulla in parte senza rinvio, Ass.App. Reggio Calabria, 13/03/2012).

 

[34]          Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21644 del 13/02/2013 Ud.  (dep. 21/05/2013 ) Rv. 255542. Presidente: Esposito A., Estensore: Verga G., Relatore: Verga G.  Imputato: Badagliacca e altri. P.M. Mazzotta G. (Parz. Diff.) (Rigetta, App. Palermo, 19/12/2011)

[35]          Cass. Sez. V, 15 febbraio 2000, n. 784, Terracciano, rv 215731.

[36]          Cass. Sez. III, 23 maggio 1997, n. 6231, Bormolini, rv 208634; Sez. I, 11 febbraio 1999, Carlino, rv 212282, secondo cui non è sufficiente il mero riferimento alle informative di polizia.

[37]          Cass. Sez. VI, 14 agosto 1998, n. 4007, Venturini, rv 213585.

[38]          Cass. Sez. I, 26 maggio 1999, n. 3909, Adorisio, rv 214006.

[39]          Cass. Sez. IV, 14 maggio 2004, n. 32924, Belforte ed altri, rv 229105.

[40]          Cass. Conforme, Sez. VI, 25 novembre 2003, n. 727, Matarrelli, rv 227895.

[41]          Sez. un. 27 marzo 1996, n. 5021, Sala; Sez, un., 13 luglio 1998, n. 21, Gallieri; Sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, D’Amuri, ove si legge che l’art. 191 cpp è applicabile anche alle c.d. prove  incostituzionali perché assunte con modalità lesive dei diritti fondamentali dell’individuo,  incostituzionalmente protetti; prove colpite come tali dalla patologia irreversibile della inutilizzabilità, a prescindere dal fatto che la legge contempli divieti espliciti al loro impiego nel procedimento. Non è infatti necessario che le garanzie siano puntualmente previste nel testo normativo che disciplina una materia, possono rinvenirsi in altre norme o nei principi generali, anche contenuti nella carta Costituzionale.

[42]          Cass. SS. UU., 21 giugno 2000, n. 17, Primavera ed altri, rv 216665.

[43]          Il principio non sembra in linea con quanto rilevato in una precedente sentenza delle Sezioni unite, 25 marzo 1998, n. 11, Manno ed altro, rv. 210610. Nella relativa motivazione, sviluppata su una censura di asserita inutilizzabilita' delle intercettazioni che sarebbe stata provocata da aspetti otivazionali dei relativi provvedimenti (motivazione evocata dalla sentenza Primavera per prendere atto della difformità, ma riducendo la stessa alla fattispecie concreta trattata), era stato affermato, con un rinvio opinabile alla sentenza delle Sezioni unite 27 marzo 1996, n. 5021, Sala, che “in materia di intercettazioni telefoniche, l'inutilizzabilita' va riferita solo alla violazione delle norme degli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cpp, mentre le eventuali illegittimita' formali, come quelle relative a violazione delle altre previsioni del citato art. 268 o alla mancata motivazione del decreto autorizzativo ne  determinano, semmai, l'invalidità”.

[44]          Cfr. Sez. un., 20 novembre 1996, n. 21, Glicora, rv 206954; Sez. un., 13 luglio 1998, n. 21, Gallieri, rv 211196, ove si è sottolineato che “rientrano nella categoria delle inutilizzabilità” rilevabili in ogni stato e grado del processo “non solo le prove oggettivamente vietate ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati in modo specifico dalla Costituzione come nel caso degli artt. 13, 14 , 15 in cui la prescrizione della inviolabilità attiene a situazioni fattuali di libertà assolute”; Sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, D’Amuri, rv 215841; Sez. un., 25 marzo 1998, n. 9, D’Abramo, rv 210803; Sez. un., 25 marzo 1998, n.10, Savino, rv 210804.

[45]          Cass., Sez. I, 22 settembre 1997, n. 5179, Chiochia, rv 209463; Sez. V, 15 febbraio 2000, n. 776, Coppola rv 215980; Sez. IV, 14 giugno 2001, Cefalù, n. 35091 n.m., in Guida dir., 2001, n. 48.

[46]          Cass. Sez. VI, 8 aprile 1999, n. 1231, Calabrò, rv 213478; Sez. I, 12 aprile1999, Tomasello, rv 21957; Sez. I, 12 novembre

[47]          Cass. Sez. un. 31 ottobre 2001, Policastro, n. 42792, rv 220092.

[48]          Più recentemente Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17879 del 13/03/2014 Ud.  (dep. 29/04/2014 ) Rv. 260008, Presidente: Fiandanese F.  Estensore: Pellegrino A.  Relatore: Pellegrino A.  Imputato: Pagano ed altri. P.M. Fodaroni MG. (Parz. Diff.), (Annulla in parte senza rinvio, App. Napoli, 11/12/2012).